Paolo Valentino, la Lettura (Corriere della Sera) 17/02/2013, 17 febbraio 2013
UN GOLPE PER L’EUROPA
«Abbiamo fatto una cosa mai vista prima al mondo. Abbiamo mascherato un aiuto di 5 miliardi di marchi all’Italia come se fosse un’operazione tra le banche centrali». Nell’estate del 1974 il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt e il presidente della Bundesbank, Karl Klasen, vennero in Italia per incontrare a Bellagio il primo ministro italiano Mariano Rumor e il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli. Il risultato del vertice fu un credito di 5,2 miliardi di marchi dell’istituto di emissione tedesco a quello italiano, garantito da 5 tonnellate d’oro che Bankitalia mise a disposizione nelle proprie riserve. Quello che pochi sanno è che si trattò in realtà di ben altro.
«Né l’opinione pubblica tedesca, né quella italiana capirono cos’era successo. Era di fatto una violazione delle leggi fiscali tedesche. Ma se l’avessimo fatto come governo, avremmo dovuto chiedere il voto del Parlamento. Non l’abbiamo fatto. Però in quel momento era necessario agire così, era la cosa giusta da fare: l’Italia era in difficoltà finanziarie, noi tedeschi dovevamo aiutarla. Cinque miliardi di marchi erano una cifra importante al tempo. Ma l’Italia fu salvata, il prestito venne ripagato nei termini previsti e l’oro non venne mai toccato».
Mentre mi racconta l’aneddoto, col sorriso di chi sa di rivelare una piccola e sconosciuta pagina di storia europea, Helmut Schmidt riesce a fumare due sigarette e tirare una presa del suo adorato tabacco da fiuto. Avrà pure 95 anni l’ex Cancelliere federale, che l’età ha levigato nei tratti e ammorbidito nella figura, una volta snella e nervosa. Ma la sua testa rimane un brillante e i suoi occhietti azzurri sprizzano ancora vitalità e ironia. Non ha pescato a caso l’episodio del lago di Como. Gli serve per esemplificare un punto politico importante: «Ciò che accadde allora fu in un certo senso simile a quanto sta facendo oggi Mario Draghi: probabilmente il presidente della Bce agisce in violazione del Trattato, ma è necessario, sta facendo la cosa giusta».
Andare a trovare Schmidt nel suo ufficio amburghese è come fare un bagno di franchezza e di onestà intellettuale. Ma soprattutto è andare a ritrovare la forza dell’idea d’Europa, la chiarezza del progetto della casa comune, che i leader della sua generazione ebbero sempre presente non tanto nella retorica delle formule, quanto nella concreta azione di governo. Anche a costo di forzature e di colpi d’ala, ai quali nessuno degli attuali dirigenti politici europei appare desideroso e in grado di ispirarsi.
Signor Cancelliere, qual è lo stato dell’Unione? È più ottimista o più pessimista rispetto a un anno fa?
«Non ero ottimista un anno fa e non sono troppo ottimista oggi. Non c’è grande differenza».
Ma abbiamo assicurato la stabilità dell’euro: è d’accordo?
«L’euro non è il problema dell’Europa o comunque non è quello principale. I problemi europei sono molteplici. Al primo posto c’è l’indebitamento di alcuni Stati. Poi c’è l’incapacità dei leader europei di affrontarlo. Inoltre c’è un minore impegno verso l’integrazione rispetto a cinque anni fa. Tutti questi fenomeni affondano le loro radici nel 1991-1992, quando l’allargamento si sovrappose alla nascita dell’euro. Allora eravamo appena in dodici e commettemmo il doppio, ridicolo errore di invitare tutti a essere parte dell’Unione e allo stesso tempo di partecipare all’euro. Inoltre, quasi nessuno dei 27 Paesi membri ha mai pensato di pagare soldi al bilancio comune, di trovarsi cioè nella condizione di contributori, ma tutti sono sempre stati interessati a ottenere qualcosa, a spremere risorse. E questo hanno fatto. Da ultimo, nessuno o quasi degli attuali leader crede nella necessità dell’integrazione europea. Non si rendono conto che gli europei stanno giocando d’azzardo col futuro degli Stati-nazione in quanto singole entità».
Ma questa incapacità a comprendere la necessità dell’integrazione è di carattere politico o intellettuale?
