Adriano Favole, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
I SOVRANI CHE RIPOSANO SULLA CIMA DELLE FORESTE
Fino a qualche tempo fa, per indicare le culture che l’Occidente ha incontrato nel suo processo di espansione coloniale, si utilizzava l’espressione «società semplici», in contrapposizione alle «società complesse» che si (auto)pensavano come il culmine dell’evoluzione tecnologica, della modernità, del progresso scientifico e morale. In realtà, l’impatto con l’Occidente fu caratterizzato per lo più da tentativi (spesso riusciti) di semplificazione dei sistemi sociali ed economici locali, dall’imposizione di rigidi format rituali e di credenze modellate su quelle dei colonizzatori. Organizzazioni politiche dinamiche e dalla lunga storia vennero sostituite da rigide partizioni amministrative; lunghi ed elaborati cicli rituali furono aboliti o relegati nell’oscurità dalle nuove pratiche religiose; forme di reciprocità e condivisione delle risorse furono ridotte a folklore e sostituite dalla logica «universale» del mercato.
Di questi tempi, in molte aree del Sud del mondo, si registrano tentativi più o meno timidi di riappropriazione della complessità. Spesso, questi fenomeni di ricostruzione culturale prendono forma attraverso il linguaggio della patrimonializzazione e sono il frutto di sforzi condivisi che vedono impegnati intellettuali e politici locali, organizzazioni internazionali e antropologi. Un caso emblematico da questo punto di vista è costituito da un progetto dell’Università di Torino coordinato da Francesco Remotti, uno dei più noti antropologi culturali italiani.
Dalla metà degli anni Settanta, Remotti svolge ricerche presso i banande del Nord Kivu, una grande etnia di coltivatori (sono circa due milioni di persone) che abita il territorio a ovest del lago Edoardo, nella Repubblica democratica del Congo, al confine con l’Uganda. Prima di essere colonizzati dai belgi e divisi nelle attuali quattro partizioni amministrative incorporate nello Stato congolese, i banande erano organizzati politicamente in una complessa serie di chefferies (unità politiche poste sotto la direzione di un capo tradizionale), connesse da un comune passato, da un’economia basata sulla lotta con la foresta per ricavare terra per le coltivazioni (soprattutto bananeti), dalla lingua e da pratiche rituali, senza che questo avesse mai portato alla formazione di un unico regno. Oggi, mentre il Nord Kivu, molto ricco di risorse minerarie, è oggetto di interessi economici colossali ed è di fatto conteso tra Congo, Uganda e Ruanda — scontri violenti tra opposte fazioni sono all’ordine del giorno — alcuni banande chiedono il riconoscimento delle proprie specificità culturali e politiche, a partire dalle figure degli antichi capi tradizionali e dai «segni» che i loro corpi hanno lasciato sul territorio.
Alla morte di un capo, i banande, separata la mascella inferiore dal cranio, provvedevano a «seppellire» il cadavere sulla sommità della collina, piantando tutto attorno alcuni alberi. Se la mascella, simbolo della parola e dell’autorità, veniva conservata dalla famiglia a mo’ di reliquia, il resto del corpo era destinato a essere custodito dalla tomba arborea che, progressivamente, lo fagocitava. Sono proprio queste tombe arboree, gli amáhero, a essere al cuore del progetto di Remotti e dei suoi interlocutori nande. «L’occhio inesperto di chi per la prima volta giunge nel bunande — scrive l’antropologo in un recente saggio — non impiega molto tempo per riconoscere questo tipo di tomba, fatto di alberi di foresta. L’albero utilizzato è l’omukímba, un ficus selvatico, particolarmente rigoglioso, dotato di radici aeree e che i banande utilizzano in una pluralità di modi». Un capo, per i banande, non poteva finire nella terra come la gente comune, che veniva sepolta nel bananeto che circondava i villaggi. Il capo, che durante la cerimonia di investitura subiva un «interramento» rituale, aveva diritto a una tomba esclusiva che ne preservava il nome e il ricordo. Il ruolo di «monumento» era affidato a un tipo di albero, l’omukímba, che, grazie alle sue radici aeree, allarga progressivamente la sua superficie, fatto che ha indotto anche popolazioni dell’America e dell’Oceania a scegliere i grandiosi ficus selvatici come luoghi di sepoltura dei morti.
