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 2013  febbraio 17 Domenica calendario

LE FERITE DI GUERRA DEL GIOVANE DORFLES

Si sa che le strade e ancor più i tempi della poesia sono assolutamente imprevedibili. Qualcosa di anacronistico, di trasversale, di fuori tempo e di fuori luogo, in qualche misura fa sempre parte dell’evento poetico, sia dal punto di vista della sua costituzione intrinseca, sia da quello delle sue relazioni esterne. I lettori di poesia conoscono bene questa modalità di trasmissione carsica, un poco sfasata, ma proprio per questo tanto meno passiva o gratuita. Ciononostante, è difficile immaginare un esordio più singolare delle Poesie di Gillo Dorfles, raccolte e pubblicate a distanza di 60-70 anni dal periodo della loro composizione. L’«"opera prima" di un intempestivo e attardato versificatore», così l’autore ha definito il libro nella paginetta che accompagna i testi. E davvero leggendo queste poesie si entra in una particolare oscillazione e bruciatura reciproca dei tempi, perché al piccolo libro-meteorite che dovrebbe raccontarci qualcosa della situazione originaria in cui le poesie sono state concepite e vanno comprese, si sovrappongono inevitabilmente il destino e il volto di questo signore, Gillo Dorfles, appunto, che dalla metà del secolo scorso a tutt’oggi rappresenta uno dei pochi maestri riconosciuti della critica d’arte e del pensiero estetico contemporaneo. Le Poesie sono nate in medias res negli anni difficili della guerra e immediatamente successivi (1941-1952 gli estremi cronologici), eppure, in modo forse un po’ indebito, si rischia d’interrogarle come se contenessero l’oroscopo di tutta una vita.
Nella sua articolata introduzione Luca Cesari riportata un aneddoto molto bello che ha raccontato lo stesso Dorfles in un frammento di diario datato 1947. Siamo a Trieste — dove, lo ricordo, Dorfles è nato nel 1910 (uno o più anni prima di Bertolucci, Caproni e Sereni, per intenderci) — e il giovane apprendista poeta si è recato in visita a uno scettico, prevenutissimo Umberto Saba per sottoporgli le sue poesie. Ma ecco che Saba «nel leggerle brontola un po’ seccato: "Bel, bel, ti xe molto abile …". Poi però si corregge: "Ti manchi de cuor, no xe vera poesia. Però le podessi aver successo; per la modernità dei versi"». La modernità dei versi: a modo suo Saba, che possedeva un orecchio assoluto, aveva capito subito tutto, a partire dall’appartenenza di Dorfles a un tipo di orientamento, di dimensione poetica molto distanti dal proprio. Erano gli anni di Montale, di Ungaretti, di Quasimodo, dell’ermetismo, e comunque di una poesia volta a spezzare nell’oggettività della rappresentazione, e dunque in un distacco di natura ironica, il filo diretto che Saba intendeva invece istituire tra le parole e il cosiddetto cuore.
Tra i riferimenti che si sono fatti, in ogni caso, è quello di Montale di gran lunga il più importante. Sua l’influenza maggiore sulla poesia di Dorfles: «Non pesa l’estate / Non pesa la cappa di stagno / Né lo scafandro del palombaro / — Spoglia vuota dagli immobili / Occhi di vetro che sporge / Sul filo dell’acqua — / Ma pesa il ricordo». Si tratta soprattutto della predilezione per una sonorità marcata, un poco dura, per un rilievo timbrico che coinvolge insieme la musica verbale e l’immagine come depositari primi e ultimi del significato. Di conseguenza, assai meno attiva, al di là di qualche elemento comune, risulta la presenza della scuola ermetica, di cui Dorfles non condivide la premessa fondamentale, vale a dire l’ideologia del mistero e dell’inesprimibile. Al contrario Dorfles si aggrappa al paesaggio, alla materia, alla res, per cercarvi non un punto di fuga ma un approdo, una minima certezza o stabilità. E infatti la sua rappresentazione, anche per la ricerca piuttosto ardita del lessico, è sempre puntuale, franta, un poco scolpita. Si compone di individui discreti, di particolarità, di eccezioni emblematiche. Dorfles, insomma, è un laico netto, come testimoniano peraltro le amicizie e i compagni di strada degli anni della formazione e maturità: si va dai principali frequentatori di casa Svevo, come Bazlen e Debenedetti, appunto a Montale, fino a Solmi, Anceschi, Ferrata.
Proprio la relazione col paesaggio, ma anche, più profondamente, con l’elemento tellurico inteso come garanzia di resistenza e insieme come fondamento di una possibile rigenerazione non soltanto personale, costituisce il motivo centrale di queste poesie, la loro vera ragione. Il libro, come ho ricordato più sopra, racconta la ferita degli anni di guerra su un’identità che si riconosce incerta, indeterminata, spaesata, tra luoghi e confini che si contraddicono, che non sono più tali. La radice si è rotta, eppure il riferimento basico costituito dal paesaggio naturale e antropologico, anche se ridotto allo stato di miraggio o di larva, rimane il depositario unico per qualsiasi speranza nel futuro. «Forse un giorno, riverbero / D’anni lontani, foglie / Secche che s’agitano / Al vento caldo del sud / Torneranno a vibrare / Vortici gialli, nell’ansia / D’un’altra rinascita», conclude una delle ultime poesie della raccolta.
Resta il fatto, ed è la cosa forse più significativa, che in anni d’emergenza e di smarrimento profondo, Dorfles, già allora versato a quella fluida interdisciplinarietà che s’imporrà come il suo tratto distintivo, abbia dato credito alla bussola esistenziale e conoscitiva della poesia. Le Poesie dicono di un giovane uomo che sta cercando non solo la sua strada, ma il senso della propria vita. A partire dallo stesso discrimine degli anni 50, Dorfles quella strada l’ha senz’altro trovata, una strada ricca e lunga. Ma il senso — quel senso la cui ricerca è tutt’uno con la vita, con la poesia della vita — c’è da credere, e da augurarsi anche, che quello no, non l’abbia ancora trovato.
Roberto Galaverni