«Entrambi. Nella sostanza è l’incapacità di capire la decrescente vitalità della civiltà europea, la sua decadenza. All’inizio degli anni Cinquanta, poco dopo la fine della guerra, eravamo in forte crescita demografica. Poi è subentrata la stagnazione e oggi siamo in piena denatalità. Demograficamente l’Europa rimpicciolisce e invecchia. Ma il resto del mondo — Asia, India, Africa e perfino il Nord America — cresce rapidamente, mentre noi andiamo in direzione opposta. Ci sono solo due altre nazioni demograficamente in crisi: la Russia e il Giappone. La percentuale della popolazione europea su quella mondiale continua a scendere: nel 2050 saremo il 7% e il nostro prodotto lordo non sarà più del 10%, mentre nel 1950 era il 30%. L’unica speranza di avere un ruolo è di averlo insieme, l’interesse strategico degli Stati-nazione europei nel lungo termine è la piena integrazione economica e politica. Ecco la ragione per cui parlo di inevitabile necessità».
David Cameron vuole rinegoziare il Trattato di Lisbona e poi sottoporre l’adesione inglese a referendum. Sarebbe un danno o un vantaggio per l’Ue se Londra uscisse?
«I motivi più importanti dietro l’iniziativa di Cameron sono puramente di carattere interno. Deve tenere a bada il suo partito e vuole dare agli elettori l’impressione di avere qualcosa da decidere. Detto questo, non è certo un contributo positivo al dibattito sull’integrazione europea. Eppure qualcuno lo ha preso sul serio. Ci sono stati predecessori di Cameron, da Harold Wilson a Lady Thatcher, che si sono mossi nella stessa direzione. L’unico leader inglese pro-europeo è stato Edward Heath. Harold McMillan fu quello che presentò la richiesta di adesione, ma soltanto per avere le mani nella torta: il mercato comune è sempre stato il loro unico orizzonte. E noi commettemmo l’errore nel 1972 di invitare gli inglesi, che ovviamente vennero. La prima cosa che chiesero fu il rimborso. Hanno sempre continuato su questa linea. Forse solo con Blair ci sono stati accenti diversi».
Ma se l’iniziativa di Cameron prendesse una dinamica propria, portando all’uscita del Regno Unito dall’Ue, chi ne avrebbe il danno maggiore, noi o loro? Sarebbe un disastro per entrambi come avverte Joschka Fischer?
«Sarebbe un disastro punto a basta. Ma potrebbe non durare più di due o tre anni. Poi verrebbe superato. Francamente non sono né a favore della loro cacciata, né a favore della loro permanenza. La mia preoccupazione è la fragilità della situazione attuale, nella quale nessuno sa cosa accadrà domani e nessuno è un vero leader. Qualche giorno fa abbiamo assistito a una convergenza tra Angela Merkel e David Cameron sul bilancio. Un po’ ridicolo. La loro cooperazione sul taglio delle spese per la ricerca e la crescita aumenta le mie preoccupazioni. Perché resta il fatto che i due hanno finalità totalmente opposte. Il più grande leader europeo fu Churchill: dopo la guerra disse chiaramente a noi e ai francesi che dovevamo cooperare per creare gli Stati Uniti d’Europa, ma che il Regno Unito sarebbe rimasto fuori perché aveva il Commonwealth. I suoi successori hanno scelto di entrare in Europa, ma senza crederci».
Che cosa bisognerebbe fare per rilanciare l’integrazione?
«Se solo lo sapessi».
Al Congresso della Spd lei ha invitato il Parlamento europeo ad agire. Ha parlato di cooperazioni rafforzate tra i Paesi che lo vogliono, di regolamenti finanziari comuni, di separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, di regole ferree sui derivati...
«Ho invitato il Parlamento europeo a fare un golpe. Penso ancora sia una buona cosa. Per esempio gli eurodeputati potrebbero dire no al bilancio. Si creerebbe una situazione agitata, che forse potrebbe essere necessaria a fare emergere una leadership. La separazione tra banche commerciali e d’affari è una delle cose che mi stanno a cuore. Ma bisogna stabilire chi è responsabile di formulare regole comuni per le banche. In questo momento 27 membri della Commissione di Bruxelles si occupano del problema. Ma non c’è nessuno che prenda decisioni per i 16 Paesi dell’Eurozona. Il solo che s’è visto sulla scena è stato Juncker, il premier lussemburghese, un uomo solo, senza staff, senza consiglieri. No, trovo tutto ciò ridicolo e privo di senso. Per questo sollecito l’Europarlamento a un putsch. Sento però che questa situazione ambigua e confusa sia destinata a protrarsi».
Ma se lei fosse oggi il Cancelliere, cosa farebbe?
«Per prima cosa non farei nulla contro i francesi e convincerei il mio collega francese a non fare nulla contro i tedeschi. Se fallissi in questo sforzo, mi dimetterei. Il mio dovere sarebbe ristabilire una forte alleanza franco-tedesca, cui dovrebbero associarsi l’Italia, l’Olanda, il Belgio, possibilmente anche la Polonia. Ma se non riuscissi a realizzare una piena cooperazione di mente e di cuore tra Parigi e Berlino, dovrei andarmene».
