VARIE 18/2/2013, 18 febbraio 2013
APPUNTI PER VANITY
GRILLO
CORRIERE DELLA SERA
DAL NOSTRO INVIATO
GENOVA — Clamore e calore. Beppe Grillo prima cattura i media con il caso del suo atteso (e mancato) intervento sul piccolo schermo, poi riceve l’abbraccio della sua città, Genova, per un comizio particolare, da leader dei Cinque Stelle, all’ombra della Lanterna. E proprio in piazza (un altro pienone dopo il tutto esaurito di sabato a Torino), lo showman si scalda, ricorda gli amici di infanzia e dice: «Se riempiamo Genova possiamo prendere l’Europa». Risate e applausi. Ripete come un mantra che «siamo in emergenza», azzarda: «stiamo diventando come la Grecia, forse siamo già come la Grecia». Su Mps dice: «Se ci fosse stato Pertini...». E aggiunge: «Si accorgeranno. Avranno lo sguardo dei generali fascisti finita la guerra e si chiederanno "dove è il nostro esercito?"».
Poi un fuoco di fila contro l’informazione. Doveva essere il giorno del suo grande ritorno in tv. Invece Grillo ha spiazzato tutti annunciando, nel primo pomeriggio, che l’intervista concordata con SkyTg24 era «saltata». E dopo il bando ai talk show (con il caso di Federica Salsi) e l’attacco alle telecamere di Raitre e TgCom, il nuovo no di Grillo alla tv dimostra che, sul piano mediatico, l’assenza del leader pesa anche più della presenza. Nessuna spiegazione per il cambio di programma, al punto da indurre l’emittente televisiva a replicare con una nota. «Nonostante l’impegno preso e dopo aver annunciato in diverse occasioni il suo ritorno in tv per domenica 17 febbraio su Sky Tg24, il leader del Movimento 5 Stelle fa sapere, senza alcun motivo evidente, che questa sera si sottrarrà all’intervista», spiega il comunicato. Il forfait (sul piccolo schermo) — preannunciato sabato sera all’emittente dallo staff dell’ex comico — dà il via a una ridda di critiche da parte di quasi tutti gli avversari politici. «Beppe Grillo non più disponibile all’intervista a SkyTg24, il senatore Monti invece vuole il confronto. Questione di stile», twitta Scelta civica. Secondo Pier Luigi Bersani il leader Cinque Stelle «non va più in televisione, perché qualche domandina te la devono fare. Mi devi spiegare come mai in piazza a Bologna citi Berlinguer e poi stringi la mano a CasaPound». L’ex dissidente (ora candidato con Rivoluzione civile) Giovanni Favia, invece, lo paragona al Cavaliere: «Le sparate di Grillo e Berlusconi si assomigliano sempre di più: entrambe finalizzate solo a raccogliere voti, senza pudore né rispetto per i cittadini». E anche Davide Barillari, il candidato governatore Cinque Stelle del Lazio, afferma: «Sono un po’ dispiaciuto. Peccato, avrei voluto vederlo e secondo me era importante andare in tv». Durissimo Di Pietro: «Caro Beppe, smettila di fare il piccolo Führer e accetta di rispondere alle domande».
Il fondatore del movimento, nel pomeriggio in piazza a Savona, cerca di smarcarsi rispetto alla necessità di apparire in tv. E lo fa a suo modo, sopra le righe, contrattaccando: «Questo Paese sta franando, la gente non ce la fa. In tanti mi chiedono aiuto come se avessi la bacchetta magica e queste cose mi danno delle pugnalate al cuore. Poi vedere questi politici in televisione, questa facce da c... che sono lì a darci soluzioni ai problemi che hanno creato loro. E allora noi dobbiamo dare un segnale». E a margine del comizio, ai giornalisti: «Non mi candido a governare il Paese, siete voi che non capite».
