Roberta Scorranese, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
LA PLASTICA CHE SEGNA L’ORA ESATTA
La premonizione era arrivata sedici anni prima, da una piscina di Pasadena, California. «Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica», si sentiva dire Ben Braddock-Dustin Hoffman nel film di Mike Nichols Il laureato, nel 1967. E, d’altra parte, nel 1963 Giulio Natta aveva ricevuto il premio Nobel (con Karl Ziegler) per le sue ricerche sul polipropilene. Ecco perché quando, il 1 marzo 1983, venne presentata la prima collezione di orologi Swatch, per il mondo fu del tutto naturale riconoscere nella plastica una rivoluzione estetica e sociale, colorata e irriverente. Il primo modello, il sobrio GN701, oggi compie trent’anni e si affianca all’ultimo arrivato, il Touch, con tecnologia digitale. La dimostrazione che lo Swatch non è stato solo un orologio che ha cambiato l’economia occidentale, né una trovata. È stato il segnalibro di un lungo racconto sulla modernità.
Certo, all’inizio era una questione di soldi. Alla fine degli anni Settanta i modelli omologati e a basso prezzo che arrivavano dal Giappone avevano messo in ginocchio l’industria orologiera svizzera, che puntava sull’altissima qualità, i meccanismi complessi, i costi alti, quelli riservati alle cose «fatte per durare». Così, trent’anni fa, nel cuore laborioso e freddo del Giura, accadde una cosa quasi incredibile: migliaia di orologiai sfilarono silenziosamente per le strade, chiedendo alle istituzioni di salvare le manifatture che davano da mangiare a buona parte della popolazione dell’entroterra elvetico. Nel 1970 i dipendenti del settore erano 90 mila, mentre nel 1982 se ne contavano 50 mila in meno. Ci voleva una svolta.
L’intuizione venne a un avvocato di origine libanese, che si occupava di liquidare molte aziende decimate dalla crisi: alla fine degli anni Settanta Nicolas G. Hayek, insieme con altri, fondò la Société Suisse de Microélectronique et d’Horlogerie che, anni dopo il lancio dello Swatch, assunse il nome dell’orologio. Swatch vuol dire «Second Watch», ma anche «Swiss Watch». Svizzero, eppure alternativo. Il ragionamento era più o meno questo: perché arginare un mondo che vuole cose più semplici, accessibili, intercambiabili? Perché cercare di fermare un pianeta che vuole la plastica? La soluzione è «dargli la plastica», ma spostando il valore dall’interno all’esterno. Meno movimenti e più colore; materiali economici ma «d’artista»; prezzo alla portata di tutti ma senza l’incubo della riparazione di bottega. La rivoluzione, prima che nell’oggetto, stava nei valori.
Non è casuale che proprio in quell’anno l’inventore dell’idea di «postmoderno», Jean-François Lyotard, abbia pubblicato Il dissidio, un ragionamento sulla necessità di rendere «trasversale» la logica, in un mondo sempre più relativizzato. Non più gerarchie immutabili ma sapienti adattamenti, sfoltendo gli schemi fissi. L’oggetto allora si faceva portavoce di questo vento di trasformazione: lo Swatch costava poco proprio perché si poteva cambiare ogni sei mesi; la plastica non era l’oro, ma il valore glielo dava la decorazione firmata Keith Haring (uno dei numerosi artisti che da allora hanno collaborato in modo continuativo con la maison); i pezzi per il funzionamento erano ridotti da 91 a 51, ma l’orologio non correva il rischio di rompersi cadendo. Novità anche nel movimento, completamente diverso, di tipo elettronico. Non significava sminuire il valore, ma semplicemente spostarlo. O, se vogliamo, annusare l’aria che tira. Perché il mondo stava cambiando in questo senso.
L’anno prima c’era stato l’esordio di Madonna, lontanissima dalla coerenza autoriale (per non dire immobilismo) di un Dylan, ma apprezzata perché «camaleontica»: sempre la stessa eppure diversa nel look e nella ricerca musicale (spaziava dal pop alla ballata al blues) a ogni nuova uscita discografica. Come David Bowie, un altro sperimentatore di generi e capigliature. Così anche lo Swatch si proponeva come un oggetto non più da venerare, da aspettare come regalo per un’occasione importante. Ma un oggetto da indossare, possedere realmente, cambiare a seconda dell’umore.
