Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
E IL FOTOGRAFO FERMO’ IL CAVALLO AL GALOPPO
Fu una scommessa? Gli storici lo negano, e se ci fu non possiamo considerarla un grande affare. Secondo la leggenda erano in palio 25 mila dollari. Ne vennero spesi 50 mila — un milione di dollari attuali — per decretare il vincitore e dirimere la questione. I cavalli al galoppo staccano tutti e quattro gli zoccoli dal suolo, dettaglio che agli scienziati e a certi osservatori ottocenteschi pareva un insulto alle leggi naturali.
Sosteneva con convinzione la teoria dello stacco il miliardario Leland Stanford, grande appassionato di cavalli da corsa. Bisognava trovare un modo per dimostrarlo al di là di ogni dubbio. Ci riuscì arruolando nel 1872 il fotografo Edward Muybridge, che a San Francisco godeva di una certa notorietà. Si dilettava con le immagini stereoscopiche, alle origini del cinema a 3D periodicamente riproposto nei momenti di crisi. Aveva fotografato le rocce e le cascate della Yosemite Valley, i fari affacciati sul Pacifico, il nuovo territorio dell’Alaska con i suoi nativi (e la guerra che li sterminò), e i Woodward’s Gardens, nuovissimo parco dei divertimenti con zoo, acquario, un giardino con cerbiatti imbalsamati. Per gli spostamenti fuori città si era costruito «The Flying Studio»: una tenda dotata di camera oscura.
L’apparecchio fotografico — una serie di macchine operanti in successione — avrebbe fissato sulla lastra quel che l’occhio umano non riusciva a cogliere. Aumentando la luce e riducendo i tempi di esposizione per evitare le immagini sfuocate, nel 1878 Muybridge fissò le immagini del cavallo al galoppo. Tanto celebri da far parte ormai della cultura popolare. Dopo essere state l’avanguardia tecnica della fotografia, oscillante a quei tempi tra la scienza e il fenomeno da baraccone, e aver affascinato le avanguardie artistiche.
Leland Stanford — governatore della California che nel 1891 fonderà la Stanford University in memoria del figlio morto sedicenne — era diventato enormemente ricco con la Central Pacific Railroad, la ferrovia che collegava lo Utah alla California. Non senza polemiche: lo scrittore Ambrose Bierce lo additò come una «piovra» che strozzava contadini, fabbriche e politici rivali. Come tutti i miliardari partiti da una drogheria, si era fatto costruire a San Francisco una sfarzosa magione da 50 stanze. I diamanti per la moglie li comprava a etti, e pagò un pittore per dipingere un quadro con tutte le collane, i diademi e gli orecchini. Le spettacolari dimostrazioni di Edward Muybridge — ormai pochissimo distanti dal cinema grazie a un proiettore di sua invenzione — si tenevano nella sala pompeiana con ori e affreschi.
In The Inventor and the Tycoon — «L’inventore e il magnate» — Edward Ball racconta la strana coppia (il libro è appena uscito da Doubleday, 469 pagine illustrate, quasi un centinaio solo per le note, la bibliografia, un indice da sogno). Quando si incontrarono, il mecenate americano Stanford aveva 48 anni, i cavalli erano una passione recente. Chi dice per ordine del medico, chi per imitare i nati ricchi, chi per contrappasso, perché le ferrovie avevano reso il viaggio in carrozza un ricordo del passato. Il suo protetto inglese Muybridge ne aveva 41, e aveva già vissuto parecchie vite. Nato a Kingston nel 1830 con il nome Muggeridge, era arrivato venticinquenne nella California degli avventurieri e della corsa all’oro. Aveva commerciato i libri, i suoi primi lavori fotografici erano siglati Helios. Sulla tomba, fece scrivere «Eadweard Muybridge», secondo l’antica grafia britannica.
«Un Walt Whitman pronto per recitare Re Lear», lo definì un giornalista, mettendo insieme l’aspetto da patriarca con la barba lunghissima e la passione per il paesaggio americano. A leggere Edward Ball — che adotta il metodo Muybridge per scomporre le vite parallele in una serie di istantanee — il fotografo sembra uscito da un libro di Oliver Sacks. Aveva l’aspetto di un vagabondo, con i vestiti che cadevano a pezzi e buchi nel cappello. Mangiava formaggio in precario stato di conservazione, non disdegnando i vermi. Nel 1860 — quando ancora la ferrovia non esisteva e servivano 40 giorni da New York a San Francisco — rimase vittima di un terribile incidente mentre viaggiava in carrozza. Fu sbalzato contro una roccia, impiegò un annetto a riprendersi: aveva perso l’udito, il gusto, il tatto, e — ironia della sorte per uno che cambierà il nostro modo di guardare le cose — vedeva doppio. Per le ultime cure tornò in Inghilterra, dal dottor William Gull, celebre per gli studi sull’anoressia (e per essere sospettato di essere Jack lo Squartatore).
Dall’incidente derivò, dicono alcuni, il suo carattere irascibile. Nel 1874, con una Smith & Wesson, uccise l’amante di sua moglie. Il processo fece scalpore, fu invocata l’incapacità di intendere e di volere — agli atti una fotografia dove Muybridge si sporge da un precipizio, in posa da suicida. L’imputato fu assolto: aveva sparato davanti a testimoni, ma i giurati, quasi tutti sposati, pensarono a un delitto d’onore. Del processo si ricordò nel 1982 Philip Glass per l’opera The Photographer: nel libretto, gli interrogatori e le lettere del fotografo alla consorte.
L’omicidio non guastò l’amicizia. Il mecenate finanziò le successive ricerche e il tour europeo: tra il pubblico a Londra c’erano Aldous Huxley e il principe di Galles. Litigarono quando Stanford pubblicò The Horse in Motion senza citare Muybridge. Non c’erano neanche le «fotografie istantanee», sostituite da disegni e incisioni (qui non era dolo, ma difficoltosa riproducibilità tecnica). Il fotografo disse: «Credevo fosse un amico, ha rubato il mio lavoro». Il miliardario rintuzzò: «Il successo gli ha dato alla testa».
Muybridge continuò le ricerche sul movimento degli animali e degli umani all’Università della Pennsylvania: le immagini formano una sorta di dizionario studiatissimo dagli animatori. C’erano ginnasti, lottatori, anche signorine nude che fumavano sigarette o si baciavano. La modella preferita si chiamava Catherine Aimer, le sequenze erano in mostra alla Tate Britain nel 2010, Francis Bacon le aveva studiate per i suoi ritratti.
I pittori spodestati, all’epoca, si divisero tra apocalittici e integrati. Chi diceva «quante cose abbiamo sbagliato, dobbiamo rifar tutto». Chi diceva — come Auguste Rodin — che era la fotografia a mentire: nella realtà, il tempo non si arresta. Muybridge usò tutto il suo talento per fermare l’attimo e renderlo visibile. Chissà cosa avrebbe pensato dell’ultima invenzione internettiana: le foto che dopo pochi secondi si autodistruggono.
Mariarosa Mancuso