Nella cultura nande l’amáhero è al centro di una simbologia ricca e complessa: segno del potere e dell’autorità di un capo inscritto nel territorio, esso simboleggia al tempo stesso il ruolo ambivalente della foresta. Combattuta e vinta da un lato, per ricavarne la terra con cui nutrirsi, ma destinata in ultima analisi a trionfare sull’uomo, tanto che i resti del capo venivano progressivamente avvolti in un abbraccio vegetale. La società nande abbatte la foresta, i banande si autodefiniscono abakondi, «abbattitori» di alberi e hanno allontanato i pigmei, notoriamente «amici» della foresta, ma quest’ultima è destinata, per lo meno a livello simbolico, a riprendersi i suoi spazi. L’amáhero è dunque anche il sintomo di un «rimorso» ecologico dell’essere umano per la violenza sulla natura.
Da quando, probabilmente agli inizi del Settecento, le popolazioni nande lasciarono le coste del lago Edoardo per addentrarsi sempre più a ovest, nel cuore della foresta, gli amáhero hanno progressivamente colonizzato la sommità delle colline. Una rete di tombe arboree caratterizza il paesaggio. Questa rete non si dispiega solo nello spazio, ma narra — attraverso la memoria orale che il progetto di Remotti si propone di raccogliere — il movimento e la storia delle popolazioni locali. Un po’ come le pozze d’acqua, le rocce e i fiumi degli aborigeni australiani evocati da Bruce Chatwin in Le vie dei canti, gli amáhero nande raccontano i viaggi e gli spostamenti di questa società, la progressiva conquista del territorio della foresta e i legami genealogici tra i vari clan e chefferies. La ricostruzione delle genealogie dei capi, resa possibile dallo studio degli amáhero, ci dice che i banande colonizzarono la foresta non spostandosi in modo graduale verso ovest, ma facendo grandi balzi, come per fissare il limite occidentale del loro territorio, per poi ritornare progressivamente verso est.
Il progetto di «rinverdire» la storia degli amáhero, fotografandoli, mappandoli con la rilevazione satellitare e connettendoli con strumenti informatici, indagando al contempo le specie arboree racchiuse da queste «piccole foreste» (come li chiamano i banande), non è un esercizio di esotismo e di ricostruzione di un passato irrimediabilmente perduto. Questi esempi di «patrimonializzazione condivisa», che vedono il consolidarsi di alleanze e collaborazioni tra ricercatori e nativi, rappresentano un buon modo di ricostruire la complessità originaria in mondi «semplificati» dal colonialismo e di dare fondamento storico e culturale alle richieste di visibilità e di riconoscimento che vengono da molte culture del Sud del mondo.
Anche nel vicino Burundi, alcuni siti arborei che testimoniano antichi luoghi di intronizzazione, strutture urbanistiche delle corti dei sovrani, necropoli delle regine madri e boschetti sacri che celano, come nel caso dei banande, le spoglie di antichi re, sono stati di recente candidati a divenire «patrimonio dell’umanità». In questo caso i complessi arborei indicano, oltre al luogo di sepoltura dei sovrani o delle loro corti, i siti su cui sorgevano le capitali mobili degli antichi regni. Con la loro magnificenza, questi alberi non solo mettono in discussione l’idea, ancora molto diffusa in Occidente, delle «società senza storia», ma si pongono al crocevia tra natura e cultura, ponendo interessanti interrogativi sulla definizione stessa di «patrimonio» che viene data dall’Unesco e da altre organizzazioni internazionali.
Adriano Favole