Il segnale dello showman è chiaro ma sul blog i militanti si dividono tra chi appoggia la sua scelta e chi, invece, è contrario. «Beppe sei un esempio», incita Simone. «Questa decisione avvalorerà le critiche degli altri partiti che ti accusano di non dire niente. Devi fare l’intervista!», scrive Filippo Tudisco. Ma a parlare oltre al web è la piazza, sempre gremita, anche ieri, prima a Savona, poi nella sua Genova. Solo una sosta, prima dello sprint finale che vedrà impegnato il leader Cinque Stelle in Lombardia, Molise e Lazio, non a caso le Regioni dove lo sforzo del movimento è doppio, con la corsa alle Regionali. Per l’ultima tappa del tour Grillo abbandonerà il camper e venerdì raggiungerà la Capitale in treno, su un regionale della Roma-Viterbo: una scelta simbolica di solidarietà con i pendolari di una delle linee più affollate del Lazio.
Emanuele Buzzi
MARCO IMARISIO
A lla fine siamo dovuti tornare al Sessantotto, fatidico per definizione. Un sabato di fine marzo, Giancarlo Pajetta sul palco contro la guerra americana in Vietnam e un mare di gente sotto di lui, un bagno di folla buono per la propaganda, finito subito sulla prima pagina de L’Unità del giorno seguente.
La foto di Beppe Grillo e dei trentamila in piazza Castello a Torino evocava una sensazione di già visto, ma così lontana negli anni da risultare mitologica e incerta al tempo stesso. Quello scatto, e quei numeri, hanno destato una forte impressione, sui social media e non solo. Con molte buone ragioni, perché l’ultimo trionfo personale di Grillo segna la rottura di un altro argine, nella politica che vive di simboli.
Appena a Natale sembrava finito. La dura reazione alla rivolta dei grillini emiliani aveva fatto emergere indubbie contraddizioni e annullato pretese di diversità rispetto al resto dell’offerta politica. A metà gennaio è cominciato lo Tsunami tour. Come già avvenuto per le comunali a Parma e per le regionali in Sicilia, la piazza ha fatto da trampolino, gli ha ridato slancio. Tutto è nuovamente cambiato, anche se in molti hanno fatto finta di niente. Sul suo blog, Grillo pubblicava foto di piazze piene, quasi sempre in località di provincia, accompagnate dalla dicitura ironica «non c’è nessuno». Nell’ultimo mese questa nuova sottovalutazione collettiva del suo movimento gli ha parecchio giovato.
Ma Torino è una svolta. Perché ha sempre rappresentato un’altra idea di politica, del tutto opposta a quella dell’ex comico. Lo stile estroverso, chiamiamolo così, di Grillo, è quanto di più lontano si possa immaginare dalla cultura politica torinese, e piemontese in generale. Non è neppure il caso di scomodare la sobrietà sabauda, Gramsci, Gobetti, l’azionismo e i miti giacobini. Basta guardare al passato recente. Torino è sempre stata la bestia nera del populismo leghista. È la città che non ha mai ceduto al mal di pancia, neppure quando Milano eleggeva sindaco il «barbaro» Marco Formentini, neppure quando, nel 2010, il voto delle altre province ha consegnato il governo regionale a Roberto Cota. Non è un posto di gente che esterna la propria passione, non è ribalta da politica spettacolo. Le grandi manifestazioni di piazza sono finite con i 35 giorni del 1980 e la marcia dei quarantamila a chiudere l’epoca delle adunate nell’unica città d’Italia che aveva un Pci di massa.
Negli ultimi anni piazza Castello è diventata il luogo dei concerti, la medal plaza delle Olimpiadi invernali del 2006. Grillo ci aveva fatto il suo secondo «Vaffa day», con risultati neppure paragonabili a quelli di sabato. La scelta di tornarci, senza passare per la più capiente piazza San Carlo, lasciava intravedere un certo timore reverenziale. La risposta, invece, è stata impressionante. Piazza Castello riempita in quel modo ha il valore di un giudizio politico netto, di un cambio di stagione in corso, dopo che le amministrative del 2011 hanno segnato un’astensione massiccia, inusuale a quella latitudine. Nella foto dei trentamila c’è il segno di ciò che potrebbe succedere tra una settimana.
