Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 31/01/2013, 31 gennaio 2013
DE CHIRICO, UN MUSEO PER LE SUE 554 OPERE
Un museo per Giorgio de Chirico: la richiesta arriva da una cinquantina di studiosi, tra i quali Renato Barilli e Maurizio Calvesi, Lorenza Trucchi e Lorenzo Canova, Alberta Campitelli e Augusta Monferini, Serenita Papaldo e Giorgio Muratori, Elisa Tittoni e Marisa Volpi. Tutti chiamati da Mario Ursino a riunirsi in un comitato promotore che verrà costituto ufficialmente oggi nello studio di un notaio in via Baiamonti, Prati. Il museo dovrebbe accogliere le 554 opere che Isabella Pakszwer, vedova del maestro del Novecento, nel 1986 lasciò in eredità alla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, insieme alla casa affacciata su piazza di Spagna che i due coniugi avevano abitato fino agli ultimi giorni. Un lascito di 306 dipinti, 190 disegni e 55 sculture che oggi soltanto in minima parte è possibile vedere esposto sulle pareti della casa-museo-atelier. Il resto è chiuso nel caveau di un istituto di vigilanza al quartiere Aurelio. «Un caveau di appena dieci metri quadrati per circa cinquecento opere: è chiaro che in uno spazio così stretto l’accatastamento e la movimentazione delle opere sono estremamente difficoltosi», precisa Ursino, che del «pictor optimus» si occupa da tempo immemorabile, sia come redattore dell’inventario dei beni della Fondazione, sia come funzionario della Galleria d’arte moderna per la quale ha anche curato quattro anni fa la mostra su «De Chirico e il museo». «Fu proprio in occasione di questa mostra che ci accorgemmo del precario stato di conservazione delle opere custodite nel caveau. In mostra ne arrivarono 77 e ognuna fu esaminata, come da prassi, dai restauratori della Gnam», prosegue Ursino. Dalla relazione di Anna Barbara Cisternino, direttore dei laboratori di restauro, risulta infatti che le tele «presentano molte deformazioni dovute probabilmente all’accatastamento sbagliato l’una sull’altra», che gli angoli di queste tele sono deformati con conseguente caduta di porzioni di preparazione e colore, come nel tondo Doni (copiato per la seconda volta da Michelangelo), dove si riscontrano anche abrasioni e striature di nero, come di sporcizia. Sulla superficie pittorica di un altro dipinto risultano incollati «rimasugli di carta e peluria sintetica». Altri ancora «presentano vistosi sollevamenti con perdita di colore e necessitano di urgenti interventi di consolidamento per evitare l’estendersi del danno». Il velluto delle cornici è stropicciato e abraso, le stesse cornici sono in cattive condizioni, scheggiate agli angoli o attaccate da tarli.Nel 1990, quando venne redatto l’inventario, le opere erano ancora conservate nell’abitazione di de Chirico e risultavano integre. Si tratta di dipinti che gli studiosi ritengono indispensabili per un giudizio complessivo sull’intera produzione dell’artista. Tra i pezzi più importanti figurano capolavori come il «Ritratto di Isa in rosa e nero» del 1934, paesaggi e vedute di Roma eseguite negli anni Quaranta, alcuni esempi di nature morte (nature silenti, come le aveva ridefinite l’artista), con la frutta in primo piano sullo sfondo di paesaggi alla maniera di Courbet. E poi una gran quantità di dipinti, studi e disegni dall’antico, i cosiddetti «d’après», che de Chirico aveva realizzato osservando nei musei Rubens e Tiziano, van Dyck e Guido Reni, Watteau e Fragonard, Ingres e Canova. Raccontava: «Ho cominciato dal 1918 a frequentare i musei appunto per ricercare la qualità della pittura antica e ho ricavato molte copie di opere famose». E questo accadeva in un momento in cui il mondo dell’arte era in pieno fermento avanguardista, con il fauvismo e il cubismo, l’espressionismo e il futurismo che con la voce di Marinetti aveva appena proclamato di voler distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie.«Oggi - dice Ursino - nei musei italiani de Chirico non ha neppure una sala dedicata, come invece è accaduto a Parigi al "Musée d’art moderne de la ville", che raccoglie in un unico spazio le 61 opere lasciate alla Francia da Isabella Pakszwer nel testamento. Per il museo romano avremmo individuato anche degli spazi: una parte delle caserme dismesse di via Guido Reni, di fronte al Maxxi, che il ministero della Difesa ha recentemente consegnato al Comune; oppure un edificio in via Flaminia, accanto al museo Explora, tutto in laterizio e con bellissime capriate in ferro, oggi abbandonato. Per la realizzazione e la gestione il comitato cercherà sponsor privati».
Lauretta Colonnelli