Alberto Stabile, Affari&Finanza, la Repubblica 18/2/2013, 18 febbraio 2013
PRIMAVERA SFIORITA E INVESTIMENTI FERMI IL MONDO ARABO DOPO LA RIVOLUZIONE
Beirut «E’ semplice, ho bisogno di cash per evitare la bancarotta ». Così, senza giri di parole, il ministro delle Finanze, Mumtaz al Said, ha spiegato pochi mesi fa ad un gruppo di businessmenegiziani che, se si voleva salvare lo stato, e la rivoluzione, non rimaneva altro che accettare il prestito di 4,8 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale, con l’amara medicina a base di tagli, risparmi ed economie che esso imponeva. A tutt’oggi, però, non soltanto il negoziato con il FMI, iniziato a settembre, non si è ancora concluso, ma il governo insediato dall’islamista Mohammed Morsi, l’esponente dei Fratelli Musulmani chiamato a guidare l’Egitto del dopo Mubarak, s’è mosso con tale e tanta incertezza da sollevare seri dubbi sulla sua stessa idoneità al ruolo. Non è un caso isolato. Ovunque, nel mondo arabo spazzato dai venti ormai lontani della cosiddetta Primavera, siano andati al potere i partiti islamici, come in Egitto e in Tunisia, o abbiano accresciuto la loro influenza negli affari di governo, come in Marocco, si assiste ad un procedere affannoso, contraddittorio, per aggiustamenti progressivi, piuttosto che in modo lineare, in base a chiare strategie. Mentre fenomeni come la disoccupazione giovanile o le diseguaglianze sociali o i deficit permanenti di bilancio, alla base delle proteste di due ani fa, non soltanto non hanno ricevuto risposte adeguate dai governi post-rivoluzionari, ma si sono nel frattempo aggravati.
Che i nuovi regimi arabi democratici, superato il tempo del furore, avrebbero dovuto misurarsi ben presto con i problemi reali che affliggono quel mondo, a cominciare dalla disoccupazione giovanile (i giovani tra i 18 e i 29 anni rappresentano la stragrande maggioranza di quelle società), della povertà diffusa, dello sviluppo economico che i regimi autocratici avevano riservato all’élite vicina al potere, era stata la previsione azzeccata di politologi apprezzati come il libanese Rami Khoury. E che a sopportare il peso di questa colossale emergenza economica e sociale sarebbero stati i partiti islamici che hanno tratto vantaggio da un movimento rivoluzionario che pure non avevano iniziato, è un’ovvia conseguenza dello sbocco democratico creato dalla Primavera. Oggi si dimostra che in Egitto, in Tunisia, in Marocco, ma anche in Yemen e domani probabilmente in Libia, governare in una situazione di crisi è un affare molto più complicato che combattere le autarchie del passato. «I segmenti più sofisticati dell’Islam politico hanno negli ultimi dieci anni elaborato raffinate teorie non soltanto sui problemi politici ma sulle più delicate questioni economiche sociali», dice l’economista egiziano Tarek Osman. «Tuttavia i problemi permangono insoluti e le teorie restano tali. Non un solo governante islamista ha maturato la più piccola esperienza su come definire, guidare o realizzare riforme macro economiche, strutturali o transitorie».
Mancanza di esperienza ma anche di conoscenza, o di curiosità verso quelle proposte teoretiche che potrebbero scompaginare le certezze ideologiche fornite da una visione strettamente religiosa dell’economia. Nella società islamica ogni risposta alle esigenze della società civile risiede, o sarebbe comunque reperibile nel Corano. Di questa visione integralista è frutto la presunzione di far funzionare in modo competitivo sul piano internazionale, un sistema bancario dove la nozione di interesse equivale a quella di usura ed è dunque proibita. E dove vige tuttora (perché derivante da un dettame religioso reiterato nelle scritture) l’istituto dello zakat, la rinuncia volontaria di una parte del proprio patrimonio a favore dei più deboli. Una redistribuzione che potrebbe apparire utile su scala nazionale ma è inadeguata di fronte alle dimensioni globali. Stretti tra i condizionamenti ideologici e le emergenze della crisi, i governanti post-Primavera hanno lanciato piani ambiziosi come il Progetto Rinascita, basati su una visione dell’economia più attenta alle esigenze dei poveri. Un’attenzione meritoria che però in termini pratici s’è risolta in un compromesso difficilmente praticabile tra capitalismo e socialismo, interesse individuale e nazionale, libertà d’impresa (ammessa dal Corano) e esigenze della collettività, profitto e sviluppo sociale. E comunque non è bastata a frenare l’aggravarsi della crisi. Senza una ripresa economica, senza il ritorno in massa dei turisti, l’unica vera fonte di valuta straniera, tenuti lontano non solo dall’instabilità permanente ma da misure demagogiche come il bando degli alcolici, senza una politica capace di attrarre investimenti stranieri e senza una ristrutturazione della spesa, l’economia egiziana e quella della Tunisia rischiano di affondare.
Mentre nelle piazze del Cairo, di Alessandria e di Porto Said, così come a Tunisi, folle di giovani e di diseredati manifestavano la più grande delusione verso i regimi post-rivoluzionari, sempre più inclini ad una visione egemonica del loro ruolo, i governanti chiamati in causa si tormentano impotenti col dilemma cruciale se seguire i “consigli” del Fmi tagliando le spese (quindi i sussidi da cui dipende la sopravvivenza delle masse egiziane e tunisine), a rischio di innescare una rivolta sempre più sanguinosa ma finalmente accedendo agli aiuti, oppure guadagnare tempo, sperando nel miracolo, o tentando qualche mossa azzardata. Al Cairo s’è tentata la carta della svalutazione: in un mese il pound ha perso l’8% contro il dollaro. Le riserve della Banca centrale, che prima della rivoluzione ammontavano a 35 miliardi di dollari, si sono ridotte a meno di 20 (vicino alla soglia critica dei tre mesi di importazioni). Il trono di Morsi ha traballato. In 24 ore, le misure di risparmio introdotte per ridurre il deficit pubblico (12% del Pil) sono state revocate.
A correre in aiuto dell’Egitto sono anche Qatar e Arabia Saudita, due Paesi che, malgrado professino rigore religioso, si sono da tempo adeguati al sistema finanziario globale. Anche la Tunisia, nel frattempo, s’è detta pronta a chiedere un prestito di 4 miliardi di dollari al Fmi. Perché se è vero che l’Islam politico ha nutrito la sua avversione contro l’Occidente con dosi massicce di critiche a Fmi e Banca Mondiale, strumenti finanziari del demone imperialista, fautori di uno sviluppo economico appiattito sugli interessi delle potenze dominanti contro il mito dello “sviluppo autonomo” dei paesi deboli, è anche vero che, nel momento del bisogno, come ha sottolineato Ibrahim Saif, economista egiziano del Carnegie Middle East Center, i governi islamisti nati dalla rivoluzione, hanno adoperato gli stessi strumenti dei vecchi regimi.