Il successo di Torino non è estraneo alla scelta di rinunciare all’unica comparsata in tivù. Quel bagno di folla ha confermato a Grillo di non avere alcun bisogno degli estrogeni televisivi. Anzi, a questo punto l’invisibilità catodica diventa un ulteriore segno di distinzione. Ha la piazza, ha la rete, e tanto gli basta. Perché dovrebbe cambiare adesso, quando anche la concorrenza sta abbandonando gli studi televisivi per tornare in zona Cesarini al caro vecchio comizio? A una settimana dalle elezioni, il fondatore e unico titolare del Movimento 5 Stelle sa di potersi permettere un gesto di rottura, imponendo la sua scelta agli altri.
Certo, l’intervista televisiva implica il fastidioso inconveniente delle domande, che rischierebbero di mettere in risalto le incongruenze di un programma generico che si limita a enunciare buoni propositi senza indicare la strada e il metodo per raggiungerli. Ma ormai è andata, manca poco. E alcune reazioni all’annullamento della sua intervista a Sky sono pronunciate con una tracotanza che risulta fuori tempo massimo. Chi legge un segno di debolezza nella rinuncia di Grillo sbaglia di grosso. È l’esatto contrario.
ELISABETTA GUALMINI SULLA STAMPA
Grillo ha deciso di non apparire in TV perché non ne ha bisogno. Può permettersi di non cedere alle lusinghe del piccolo schermo e rimanere fedele alla strategia delle piazze, di cui è stato un frequentatore quasi monopolista, perché ha già vinto. Ha vinto per due motivi. Ha ormai tra le mani un partito-passepartout, che verrà scelto da settori diversi della società come grimaldello per diversi scopi. E potrà portare in parlamento 100 (o quasi) neofiti totali, pronti a dare battaglia sui nervi scoperti della classe politica. Con tutti i rischi annessi e connessi.
Primo. Il partito passepartout. Il Movimento 5 Stelle è un oggetto usato in misure rapidamente crescenti da almeno tre spicchi dell’opinione pubblica. I credenti della prima ora convinti di partecipare a una rivoluzione dal basso; i radicalmente delusi dalla politica le cui fila si ingrossano di giorno in giorno via via che gli scandali si inanellano in una catena senza fine; e infine quelli che, consapevolmente o meno, reagiscono alle caratteristiche dell’offerta di questa specifica campagna elettorale in cui alla fine dei conti assistiamo all’aggrapparsi all’ultima chance da parte di una classe politica molto invecchiata, che ha rinnovato il parco delle seconde e delle terze file con profili così così, rimanendo saldamente in sella. Berlusconi alla fine si è tenuto il Pdl. La macchina, il lessico e il non detto di Bersani vengono da molto, molto lontano. Dietro a Monti, continuano ad aleggiare Fini e Casini. Tutti leader politici abilissimi nel convincere quelli già convinti, bravissimi nel riscaldare gli animi di chi non se andrebbe via nemmeno sotto tortura. Nel frattempo il popolo di Grillo è cresciuto a dismisura, sempre più trasversale e interclassista, dal Nord al Sud, dai centri grandi ai centri piccoli e medi, dai giovani ai meno giovani, dagli uomini alle donne, dai secolarizzati ai cattolici. Persone che, rispetto agli elettori rimasti allineati ad altri partiti, manifestano molte più difficoltà a collocarsi in un qualche punto dell’asse sinistra-destra.
Secondo. I parlamentari «neofiti naïf». La distanza che corre tra il Grillo-guru e il suo popolo è sempre più abissale. Cittadini traboccanti normalità e pudore, che raccontano la politica con parole di calcolata mitezza e ingenuità, e che, tutto al contrario dell’icona che li guida, sussurrano le loro battaglie senza urla e senza scomporsi. Con un candore disarmante. Talmente poco trasgressivi da aver fatto dei gilet di Pizzarotti un must. Un popolo di pendolari (come i candidati presidenti in Lazio e in Lombardia che te lo sbattono in faccia con orgoglio), un popolo di tecnici informatici, un popolo che ti dice «Grazie al Movimento 5 Stelle sono candidato alla presidenza del Lazio, una cosa incredibile» (così Barillari). Appunto, da non crederci… Ma anche un popolo di credenti, apparentemente disposti a qualsiasi battaglia contro la malapolitica. Una spietatezza al contrario per un pubblico che ne è sollevato, dopo la nausea dei nani e delle ballerine, delle ostriche e dei festini, o dei funzionari di partito sedicenti statisti. Certo, il rischio che si corre - che corre Grillo e corriamo tutti noi - è che siano troppi, ingovernabili e che gravino su di loro troppe responsabilità. Che da loro finisca per dipendere la possibilità di dare un governo al Paese nella fase più critica che ci sia capitata dalla fine degli Anni Settanta.
