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 2013  febbraio 18 Lunedì calendario

LA TENTAZIONE DI PANSA NUOVO NOME A FINMECCANICA


Finmeccanica paralizzata. Sì, certo, dalla clamorosa inchiesta di Napoli e Busto Arsizio che ha condotto in galera il ceo del più grosso gruppo industriale pubblico italiano (poco meno di 70 mila dipendenti per un fatturato pari a circa un punto di Pil nazionale). Ma anche da un management inadeguato scelto da un azionista tentennante, miope, egoista. Perché Giuseppe Orsi, fino ad allora apprezzato manager dell’Agusta Westland, è arrivato al vertice della holding dell’aerospazio e della difesa per volontà di molti. Prima, innanzitutto, del governo Berlusconi.
La nomina di Orsi è frutto della lottizzazione tra Pdl e Lega, dell’interessato appeasement dell’Udc e del pressing lobbistico, sempre poco apparente ma molto efficiente, di Comunione e Liberazione. Ma è anche frutto dello scontro che, non solo sulle nomine pubbliche, si è consumato a suo tempo tra Gianni Letta e Giulio Tremonti. Poi, per conferma e promozione (Orsi assunse anche la presidenza di Piazza Monte Grappa dopo la cacciata di Pier Francesco Guarguaglini coinvolto in un’inchiesta da cui è stato in seguito prosciolto), dal governo tecnocrate di Mario Monti. Che, in questo caso, come in altri, ha mostrato la sua indecisione.
Una indecisione, contraddistinta dagli imbarazzi del ministro dell’Economia, Vittorio Grilli (l’ex moglie Lisa Lowenstein è stata tirata in ballo proprio da Orsi in alcune intercettazioni per presunte consulenze con il gruppo, ma mai confermate), e dall’ambiguità del titolare dello Sviluppo economico, Corrado Passera, che non si è mai capito che ruolo volesse affidare a Finmeccanica per il rilancio del nostro manifatturiero avanzato. Insomma, c’è un gigantesco concorso di colpa nello sfascio di Finmeccanica. E’ davvero uno dei fallimenti della nostra classe dirigente, perché Finmeccanica vuol dire innovazione, ricerca, tecnologia. Ogni anno investe due miliardi di euro in ricerca e sviluppo. Abbiamo altri gioielli? E non è forse un patrimonio di tutti?
Per ricomporre il puzzle – e non è detto che l’impresa abbia successo – non basterà Alessandro Pansa, il “secchione”, cinquantenne esperto di finanza ma sedotto dal fascino del prodotto industriale, neo amministratore delegato, formalmente non a tempo, ma certo destinato ad essere confermato o meno dalla prossima assemblea di aprile e soprattutto dal prossimo governo. E’ il prossimo esecutivo, infatti, ad avere in mano il pallino. E non è detto che sia una buona notizia per il futuro di Finmeccanica. Chi vincerà? Chi sarà il ministro dello Sviluppo? E chi andrà all’Economia? Quale sarà la maggioranza? Tutte questo domande, senza risposte per ora, finiscono per prolungare la paralisi di Finmeccanica.
Il gruppo non va bene. Il prossimo mese sarà approvato il bilancio 2012. Ma intanto, dati relativi ai primi nove mesi dell’anno scorso, l’indebitamento finanziario netto ha toccato la cifra di 4,8 miliardi di euro, con un incremento di circa il 4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre si è significativamente ridotto il patrimonio netto. Finmeccanica, diversamente da altri suoi concorrenti, fatica a generare cash flow. Gli ordini stanno progressivamente diminuendo, - 3 per cento, nel terzo trimestre del 2012, a quota 2,9 miliardi. Siamo in una situazione di guardia.
Gli effetti dell’inchiesta della magistratura potrebbero avere effetti devastanti sul futuro di Finmeccanica che molto dipende anche dagli appalti con il nostro ministero della Difesa e che potrebbero saltare (sono in gioco milioni di euro) se scattassero le sanzioni previste a carico delle imprese per la responsabilità sugli illeciti commessi dai propri amministratori. Ma un effetto, comunque, si è già visto: il governo di Nuova Delhi ha avviato la procedura per la disdetta del contratto da 750 milioni di dollari per la fornitura dei dodici elicotteri AW101 per la commessa dei quali sarebbe stata pagata una tangente da 51 milioni di euro. Finmeccanica rischia di finire nella black list del governo indiano che è il più grande paese importatore di armi. Non si può uscire da quel mercato. Non è affatto consolatorio il fatto che solo una minima parte dei componenti degli AW101 viene prodotta in Italia e che quindi il blocco delle commesse non avrebbe conseguenze immediate sull’occupazione e la produzione a Vergiate. L’effetto domino ci sarebbe comunque, diluito nel tempo.
