Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 09/02/2013, 9 febbraio 2013
CIBO, CULTURA MILLENARIA
Nel salone centrale del Vittoriano sta crescendo un orto. Appena varcato l’ingresso, su un piccolo terreno recintato, verdeggiano file ordinate di carciofi, cicoria, lattuga, finocchi, cipolle e una gran quantità di erbe aromatiche. Sono state piantate in anticipo, per farle acclimatare in previsione della mostra che si inaugura il 12 febbraio e che resterà aperta al pubblico dal 13 febbraio al 7 aprile (ingresso da via San Pietro in Carcere). Intitolata «Culturacibo. Un’identità italiana», patrocinata da Expò 2015, promossa dalla presidenza del Consiglio dei ministri, dal ministero dell’Agricoltura e da quello dell’Istruzione, è la prima iniziativa di un percorso che porterà alla grande esposizione internazionale del 2015 a Milano. «Hanno già aderito centodieci paesi», anticipa Alessandro Nicosia che coordina la rassegna al Vittoriano. «Questo dimostra quanto il tema dell’alimentazione sia sentito in tutto il mondo».Massimo Montanari, che ha curato la mostra, ha ideato un percorso scientifico e storico-culturale, ma al tempo stesso didattico e popolare. Lo studioso lo definisce soprattutto «un percorso logico», perché si snoda in quattro sezioni che si aprono con la produzione del cibo e si chiudono con il suo consumo, passando per il mercato e la cucina. Si comincia con il territorio e la documentazione su come i campi, attraverso il lavoro dell’uomo, non solo producono cibo ma sono trasformati in paesaggi che il tempo ci ha abituati a percepire come naturali, mentre sono in gran parte artificiali, modificati dall’uso dell’aratro e dall’addomesticamento di piante selvatiche. Così dove un tempo crescevano macchie inestricabili oggi ammiriamo vigneti e uliveti, risaie e distese di grano o di foraggio, orti e frutteti. Questa trasformazione del territorio italiano è raccontata attraverso carte geologiche e fotografie aeree, modellini di sistemazione del terreno a terrazze e miniature di aratri, seminatrici, mietitrici. Una pianta dell’Impero romano tra il II e il III secolo ci fa vedere come alcuni elementi che caratterizzano l’alimentazione degli italiani - pane, vino e olio - risalgano alle origini della civiltà e siano patrimonio comune dei paesi che affacciano sul Mediterraneo. Antichi volumi di agraria ricordano che nel medioevo furono gli arabi a introdurre in Sicilia piante fino ad allora sconosciute nella penisola, come la canna da zucchero, la melanzana, gli spinaci, il riso, il limone e l’arancio amaro. E che tra il XV e il XVI secolo arrivarono dalle Americhe piante come il mais, i fagioli, il pomodoro, la patata, la cui diffusione influenzò profondamente i sistemi agrari e le abitudini alimentari del vecchio continente.Si scopre che il primo censimento dei prodotti enogastronomici italiani fu realizzato dal medico e giornalista Alberto Cougnet in occasione dell’Esposizione di Torino del 1904. E che il primo inventario fu redatto dalla guida gastronomica del Touring Club nel 1931, dove venivano descritti i caratteri della cucina e le specialità gastronomiche in regioni e province. Stampe, dipinti, manifesti e vecchie foto illustrano le specialità locali. In un angolo è allestito un piccolo mercato, con sacchi di iuta colmi di granaglie. L’insegna di un venditore reclamizza i «topini alla veneziana» con un grosso gatto che si lecca i baffi sotto la padella dove in realtà cuociono frittelle di farina dolce. Anche le cartoline pubblicitarie presentano prodotti il cui nome è legato alle varie città. «Già nei ricettari medievali e rinascimentali - racconta Montanari - sono numerosi i riferimenti cittadini. Il parmigiano per esempio, è venduto dappertutto in Italia, fin dal medioevo. La sua fortuna è legata a doppio filo al crescente successo della pasta, su cui viene grattugiato». Anche i cuochi, al pari dei pittori, dei letterati, dei musicisti, si muovono passando da una città all’altra. Come Maestro Martino, il cuoco più celebrato del Quattrocento, del quale viene presentato qui il «Libro de Cosina». O come Bartolomeo Scappi, che nel Cinquecento scrive ricettari in cui compaiono torte ripiene di verdure alla lombarda, alla bolognese, alla genovese, alla napoletana. Sarà Pellegrino Artusi a compilare, alla fine dell’Ottocento, poco dopo l’unità d’Italia, un libro di cucina con l’obiettivo di unificare il paese anche dal punto di vista gastronomico, pubblicando ricette condivisibili dalle massaie del nord e da quelle del sud. Lui era romagnolo di nascita e fiorentino d’adozione. Non sapeva cucinare. Le ricette destinate a entrare nel suo manuale furono provate e riprovate nella cucina di casa da Francesco Ruffilli di Forlimpopoli e da Marietta Sabatini di Massa e Cozzile (Pistoia). Artusi scriveva senza sosta, in un continuo alternarsi tra la penna e le pentole, tra la cucina e la scrivania (anch’essa in mostra). Con due gatti fedeli sempre alle calcagna. A loro dedicò la prima edizione de «La scienza in cucina». A Marietta e Francesco lasciò nel testamento i diritti d’autore.
Lauretta Colonnelli