Serena Danna, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
IL WEB SOCIALE, PONTE TRA CULTURE
«Quando ero ragazza l’idea del villaggio globale era un’astrazione; mia figlia vive qualcosa di concreto. Emotivamente e socialmente, dovunque vada, non si allontana mai da casa». La mamma che scrive è l’antropologa del cyberspazio Sherry Turkle, docente di Sociologia della scienza al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Quel «villaggio globale» in cui le distanze fisiche si annullano — teorizzato dal sociologo Marshall McLuhan nel 1964 — è oggi realtà grazie alle nuove tecnologie, che consentono, per usare le parole di Turkle, di essere «allacciati eppure altrove». «Le ho chiesto se non le sarebbe piaciuto godersi Parigi senza che qualcuno le ricordasse di continuo Boston — scrive in Insieme ma soli —. Mi ha detto che era contenta: che le piaceva restare in contatto con i suoi amici».
La preoccupazione dell’antropologa si ritrova in buona parte della comunità scientifica, intenta a studiare il ruolo che i social media svolgono nell’apprendimento e nello scambio interculturale. Perché se è vero che l’idea di Internet come gabbia dorata lontana dal mondo «reale» si può considerare (finalmente) archiviata, l’impatto dei social media sulle nostre relazioni con l’Altro è ancora tutto da esplorare. Nel paper The Impact of New Social Media on Intercultural Adaptation Rebecca Sawyer dell’Università di Rhode Island ricorda che le fasi dell’adattamento interculturale sono quattro: la luna di miele, la crisi, la rettifica e il biculturalismo: «Durante la fase della luna di miele le persone vivono l’euforia iniziale del trasferimento in un altro Paese, mentre la crisi proviene dalla frustrazione di vivere in una cultura estranea. Poi scatta la graduale ripresa e il lento adattamento alla nuova situazione, processo che, se completato, porta al biculturalismo».
I social network hanno un ruolo fondamentale in ciascuna delle fasi. «Nei momenti di emergenza o di spaesamento — spiega Antonio Casilli, docente di Digital humanities al Telecom ParisTech — i migranti hanno un maggiore bisogno di risorse relazionali e il web 2.0 rappresenta un bacino unico di capitale sociale». A volte basta una chat con l’amico lontano per superare il momento di difficoltà e uno sguardo alla timeline di Twitter per ritrovare l’entusiasmo della scoperta.
La Nanyang Technological University di Singapore ha monitorato gli status di Facebook (102 in tutto) di un diciassettenne malesiano arrivato negli Stati Uniti per un programma di studio di sei mesi con lo scopo di valutare il suo livello di integrazione. Azioni ed emozioni online dello studente corrispondevano agli stadi dell’adattamento: dall’entusiasmo per la «nuova vita» (rappresentato da continui status e foto divertenti) al timore della mancata integrazione (dimostrata dalla ricerca di contatto con i vecchi amici) fino alla tristezza per la fine dell’esperienza (a cui è corrisposto un minor numero di aggiornamenti). «Gli scambi online — continua Casilli — servono ai migranti per trovare il giusto equilibrio tra il bonding, la coesione sociale tra i simili, e il bridging, ovvero la costruzione di ponti con i diversi». In altre parole, se la presenza degli amici di sempre sulla bacheca di Facebook aiuta a sentirsi «a casa», i tweet e gli iLike dei nuovi conoscenti rappresentano un importante canale interculturale. Anche per Sawyer i social media contribuiscono a rafforzare entrambe le comunità, ma «le persone provenienti da culture basate sull’individualismo — spiega — tenderanno a utilizzare i social network come strumenti per incontrare nuove persone, mentre quelle provenienti da culture collettivistiche principalmente per mantenere relazioni con il Paese d’origine».
Per Casilli è una questione di metodologia: «Chi utilizza l’analisi semantica e dunque si concentra solo sul contenuto degli scambi perde di vista l’importanza delle strutture sociali: quando guardo una timeline di Twitter o una bacheca di Facebook penso solo ai network di relazioni che rappresentano». La vastità delle reti presenti nel web sociale — «i parenti dei conoscenti degli amici» — impone dunque necessariamente l’incontro con l’altro.
Se c’è un punto su cui i diversi filoni di ricerca convergono è la capacità del web sociale di fornire un contesto di apprendimento crossculturale: nelle interviste svolte da Sawyer una studentessa thailandese afferma di aver scoperto il significato di Lol (laughing out loud), slang Internet di matrice americana usato per esprimere divertimento, grazie a Facebook, e di aver così «imparato le parole-chiave per essere cool negli Stati Uniti!». Come ha scritto la ricercatrice Microsoft Danah Boyd in Living and Learning with Social Media «per gli adolescenti vige la pressione sociale di essere dove i tuoi amici sono. Questa pressione non nasce con Internet. Vale per i grandi magazzini come per le scuole di danza: non esisti se non sei dove sono i tuoi amici». E gli amici, vecchi e nuovi, sono online. Per questo YouTube, Twitter, Reddit diventano i luoghi privilegiati per capire o quanto meno intuire i costumi, le usanze, le sottoculture del «nuovo mondo».
Sarebbe tuttavia un errore pensare che basti uno schermo per mediare il rapporto tra culture diverse. Perché è proprio qui che il fattore umano ritorna centrale: per far sì che i social media favoriscano una relazione interculturale c’è bisogno di educazione. Aoki Kumiko della Open University of Japan porta avanti da anni progetti di telecollaborazione 2.0. «La selezione di contatti online da parte dei ragazzi — spiega — accade in maniera spontanea, quando si tratta di creare gruppi ad hoc occorre che gli educatori facciano da mediatori: la tecnologia è solo un filtro». Uno dei progetti più riusciti dell’università giapponese ha avuto come protagonista un gruppo online nippo-ungherese che per cinque anni ha prodotto presentazioni audio-video, testi e progetti comuni senza incontrarsi. Aoki spiega che è molto importante utilizzare strumenti con cui i ragazzi abbiamo familiarità: il software di telefonia gratuita Skype, i social network, le chat, il servizio di condivisione di documenti Google Docs. Illustrando un progetto di «scrittura aperta» che ha coinvolto una scuola di Dubai e una canadese, Geoff Lawrence ha spiegato il ruolo fondamentale svolto dai mediatori per evitare lo scontro a distanza tra due studenti quando il canadese ha definito saudita — come sinonimo di arabo — il compagno di Dubai.
Gli esperimenti di apprendimento crossculturale online si moltiplicano ma senza trovare un interlocutore nelle istituzioni, spesso poco attente alle sperimentazioni. «La mancanza di politiche specifiche riguardanti l’educazione interculturale, il dialogo e la cooperazione — spiega Elaine Hoter, ricercatrice del Technology, Education & Cultural Diversity Center (Tec) di Tel Aviv — ha portato a una proliferazione di iniziative private e di progetti non profit». Un pilastro mediorientale in questo senso è proprio il Tec, fondato nel 2004 all’interno del Mofet Institute per favorire lo scambio interculturale tra israeliani e palestinesi attraverso la tecnologia, con la consapevolezza che l’Information e communication technology può «ridurre stereotipi e pregiudizi etnici tra i partecipanti e trasformarli in agenti tecnologici del cambiamento sociale». Anche Hoter è convinta che siano gli educatori a fare la differenza: «Possiamo favorire le connessioni e aiutare le persone a costruire relazioni di significato». Il volto umano e culturale della tecnologia.
Serena Danna