L’immagine di Finmeccanica e la sua credibilità oggi sono fortemente compromesse. Ci sono manager delle aziende controllate che, di ritorno dall’estero, confidano di avere la netta sensazione di svolgere un lavoro inutile nel tentare di vincere le gare all’estero. La reputazione conta eccome. E diventa un handicap in mercati sempre più ristretti dove i gruppi europei anziché allearsi competono l’uno contro l’altro nonostante la sovraccapacità produttiva continentale in settori come quello della difesa. Non si può sfidare Boeing muovendosi in ordine sparso.
Tutti lo sanno che quello delle alleanze, dopo il fallimento (per le incursioni della politica) del mega merger tra Bae System e Eads, è un capitolo che andrà riaperto. E non potrà non coinvolgere Finmeccanica. Ne parlano i top manager delle multinazionali europee, ne parlano i ministri competenti di tutti i paesi. Però ci sono le elezioni. Prima in Italia e poi nella Germania di Angela Merkel. Una fase di stand by utile per ripensare la mission di ciascuno. E per fare, forse, quello che solo apparentemente sembra una provocazione: cambiare il brand di Finmeccanica, come sostiene Marco Bentivogli, segretario nazionale della Fim-Cisl. Chiudere anche nell’immagine una stagione. Dice: «Va cambiato il marchio di Finmeccanica. Ci vorrebbe un altro nome dietro al quale ci siano anche valori aziendali diversi».
Un turnaround. Che potrebbe estendersi al modello di relazioni industriali. Ancora Bentivogli: «Anche l’assenza di veri anticorpi all’interno del gruppo ha prodotto l’attuale situazione. L’inchiesta della magistratura dimostra che i meccanismi di audit interno sono saltati. Finmeccanica può cogliere questa occasione per diventare una palestra di innovazione nelle relazioni industriali, come già lo fu con il protocollo Iri degli anni Ottanta. Copiando, dunque, i tedeschi e dando vita a un Comitato di sorveglianza, composto per metà da rappresentati dell’azienda e per metà dai sindacati. Gli attuali osservatori paritetici, infatti, si sono dimostrati inefficaci».
Finora il piano industriale di Orsi (che Pansa pur non condividendo ha difeso per lealtà aziendale), con la concentrazione delle attività su difesa, aerospazio e sicurezza e l’abbandono progressivo dei settori no core (trasporti ed energia), è andato avanti a rilento. E’ stato realizzato l’accorpamento delle aziende del settore dell’elettronica con la nascita della cosiddetta Super Selex (la Selex Es) che – anche a proposito di brand – ha cancellato la Selex Sistemi Integrati guidata dalla consorte di Guarguaglini, Marina Grossi, prossima a patteggiare un anno di reclusione per concorso in corruzione nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti dell’Enav. Ma non c’è ancora il piano industriale e la quantificazione dei possibili lavoratori in esubero (dai 3 ai 5 mila) che allarma i sindacati.
All’appello mancano pure le cessioni che erano in buona parte il perno del piano Orsi. Da lì avrebbe dovuto ricavare entro il 2012 un miliardo di euro. Ma non c’è nulla. Ansaldo Energia, Ansaldo Sts e Ansaldo Breda fanno ancora parte del gruppo. La cui unicità ora appare rafforzata. La prospettiva dello spezzatino, dunque, tende a rientrare. Si affacciano all’orizzonte piani ambiziosi che forse risentono pure del clima elettorale: il Piano nazionale dei trasporti, oppure quello delle Infrastrutture. Vedremo.
Rimane un’ultima ipotesi: vendere Finmeccanica, o almeno tutto quello, cioè il settore della difesa, che la golden share non protegge? Scenario che lascia freddo anche Carlo Scarpa, liberista, economista dell’Università di Brescia: «Questo paese deve ancora decidere se ritiene di essere in grado di gestire un gruppo come Finmeccanica, cosa che finora non ha saputo fare. E’ una questione soprattutto di manager. Perché con i boiardi di Stato non si va da nessuna parte». Ecco, appunto. E allora si ricomincia daccapo, come nel gioco dell’oca.