E crede che ciò sia possibile oggi?
«Sarebbe una scommessa, vista la situazione psicologica dei francesi e quella dei tedeschi. Se guardo alla Germania oggi, vedo ancora segni preoccupanti di arroganza. Meno di due o tre anni fa, ma nondimeno presenti. Come ho detto al Congresso socialdemocratico dobbiamo stare attenti: se la Germania tenterà di essere prima inter pares nella politica europea, una crescente percentuale dei nostri vicini penserà di doversi difendere da questo primato. Le conseguenze sarebbero paralizzanti per l’Europa, mentre noi ci isoleremmo. In fondo abbiamo bisogno di proteggerci da noi stessi».
Come risponde all’argomento del deficit democratico? L’opinione pubblica non sembra più così affezionata all’idea d’Europa...
«Più dell’opinione pubblica, direi che l’opinione pubblicata non sia così favorevole all’Europa».
Jürgen Habermas parla di un degrado della democrazia nelle istituzioni comunitarie. È d’accordo?
«Come constatazione dei fatti, è giusta».
È la stessa obiezione degli euroscettici.
«Non cambia il fatto che Habermas sia nel giusto».
Ma ci può essere integrazione senza sanzione democratica?
«La democrazia, ovvero la democrazia parlamentare è in parziale ritirata. Televisione, Internet e social media hanno in parte rubato il ruolo ai Parlamenti. Ma la colpa è almeno per metà degli stessi Parlamenti».
Quale considera il suo miglior contributo all’Europa?
«Direi la stretta cooperazione con la Francia. In questo ho potuto contare su Valéry Giscard d’Estaing. Vennero anche i risultati, fosse l’ampliamento, l’elezione diretta del Parlamento europeo o la creazione del Sistema monetario. Ma la cosa più importante fu la volontà di cooperare in armonia con Parigi. Fu possibile allora, anche perché l’Italia fu presente e attiva».
Qual è il suo maggior rimpianto come politico, la cosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
«Non ci ho mai pensato. Non ho un evento o un fatto che mi venga in mente. Non ho mai perseguito progetti irrealistici. Sono stato sempre un pragmatico».
Cioè consiglierebbe ancora un medico ai politici che hanno le visioni?
«Assolutamente sì. È una cosa sensata».
È dispiaciuto che il Papa tedesco si sia dimesso?
«Sono neutrale, né dispiaciuto né compiaciuto. Lo considero un fatto della vita. Ma sono felice che il prossimo Papa non sarà un tedesco».
Che rapporti ebbe col Vaticano da cancelliere?
«Fui molto impressionato dall’umanità e dalla personalità di Giovanni Paolo II. L’ho incontrato tre volte. La prima volta lo vidi subito dopo l’attentato. Avevo già provato a contattarlo quando era arcivescovo di Cracovia. Ma a quel tempo si preoccupò che il nostro incontro avrebbe provocato troppo i sovietici. E così evitò l’incontro, mandò un suo sostituto. Aveva ragione. Noi volevamo attraverso di lui stabilire un contatto con Solidarnosc. Karol Wojtyla fu un grande uomo».
Lei si considera un uomo felice?
«Non sono felice, sono ancora vivo: ho 95 anni».
È una buona ragione per esserlo. La ricerca della felicità è uno dei diritti inalienabili dell’uomo.
«Non ho mai creduto a quella frase di Jefferson. La felicità non dipende da noi. La vita, la libertà sono diritti innati, ma la ricerca della felicità non mi convince. Ho dibattuto su questo una volta con un grande imprenditore canadese: mi disse che lui avrebbe cambiato la triade con vita, libertà e buon governo. Sono d’accordo. La ricerca della felicità non è né nei Dieci Comandamenti, né nella filosofia di Aristotele. Non c’è negli insegnamenti della Chiesa cattolica, né in quelli di Lutero: è un’invenzione di Thomas Jefferson. Personalmente credo nel dovere, non nella felicità».
L’intervista è finita. Helmut Schmidt respira profondamente, poi fiuta l’ennesima presa di tabacco. Ha appena terminato l’intero pacchetto di sigarette. Mi chiede della mia famiglia, se i miei genitori fossero cattolici. Gli racconto di mia madre credente, di mio padre ateo e iscritto al Pci. D’improvviso ha uno scatto: «Lei ricorda Enrico Berlinguer?». Certo, signor cancelliere. «Ho sempre nutrito una grande ammirazione per quell’uomo».
Paolo Valentino