Claudio Colombo, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
I PUGNI DI ALI’, LA MANO DELLA MAFIA
Se nasci in una piantagione di cotone dell’Arkansas, tredicesimo di 25 figli, senza un padre e un nome certi; se neppure tua madre, che tutti al villaggio chiamano Big Hela, ricorda esattamente l’anno in cui ti ha messo al mondo; se a 15 anni sei già in galera perché ti diverti a massacrare di botte la gente che stai rapinando; se vieni identificato dalla polizia dopo un furto di pochi dollari perché, meschino, indossi sempre la stessa sgargiante camicia; se tra le sbarre di un penitenziario del Missouri diventi pugile grazie a due cappellani del carcere che intravvedono in te un potenziale fighter; se, quando esci, dimentichi che la boxe è dignità e rispetto delle regole e ti trasformi in un pupazzo nelle mani della mafia; ecco, se nella vita sei tutto questo, per scelta o per caso, un giorno potresti diventare uno come Charles L. «Sonny» Liston. Sarai un pugile grande, ma non un grande pugile, vincerai il titolo mondiale dei pesi massimi — massima aspirazione dello scrittore Jack London —, guadagnerai molto denaro e sarai circondato da donne fantastiche, auto di lusso, hotel a cinque stelle, bistecche a volontà. Ma rimarrai, sempre e comunque, «un» Sonny Liston: uomo malnato e morto anche peggio, forse ucciso, o forse no, di sicuro trovato nel 1971 in un appartamento a Las Vegas sette giorni dopo il decesso, e ciò basta per immaginare in che condizioni si presentasse il cadavere.
Ecco: quest’uomo corpulento e dal pugno definitivo, così forte e disponibile da ingolosire la malavita che viveva di scommesse sulla boxe, un giorno d’inverno del 1964 affrontò il suo esatto opposto, un pugile di nome Cassius Marcellus Clay, un giovanotto di 22 anni scaltro e intelligente, veloce di braccia, gambe e testa, in grado di ridicolizzarti con una battuta, un gioco di parole, un guizzo lessicale. Ci vuole coraggio a definire «orribile grosso orso» uno che, nel 1958, aveva colpito così forte Wayne Bethea da fargli perdere, con un solo pugno, sette denti, ritrovati nel numero di cinque sparsi per il ring, e di due conficcati nel paradenti.
Il 22 luglio 1963 Cassius Clay aveva assistito al secondo match fra Sonny e Floyd Patterson, e alla fine del combattimento, durato appena 129 secondi, era balzato sul ring per dire che lo spettacolo non gli era piaciuto, che il vero campione era lui e che quel tizio che aveva vinto, Sonny Liston, era soltanto «a big, ugly bear». A cose fatte, molti anni più tardi, in una parentesi di verità in mezzo a migliaia di frasi esagerate, Cassius Clay avrebbe confessato di aver vissuto con terrore i giorni che avevano preceduto la sfida di Miami Beach, il 25 febbraio 1964. «Sapevo che Sonny colpiva duro e che era deciso a uccidermi. Ma io ero là, e non avevo scelta: dovevo salire sul ring e combattere». Era questa la grandezza di Clay-Ali: nascondere le sensazioni, e soprattutto le paure, con un ribaltamento psicologico fatto di chiacchiere, insulti, provocazioni. L’arma virtuale, quasi sempre vincente, che precedeva l’azione sul ring.
In realtà, Liston aveva deciso di non uccidere Clay: voleva soltanto farlo soffrire lentamente, prima di ricacciarlo nel girone dei presuntuosi. La vigilia del match, in un crescendo parossistico di rimpalli verbali, il Grande Orso aveva lanciato una specie di ironico appello al suo rivale: «Cassius, sei il mio million dollar baby: sto pregando perché non ti succeda nulla prima di domani sera». In Liston era forte la convinzione di doversi misurare con un innocuo squilibrato, ma forse non aveva fatto i conti con il contesto nel quale era nata l’idea della sfida per il titolo dei massimi.