Al netto di questa incognita, il partito di Grillo ha già ottenuto uno straordinario successo. Ha dato la mazzata finale al bipolarismo logorato e consunto, messo in scena in questa campagna elettorale, incapace di regalare visioni e progetti all’altezza dello stato di profonda disgrazia in cui versa il Paese. Si sa che molte persone decidono per chi votare nelle ultime settimane. I sentimenti anti-casta che sostengono Grillo rischiano di contaminare gli indecisi sull’onda di un indignato: «tanto peggio di così non può andare». Peccato che Grillo non sia la soluzione, e che i normali-per-bene non siano nemmeno lontanamente in grado di sopperire alla mancanza di una classe dirigente capace e lungimirante.
PAPA
CITTÀ DEL VATICANO — All’Angelus ha invocato Maria «nell’ora della prova». Ha scandito un’espressione fortissima, specie di questi tempi: «Nei momenti decisivi della vita e in ogni momento siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio?». È tornato a dire che chi fa parte della Chiesa deve «rinnovarsi nello spirito», rinnegare «orgoglio e egoismo», respingere le tentazioni diaboliche subite da Gesù nel deserto che hanno il loro «nucleo» nello «strumentalizzare Dio per i propri fini» preferendogli «il successo, i beni materiali, il potere», bisogna insomma scegliere tra l’«interesse individuale» e «il vero Bene».
E quando la sera Benedetto XVI ascolta con l’intera Curia romana gli esercizi spirituali, che ha voluto affidare al cardinale Gianfranco Ravasi, è il grande biblista a completare il quadro evocando, come «icona» della «sua futura presenza tra noi» dopo la rinuncia al pontificato, un passo dal capitolo 17 dell’Esodo, «la grande battaglia che nella valle si sta compiendo tra Israele e Amalek». Mentre la battaglia infuria, racconta Ravasi nel perfetto silenzio della cappella Redemptoris Mater, «Mosè sale sul monte e sul monte si mette in preghiera: "Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole"».
Il cardinale biblista, uno dei «papabili», tratteggia insomma «la funzione di intercessione» che Benedetto XVI avrà nella Chiesa dopo il 28 febbraio, e aggiunge: «Noi rimarremo nella valle, quella valle dove c’è Amalek, la polvere, le paure, i terrori, gli incubi ma anche le speranze, dove lei è rimasto in questi otto anni con noi. D’ora in avanti però noi sapremo che sul monte c’è la sua intercessione per noi».
L’immagine della battaglia biblica, dopo quella del «bivio», è indicativa dei travagli della Chiesa di oggi nel mondo. Eppure ciò che colpisce, di là dalla fatica dell’età, è la serenità e la lucidità di un Papa che sembra aver meditato da tempo e preparato ogni passaggio del suo lungo addio. Del resto «non è che "sembri", le cose stanno proprio così», precisano ai piani alti del Vaticano. I tempi della «rinuncia» scelti in modo che il successore possa celebrare la Pasqua. L’annuncio prima della settimana di «silenzio» degli esercizi spirituali che servirà a «liberare l’anima dal terriccio delle cose, dal fango del peccato, dalla sabbia delle banalità, dalle ortiche delle chiacchiere che soprattutto in questi giorni occupano le nostre orecchie», ha aggiunto Ravasi.