Il primo modello era semplice e si accordava con ogni abito, poi vennero le varianti. Come il Don’t be too late («Non fare tardi»), monito allo yuppismo rampante dell’epoca; quindi i disegni di Haring, Rotella, Paladino. In questi trent’anni sono stati coinvolti anche outsider come Akira Kurosawa e Yoko Ono. Più recentemente anche Moby, il re della dance moderna (fatta di citazioni, replicazioni e motivi ripetuti), ha dato vita a un modello, il Little Idiot. In quegli anni l’orologio cercò di adeguarsi anche all’allora nascente fenomeno Internet: nel 1998 uscì lo Swatch Internet Time, che divideva il giorno in mille parti definite «beat». Ovvero: il mondo senza fusi orari. Sin dall’inizio è stata coltivata la strategia dei «pezzi limitati», così da inaugurare una nuovissima, strapop, forma di collezionismo. Hayek non aveva fronteggiato la tigre: l’aveva cavalcata, come ogni uomo che sa capire il tempo.
Una rivoluzione molto simile a quella che, negli stessi decenni, stava cambiando il volto di Benetton: materiali accessibili ed esplosione di colori, un marketing sapientemente orchestrato e la ricerca di una coolness come quella che, in anni recenti, solo i prodotti di Apple hanno saputo ricreare. Non a caso Steve Jobs è stato l’artefice di un altro ribaltamento dei valori, condivisi e accessibili. Come dire, non basta disegnare un logo e diffonderlo in modo virale: se non ha dietro uno stile di vita, un messaggio che colpisca al cuore e che coinvolga, non farà mai presa.
Anche nel design, in quel periodo, il collettivo Memphis (fondato da Ettore Sottsass, Michele De Lucchi e altri) proponeva colori accesi, pezzi intercambiabili, laminati plastici, forme bizzarre, citazioni imprevedibili. Allo stesso modo gli orologi Swatch affiancavano i décollage di Rotella e le tinte accese di Nam June Paik. La prima collezione era molto diversa. Fu disegnata da Ernst Thonke, Jacques Müller ed Elmar Mock: forma classica, spigoli arrotondati, una base perfetta per successive, eventuali modifiche. Automazione dei metodi di lavoro, coinvolgimento di designer, artisti e esperti di marketing. Un intelligente recupero delle lancette, che la produzione giapponese aveva soppresso per l’asettico pragmatismo digitale. L’orologio costava 39 franchi, meno di 50 mila lire, e il primo anno vendette un milione di pezzi. In trent’anni la produzione di orologi è arrivata a sfiorare il miliardo. Ogni pezzo era ed è sempre stato studiato per adattarsi a un carattere.
C’era il Kiki Picasso per gli chic, ma in tempi di angosce per la crisi economica, nel 1991, una scritta ammoniva: «You don’t live in a nine-to-five world», «Non vivi in un mondo dalle nove alle cinque». Ossia: il lavoro non è tutto. Non lo indossavano solo gli yuppies o le aspiranti modelle ventenni: i banchieri lo alternavano al Rolex. Perché non valeva di meno: aveva solo un valore diverso. In Italia tra gli anni Ottanta e Novanta, si videro scene che oggi accompagnano il lancio del nuovo iPhone: code albeggianti davanti ai negozi, voli in America per l’ultimo modello, attese spasmodiche per una produzione che astutamente limita i pezzi, fa crescere le aspettative.
Le aspettative, appunto. La capacità di intuire prima ancora che i gusti della gente, i «desideri reali» delle persone (accessibilità, economicità, bisogno di cambiare continuamente). Il successo di Swatch si potrebbe definire un misto di marketing e filosofia. Cosa che d’altra parte caratterizza tutta la nuova ricerca in fatto di orologi. La Apple ha già annunciato l’iWatch, il segnatempo digitale trasparente, basato sul sistema operativo iOs e in grado di adattarsi perfettamente alla forma del polso. Uno smartphone da portare addosso, insomma, visto che la tendenza è chiara: la tecnologia diventa sempre più mobile, indossabile, quasi da fissare sulla pelle. Come se volessimo rendere il tempo un’appendice di noi stessi. Si può fare? Chissà.
Roberta Scorranese