L’origine del combattimento fu infatti dettata dalle esigenze dei clan malavitosi che ruotavano intorno al mondo della boxe americana negli anni Cinquanta e Sessanta. Dall’esordio al professionismo, nel 1953, la carriera di Liston era nelle mani della mafia guidata da Frankie «the Grey» Carbo, figlioccio di Vito Genovese, il capo dei capi che ispirò il personaggio del Padrino a Mario Puzo e a Francis Ford Coppola. La boxe era fonte di grandi guadagni, grazie al vorticoso giro di scommesse sui match truccati. Il «patto» garantiva a Sonny un buon futuro, nonostante le sue borse finissero in gran parte nelle mani dei suoi padrini: per ogni incontro il 52% spettava a Carbo e il 24% a Josep Pep Barone, altro big della mafia italo-americana. Per l’Orso, soltanto briciole.
Quanto a Clay, astro nascente dopo la vittoria olimpica nei pesi mediomassimi ai Giochi di Roma ’60, aveva capito che la sua carriera era già arrivata a un bivio: perdere contro Liston avrebbe significato rientrare nei ranghi. Vincere gli avrebbe consentito il balzo decisivo verso la gloria. Il giovane Cassius si trovava anche a una svolta della vita: qualche settimana prima della sfida contro Liston, cominciarono a girare voci sul suo legame con i «musulmani neri» di Elijah Muhammad, potente capo della Nation of Islam, l’organizzazione islamica che predicava la completa separazione dalla società bianca. Clay non smentì, circostanza che fece infuriare gli organizzatori, convinti che la notizia potesse pesare negativamente sul buon esito economico dell’evento. Fu raggiunto un compromesso: nessun black muslim, Malcolm X in testa, all’epoca assiduo accompagnatore di Clay, si sarebbe dovuto aggirare per Miami Beach fino al giorno della sfida. Il giorno dopo, da vincitore, Clay annunciò al mondo di essere diventato Ali. Muhammad Ali.
Fu Frankie Carbo a scegliere il giovanotto come sfidante di Liston, forse convinto che Sonny ne avrebbe fatto polpette. O forse no, visto che ciò che accadde sul ring generò più ombre che entusiasmi. Il divario tra i due pugili sembrava enorme: dei 45 giornalisti presenti a Miami, 43 indicarono Liston come favorito. Ma fu l’andamento delle quote degli allibratori ad alimentare pesanti sospetti: la quota di Clay, la cui vittoria era data 7-1, nell’imminenza del match passò a 2-1. A che cosa era dovuta questa imbarazzante volatilità delle puntate?
Il combattimento, sul ring del Convention Center, ebbe un andamento che confermò le perplessità: Liston, lento e apparentemente fuori condizione, subì fin dal primo round la maggior agilità di Clay, e non riuscì mai a inquadrarlo per mandare a bersaglio il suo terribile gancio sinistro. Gli spettatori strabuzzavano gli occhi per la sorpresa. I meno disincantati, potevano cominciare a contare il guadagno della scommessa: l’orribile orso, più anziano di una decina d’anni, stava soccombendo davanti alla farfalla di Louisville. Prime tre riprese a favore dello sfidante. Ma qualcosa di strano accadde nel quarto round: Clay tornò all’angolo con gli occhi gonfi e doloranti. Non riusciva a vedere bene, era sul punto di abbandonare: il suo allenatore, Angelo Dundee, gli pulì il viso con energiche spugnate d’acqua. Il clan di Clay sostenne poi che i «secondi» di Liston avevano cercato di barare, cospargendo i guantoni di Sonny con una sostanza urticante. L’accusa non fu mai provata. Furono attimi di panico. Dundee spronò il suo pupillo: «Non possiamo andar via ora!». Nel sesto round, dopo un quarto e un quinto di pura sofferenza, Clay tornò a vedere bene e riprese il controllo del match. Liston sembrò sempre più goffo e intristito. All’inizio della settima ripresa, non si rialzò dall’angolo: sentiva un dolore fortissimo alla spalla sinistra. Fu dichiarato sconfitto per k.o. tecnico. Nel 1965, dopo la rivincita persa da Sonny per un pugno-fantasma che nessuno vide, un’inchiesta federale stabilì che una società controllata da Frankie Carbo avrebbe assicurato a Liston, che ne era il presidente, il 46% degli introiti dei futuri combattimenti di Muhammad Ali. La mafia del ring aveva imposto la sua legge.
Claudio Colombo