Oltretevere c’è chi invita a considerare l’ultimo concistoro convocato dal Papa il 24 novembre: il primo nella storia — salvo uno «mini» del 1924, quando Pio XI creò due cardinali americani — nel quale non ci fosse, tra i sei neoporporati, neanche un europeo. Il che, si spiega, non va letto tanto nel senso di considerare «papabili» non europei, ma come il segnale al futuro Pontefice e alla Chiesa a guardare sempre più «oltre l’Europa». Un segnale cui si sono aggiunti quelli seguiti all’annuncio: il successore dovrà avere «nel corpo e nell’animo» il «vigore» necessario ad affrontare «rapidi mutamenti» del «mondo di oggi», la Chiesa deve restare unita.
Chiaro che le parole del Papa all’Angelus, in Quaresima, valgano per tutti i cristiani. Ma resta ciò che fa notare il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, alla Radio Vaticana: «Il Papa ci insegna che non si occupano i posti, si serve la Chiesa». Si avvicina un Conclave quasi certamente anticipato alla prima metà di marzo: decideranno i cardinali in «sede vacante», a meno che non intervenga lo stesso Benedetto XVI. Perché il Papa è tale fino al 28 e sono ancora possibili «sorprese», si avverte. Benedetto XVI prosegue, senza concessioni alla commozione, asciutto come nel suo stile. Davanti alla folla — da 50 a 100 mila fedeli — non ha mai nominato la parola «rinuncia». Solo un ringraziamento in italiano per la «vicinanza spirituale in questi giorni». E le parole nei saluti in spagnolo dopo la preghiera mariana: «Vi supplico di continuare a pregare per me e per il prossimo Papa».
Gian Guido Vecchi
PISTORIUS
MICHELE FARINA
Una mazza da cricket insanguinata e la telefonata di Oscar al suo migliore amico, Justin Divaris, quando lei era distesa sul pavimento e la polizia non era arrivata: «Ho sparato a Reeva».
Il puzzle di quella maledetta notte a casa Pistorius non è stato ancora ricomposto in un’aula di tribunale. Ma ogni giorno porta pezzi nuovi, e nuove indiscrezioni filtrano dal silenzio poroso degli investigatori come dalle bocche poco cucite di amici e familiari. La polizia cerca tracce di droghe o di steroidi nel sangue dell’atleta. Torna a parlare il padre di Oscar e, per la prima volta, il padre di Reeva Steenkamp, la fotomodella quasi trentenne uccisa con quattro colpi di pistola e (forse) non solo quelli all’alba di San Valentino nella villa di Pistorius fuori Pretoria, una villa già piena di morte e di gente prima che gli agenti chiamati dai vicini bussassero intorno alle 4 del mattino.
L’arma — Secondo City Press, storico e rispettato giornale di Johannesburg, la prova che incastra il velocista è una mazza da cricket insanguinata trovata a casa di Oscar. Un cronista del Daily Mail ha raccontato di averne vista una (nel corso di un’intervista) dietro la porta della camera da letto, insieme con una mazza da baseball e la pistola sul comodino. Citando fonti anonime vicine alle indagini, City Press sostiene che la testa di Reeva è stata colpita violentemente (autopsia effettuata nei giorni scorsi). Oltre ai quattro colpi di pistola (alla testa, allo stomaco, al bacino, alla mano). Secondo questa stessa ricostruzione (che un portavoce della polizia non ha commentato senza però smentirla) il campione chiamò il padre dopo le 3 e 20 della notte chiedendogli di andare a casa sua. All’arrivo della famiglia, il ragazzo stava portando Reeva giù per le scale. Dettaglio confermato da un’amica (anonima) citata dal Sunday Independent. Anche lei fu chiamata da Oscar: insieme hanno cercato di rianimare la ragazza prima che il personale paramedico giunto sul posto (su indicazione della famiglia) ne constatasse la morte.
Le telefonate — Ha usato molto il telefonino, Oscar, quella notte. Justin Divaris, 27 anni, ha raccontato al britannico Daily Mail di aver ricevuto la chiamata dell’amico in lacrime poco prima delle 4: «My baba, I’ve killed my baba. God take me away». Usava molti vezzeggiativi per Reeva. La speciale Baba, la piccolina Nunu. Divaris, uomo d’affari, ha risposto: «Ma cosa stai dicendo?». E Oscar a ripetizione: «C’è stato un terribile incidente, ho ucciso Reeva». Che Dio mi porti via, ha detto il campione fuori di sé.
