Elisabetta Rosaspina, Corriere della Sera 17/02/2013, 17 febbraio 2013
TUTTI I SEGRETI DEL «PRIGIONIERO X», VIAGGI IN IRAN, UN VISTO PER L’ITALIA —
Tutto pareva essere filato liscio. Il caso 8493 si era chiuso senza mai essere stato ufficialmente aperto. Archiviato dopo un anno e mezzo di discretissima inchiesta giudiziaria, con un verdetto di suicidio. Né il primo né l’ultimo in un carcere, tanto più di massima sicurezza, tanto più dopo dieci mesi di completo isolamento del detenuto defunto. Per insindacabili «ragioni di Stato», i cittadini israeliani non avrebbero dovuto sapere niente di più sulla «maschera di ferro», quel prigioniero senza nome, senza volto e senza storia morto impiccato il 15 dicembre del 2010, nella cella di 16 metri quadri costruita 15 anni prima apposta per il più famoso ergastolano del paese: Yigal Amir, l’assassino dell’allora primo ministro Yitzhak Rabin. Quella cella, nell’unità numero 15 del carcere di Ayalon, pochi chilometri a sud est di Tel Aviv, era stata ereditata dal «prigioniero X», sottoposto a videosorveglianza permanente, senza che nemmeno gli agenti di custodia conoscessero il suo nome.
Ma una settimana fa, le avvisaglie di un improvvido scoop hanno spinto le autorità a convocare i vertici dei principali mezzi di informazione israeliana, direttori ed editori, per esortarli a ignorare, nell’interesse della sicurezza nazionale, alcune informazioni imbarazzanti per una certa agenzia governativa. Mossa inutile e controproducente: il giorno stesso, tre deputati dell’opposizione hanno chiesto conto al ministro della Giustizia Yaakov Neeman di un reportage trasmesso poche ore prima dalla tivù di Sydney, Abc, su «un cittadino australiano, che era sotto custodia israeliana, e si sarebbe ucciso in prigione».
Quelle notizie erano il frutto di dieci mesi di indagini parallele del reporter Trevor Bormann: a essersi impiccato nella cella di isolamento totale di Ayalon era un agente del Mossad. Australiano di nascita e cresciuto in una famiglia ebrea ardentemente sionista. Si chiamava Ben Zygier, come sta inciso ora sulla lapide nera del cimitero ebraico di Melbourne, la città in cui era nato il 9 dicembre del 1976 e che aveva lasciato, neanche ventenne, per vivere in Israele la sua prima esperienza in un kibbutz in Galilea. Aveva fatto «aliyah», il ritorno alla terra promessa, ma non soltanto per servire la sua nuova patria nell’uniforme dell’esercito.
Il mistero di Ben Zygier ha più risvolti dei passaporti (australiani) che gli sono stati intestati sotto altri nomi: Ben Alon, Ben Allen, Benjamin Burrows, permettendogli di viaggiare indisturbato, dal 2000 al 2010, soprattutto in nazioni ostili a Israele, come il Libano, l’Iran, la Siria. Ma forse anche in Paesi amici, come l’Italia, se è vero che aveva chiesto un visto di lavoro al consolato italiano di Melbourne. Sul suo impiego, in una società di copertura, con sede in Europa, per la vendita di componenti elettronici, aveva investigato nel 2009 un altro giornalista australiano a Gerusalemme, Jason Katsoukis, sempre respinto da «Mister X» quando lo cercò per chiarimenti. Forse a quel punto l’agente trasformista era già «bruciato». Forse aveva già parlato troppo, forse era sotto scacco dei servizi australiani, insospettiti dalla clonazione di documenti. Di fatto il 24 febbraio 2010 l’intelligence australiana riceve comunicazione dell’arresto di Ben Zygier, ma la notizia non viene trasmessa al ministero degli Esteri di Melbourne e tantomeno i motivi della sua cattura. «Accuse gravi», ammette uno dei suoi avvocati, Avigdor Feldman, che lo incontrò 24 ore prima del suicidio per valutare un patteggiamento con i giudici. Ma «il prigioniero X» voleva un processo. Pretesa insensata, per un fantasma.
Elisabetta Rosaspina