Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 17 Domenica calendario

AUTHORITY ED ENTI, I (TROPPI) INCARICHI AI MAGISTRATI —

Perché una norma sugli incarichi dei magistrati sia finita nella martoriata e lacunosissima legge anticorruzione, non è ben chiaro. Ma poche letture, come quella della bozza di un decreto legislativo sfornato pochi giorni fa dal governo e che riguarda proprio quel passaggio, chiariscono invece in quale surreale meccanismo sia finito lo Stato italiano. Si tratta del provvedimento che con il previsto parere delle Camere dovrebbe dare attuazione proprio a quella disposizione della legge anticorruzione, entrando così in vigore prima che l’esecutivo tecnico di Mario Monti esali l’ultimo respiro.
Due articoli in tutto, per certificare nei fatti come la nostra pubblica amministrazione si sia consegnata del tutto alle varie magistrature. Quattro almeno. Lì dentro c’è l’elenco degli incarichi che comportano per giudici «ordinari, amministrativi, contabili e militari», nonché per gli «avvocati e procuratori dello Stato» il collocamento obbligatorio fuori ruolo. Cioè una specie di sterilizzazione del ruolo di magistrato per tutta la durata dell’incarico, con la possibilità di conservare il 25 per cento dello stipendio, e salvo poi tornare a fare il mestiere di provenienza una volta terminato il mandato. Giustissimo. Se non fosse per il fatto che l’elenco di cui stiamo per dare conto farebbe ribollire il sangue a Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu, ritenuto il padre della moderna teoria della separazione dei poteri, principio fondamentale negli ordinamenti di tutti i Paesi democratici.
Dunque eccoli, gli incarichi istituzionali che possono essere affidati ai magistrati. Apre l’elenco quello di «presidente e componente delle autorità indipendenti»: incipit singolare, se si considera che i magistrati amministrativi, ormai di casa nelle authority, sono competenti a giudicare proprio i ricorsi contro le stesse authority. Seguono quelli di «segretario generale della presidenza della Repubblica, consigliere del presidente della Repubblica, segretario e vicesegretario generale della Corte costituzionale, segretario generale e vice segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministri, capo dell’ufficio del presidente emerito della Repubblica, segretario generale del Cnel, segretario generale e vice segretario generale delle autorità indipendenti, capo di gabinetto e segretario generale presso enti territoriali e locali, capo di gabinetto dei ministeri, capo di gabinetto di un membro della Commissione europea, presidente delle scuole pubbliche di formazione, direttore e vice direttore delle agenzie, capo dipartimento della presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri». Ancora: «Capo della segreteria tecnica di ministri, vice ministri e sottosegretari, capo dell’ufficio legislativo dei ministeri, direttore e vice direttore delle scuole pubbliche di formazione, capo dipartimento o direttore generale di ente pubblico con economico, dirigente generale presso i ministeri e le agenzie». Non è finita qui, perché, seppure «in aspettativa senza assegni», i magistrati possono ricoprire «cariche apicali», ma anche «semiapicali», in «organi o enti partecipati o controllati dallo Stato». I primi che ci vengono in mente? Cose tipo il Cnr, o l’Ente teatrale, oppure l’Istituto di geofisica, la Treccani… Chissà che poi il concetto di «organi o enti» non si possa estendere alle società per azioni, ed ecco allora il Poligrafico dello Stato e le Poste Italiane, o addirittura l’Eni e la Finmeccanica. Tutto, insomma.
Ma perché la pubblica amministrazione ritiene di doversi poter affidare per ogni cosa a un magistrato, pure in presenza di conclamati conflitti d’interessi? Si potrebbe argomentare che pian piano è venuto meno il principio di responsabilità: mettere un giudice al vertice dell’apparato amministrativo di una Regione o di un Comune, quando non di un ministero, può essere una garanzia di legalità. Ma anche un comodo sistema per lavarsi le mani dalle rogne. Senza però considerare che una cosa del genere, estesa all’infinito, finisce per alterare il sano equilibrio dei poteri. Bisogna ricordare come lo stesso governo tecnico di Monti abbia sentito il bisogno di collocare in caselle decisive alcuni magistrati amministrativi, quali i sottosegretari alla presidenza Antonio Catricalà e Antonio Malaschini nonché il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, tutti consiglieri di Stato. Appartenenti dunque a una magistratura competente a giudicare i ricorsi sugli atti dello stesso esecutivo, al pari di tanti loro colleghi che continuano a occupare ruoli chiave all’interno dei ministeri. Dove scrivono anche le leggi. Compreso il decreto del quale si è appena parlato: ci mettiamo la mano sul fuoco.
Sergio Rizzo