Il video — A portarlo via sono stati invece gli agenti di polizia. La rete eNews Channel Africa ha mandato in onda un filmato che mostra Reeva Steenkamp rientrare a casa intorno alle 18. La coppia non è più uscita. I vicini hanno raccontato di averli sentiti litigare. Gli investigatori, scrive The Guardian, ritengono che Oscar e Reeva a un certo punto siano andati a letto. Quando è stata trovata dai paramedici lei era in camicia da notte.
L’altro rivale — Dopo il cantante del reality, «il playboy campione di rugby». Il Sunday Mirror parla della gelosia di Pistorius provocata dal giocatore della nazionale Francois Hougard, 24 anni, a cui Reeva sarebbe stata legata in passato.
I padri — Il giorno dell’arresto del figlio, Henke Pistorius disse che bisognava far parlare Oscar. Da allora non ha fatto che parlare lui. È la strategia messa a punto dall’ex boss del quotidiano inglese The Sun ingaggiato per curare la vicenda mediatica? Henke ha detto al Sunday Telegraph che dietro la tragedia c’è «l’istinto dell’uomo sportivo». È probabile che dietro alla teoria dell’incidente (Reeva scambiata per un ladro) di cui aveva parlato un capitano della polizia quel mattino alle 8 ci sia proprio Pistorius senior, il primo a giungere a casa del figlio. Non corrispondono a nessuna strategia mediatica le parole del signor Steenkamp al Daily Mail: «Io e mia moglie June siamo distrutti. Abbiamo bisogno di trovare una risposta, ogni giorno chiediamo a Dio di aiutarci a trovare una ragione. Oscar? Non l’ho mai visto, mia moglie gli ha parlato al telefono. Non proviamo odio. Non so cosa gli sia successo».
Michele Farina
MPS
DAL NOSTRO INVIATO
SIENA — «Stanno per arrivare le sanzioni» su Mps, aveva anticipato il governatore Ignazio Visco sabato 9 a Bergamo. Con ogni probabilità saranno sanzioni molto severe: perché si fonderanno su un’ispezione durata dal 27 settembre 2011 al 9 marzo 2012, diventata un atto d’accusa impietoso su come il presidente Giuseppe Mussari e il direttore generale Antonio Vigni hanno gestito (male) la banca.
Dall’ispezione ha anche preso avvio il secondo filone d’inchiesta su Mps della procura di Siena, quello sui derivati che porterà anche alla scoperta della cosiddetta «banda del 5 per cento», cioè alle presunte tangenti private incassate dall’ex capo dell’Area Finanza, Gianluca Baldassarri, oggi in carcere.
Nell’avvio del procedimento sanzionatorio inviato a maggio 2012 a Mps e ai consiglieri, la Banca d’Italia descrive un Montepaschi in piena agonia finanziaria, con una liquidità praticamente finita da luglio 2011, che aveva perso la propria «identità» puntando tutto sulla finanza spericolata come i derivati Alexandria e Santorini, per tenere in piedi un bilancio e un patrimonio feriti dall’acquisto azzardato di Antonveneta per 9 miliardi nel novembre 2007, alla vigilia della crisi mondiale.
Liquidità negativa
Nell’estate 2011 quando scoppiò la crisi del debito sovrano il Montepaschi, nonostante i 1,9 miliardi di Tremonti bond e il fresco aumento di capitale da 2,2 miliardi, si trovò quasi senza più soldi, con una liquidità negativa «perdurante e crescente suscettibile di ostacolare il regolare assolvimento degli impegni dei pagamenti», sottolinea Bankitalia. «Solo agli inizi del 2012, dopo il ricorso a strumenti straordinari di provvista (fornita anche da Banca d’Italia, ndr), la situazione ha fatto registrate segni di miglioramento, restando comunque fragile».
Via Nazionale, allora guidata da Mario Draghi, aveva avviato con urgenza una seconda ispezione nel settembre 2011 dopo che i rilievi critici di quella del 2010 specie sul fronte della liquidità non erano stati risolti. Fu proprio durante questa seconda ispezione che, il 15 novembre 2011 — come ha ricostruito alla Camera il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli — Bankitalia convocò i vertici di Mps e della Fondazione per chiedere la sostituzione di Vigni.
Ma non c’era solo un problema di liquidità. Mps era anche un istituto praticamente fermo dal punto di vista industriale: «La redditività netta del 2011 è risultata deficitaria, la capacità competitiva in affievolimento, considerata l’ampia contrazione sia della raccolta, sia dei crediti». E con errori come i 15 miliardi di mutui «a tasso variabile con cap» (tetto massimo) «non adeguatamente remunerati», che portavano cioè alla banca nuovi clienti ma non utili.
Gli errori del board
La colpa, secondo Bankitalia, è nelle «iniziative contraddittorie» dei vertici, «non ispirate a criteri di sana e prudente gestione».
L’inizio dell’avvitamento è il periodo successivo ad Antonveneta: da quel momento, «come già evidenziato negli ultimi accertamenti ispettivi» Mps ha cercato di ottenere il massimo della redditività «di breve periodo anche in funzione compensativa dei costi di alcune scelte d’investimento e di sostegno al patrimonio con strumenti di non primaria qualità». Ma per riuscirci si è puntato tutto sulla finanza, sui derivati che spostano avanti nel tempo le perdite attuali: ovvero azioni «in larga parte estranee al profilo identitario del gruppo e, quindi, non sostenibili sulla scorta degli usuali parametri di governo e dei presidi di controllo».
A indirizzare le scelte avrebbe dovuto essere il consiglio di amministrazione che però, secondo la Banca d’Italia, aveva definito in modo «alquanto sommario le direttici di sviluppo», mentre «le strutture hanno interpretato con larga autonomia le opzioni di esecuzione, specie per quanto attiene alla finanza proprietaria». In sostanza, a Baldassarri era stata lasciata carta bianca. Il comitato direttivo non funzionava e i segnali d’allarme della vigilanza interna (audit) e del risk management sono stati «scarsamente considerati».
Le scommesse sui Btp
Nonostante i rilievi del 2010 della Banca d’Italia come «potenzialità di rischio», Mps aveva continuato a comprare Btp fino a 25 miliardi di euro per guadagnare sugli interessi puntando su titoli a sempre più lunga scadenza, e dunque più rischiosi anche se apparentemente non lo erano. Essendo presi a prestito, la banca ha dovuto fornire agli istituti creditori sempre più titoli a garanzia degli stessi finanziamenti, fino a 9 miliardi di euro, vincolando così la propria liquidità. In particolare erano ancora in piedi i due mega-contratti Alexandria e Santorini (con Nomura e Deutsche Bank) che «non venivano sottoposti a revisione critica di «costi/opportunità», nonostante fossero già state criticate nell’ispezione del 2010. Per garantire le due banche, Mps è arrivata a offrire come «collaterale» (garanzie) fino a 3,5 miliardi di euro, pari al 65% degli stessi titoli sottoscritti con i due derivati. In sostanza i contratti assorbivano gran parte della liquidità che avrebbero dovuto generare.
Ma il rischio dello spread se lo teneva (e se lo tiene ancora) nei bilanci solo Mps.
Fabrizio Massaro
fmassaro@corriere.it
SANREMO
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
SANREMO — Quando i numeri sono alti, la conferenza stampa di chiusura del Festival di Sanremo, la domenica mattina, è tutta un’esplosione di ringraziamenti e felicitazioni. E siccome i risultati di questa 63ª edizione targata Fazio-Littizzetto sono stati sorprendenti, il clima era decisamente festaiolo.
Proclamazione dei dati Auditel, davvero sopra la media in questi tempi di magra: la serata finale è stata seguita da 12.997.000 spettatori con il 53,80% di share. Il picco (73,48%) si è avuto con la proclamazione del vincitore Marco Mengoni; l’altro (15.542.000 spettatori) durante il siparietto di Fazio, Littizzetto e Balti. Insomma, cinque serate impeccabili certamente per l’Auditel: media settimanale di 11.936.000 spettatori (814.000 spettatori in più dello scorso anno), pari al 47,26% di share. In valori assoluti è il risultato più alto dopo il 2000, con il Festival condotto sempre da Fazio.
E quando uno gareggia solo con se stesso non può che rallegrarsi. «La libertà di cui abbiamo goduto, a una settimana dalle elezioni — sottolinea al telefono Fazio, volato subito a Milano per «Che tempo che fa» — è stata davvero inusuale». Perché questa libertà era un dato imprescindibile per confezionare un ottimo show. Ma quel che oggi rende più orgoglioso Fazio è aver vinto una scommessa «nazionalpopolare». Spiega: «È stato importante mantenere fede a un impegno, grazie anche a Luciana, ovvero tradurre questa idea di popolare nel modo migliore. Abbiamo dimostrato che per piacere non bisogna fare per forza cose volgari. Abbiamo corso un rischio, ma abbiamo vinto la sfida».
Ribadisce quello che più lo ha emozionato della finale: «Poter avere Harding e ascoltare Wagner e Verdi». E per restare in tema musicale, ma questa volta riferito alla gara, Fazio — lasciandosi alle spalle dibattiti e polemiche su televoto, giuria di qualità, talent sì talent no — riflette: «La classifica finale è molto interessante. Si pensi che il 45 per cento del voto popolare è andato solo a due cantanti (Mengoni e Modá), per cui non si capisce perché la giuria di qualità avrebbe dovuto ribaltare a prescindere il televoto. È intervenuta come ha reputato giusto fare».
Un podio che la soddisfa, Fazio? Qualcuno dice che in un Festival di alta qualità ci si aspettava vittorie diverse... «Mi soddisfa, eccome. Non credo sia giusto essere tranchant sui talent, non sono né bene né male. I talent show sono un’opportunità di farsi conoscere. Quel che una volta succedeva con Castrocaro». Sul verdetto si è espresso anche Nicola Piovani, presidente della giuria di qualità: «Come sempre vorrei vedere vincere l’opera, l’interprete, l’autore che più piace a me. Naturalmente non succede mai. Perché in una giuria i gusti e i giudizi sono diversi e alla fine è la somma che fa il totale».
Fazio ha poi concluso con una riflessione dal tono intimista: «L’allegria, l’amicizia e la complicità tra me e Luciana credo sia stata evidente. Ed è quello che mi porto dentro». Lucianina, la sua metà. Che ha pesato al 50 per cento in questo successo. Anche lei, ironica e dissacrante fino all’ultimo (esilarante il racconto del suo compagno malato, in albergo a Sanremo, che non segue la finale e che accoglie Luciana in camera chiedendole: «Ma chi ha vinto il Festival?»), ieri mattina ha reso omaggio al «suo» Fabio: «Mi pare di aver scalato l’Everest con le infradito — esclama —. Il merito di questo successo va a Fabio che con gli autori ha costruito questa trasmissione con precisione, costanza, determinazione. Poi sono accaduti veri miracoli, come Bianca Balti che ha inciampato sabato sera. Se avessi voluto scrivere una gag così non ci sarei mai riuscita, ma il destino è ricco e generoso. Un neo di questo Festival? Siamo in difetto di bellezza: abbiamo dovuto prenderla da fuori».
Ma c’è un altro vincitore a pieno titolo di questo Festival, ed è Giancarlo Leone, direttore di Rai1. «Un successo ottenuto senza cercare scorciatoie né effetti speciali — ha commentato con la sua calma che non lo ha mai lasciato a Sanremo —. Alla vigilia avevo detto che la televisione italiana aveva e ha bisogno di molte scosse, e una di queste doveva essere il Festival. Abbiamo vinto, portando in primo piano temi che difficilmente vengono trattati su Rai1». Il tutto senza perdite economiche visto che gli investimenti pubblicitari hanno completamente ripagato i costi. Ha ragione Lucianina, alle volte i miracoli accadono.
Maria Volpe