Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 17 Domenica calendario

IPOTESI SUL PAPA E SULLA CHIESA CHE VERRA’

Dicono che non sia stato in Sicilia, bensì a Torbole, sul lago di Garda, che a Goethe eruppero dall’anima i versi famosi: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni (...) dove una mite brezza spira dal cielo luminoso?». Il mattino di lunedì 11 febbraio, pensavo un po’ ironico a Goethe — e a qualche talebano del «riscaldamento globale» —, guardando dalla finestra del mio studio, nella millenaria abbazia benedettina, la neve che scendeva sugli olivi, i cipressi, gli allori. Quello non era — per la Chiesa intera, tanto meno per me — un giorno come gli altri: la liturgia ricordava la prima apparizione della Vergine Immacolata, a Lourdes, a una piccola, miserabile analfabeta, figlia di un mugnaio fallito che aveva conosciuto anche la prigione. Il Dio del Vangelo frequenta volentieri i poveri, gli ignoranti, i disprezzati. Pregustavo la giornata tenuta sgombra da ogni impegno esterno, mi godevo la prospettiva della solitudine, fasciata per giunta dal silenzio del manto nevoso ormai alto. Contavo, infatti, di continuare — guarda caso — la stesura di un secondo libro su Lourdes, dopo quello su Bernadette pubblicato pochi mesi fa. Quale giornata più propizia di un 11 febbraio?
A un tratto, ecco il telefono portatile, il solo legame con il mondo che abbia ammesso nell’abbazia. Era mia moglie, sconcertata: «Sullo schermo tv è apparsa una scritta, dice che il Papa ha annunciato le dimissioni!». Lo confesso: sulle prime pensai alla goliardata di hacker che si fossero inseriti sulle frequenze televisive. Non ero solo nel dubitare: in quegli stessi momenti, nei cinque continenti, 117 cardinali, compresi i più vicini a Benedetto XVI, erano increduli davanti alla prospettiva di dover presto partecipare a un Conclave. Chiusi la chiamata, chiedendo ovviamente di informarmi in caso di improbabile conferma. Ma non ne ebbi bisogno: il cellulare cominciò a suonare e non cessò per un paio di giorni e di notti; quando (con fatica, la neve continuava a cadere) raggiunsi la casa, al trillo del portatile si aggiunse lo squillo incessante della linea fissa e il computer cominciò a scaricare senza sosta messaggi dal mondo intero che chiedevano interviste, interventi, articoli al cronista di cui era nota la lunga vicinanza a Joseph Ratzinger e la conoscenza, solidale, del suo pensiero.
Perché raccontare questo? Perché un cedimento alla testimonianza personale? Ma perché io stesso fui colpito dall’immediato, travolgente, planetario tsunami mediatico provocato da poche parole in latino lette a sorpresa, a voce bassa, quasi fossero di routine, da un vecchio, circondato da altri vecchi, in una ancor più vecchia e inaccessibile Sala vaticana. Un ciclone che raggiunse all’istante tutti; e me pure, isolato tra la neve in un angolo di provincia, sconvolgendomi ogni programma. Cliccando, nell’elenco dei «preferiti», sul sito delle maggiori testate del mondo, constatavo lo straordinario rilievo dato al Pope resigning from his charge, modulato in ogni lingua. È in casi come questi che si manifesta un paradosso singolare: alla diminuzione progressiva, in atto da decenni, del numero dei praticanti cattolici (almeno in Occidente) e della influenza sociale, morale, politica della Chiesa romana, sembra corrispondere un aumento dell’interesse per essa, per le sue vicende, per il suo Pontefice. Alla pari dei grandi media internazionali, anche le nuove testate nate sul web non rinunciano a un «vaticanista» o, almeno, a qualche esperto non tanto in questioni religiose ma, specificamente, cattoliche. Avrebbero avuto il successo che sappiamo i romanzetti di Dan Brown e dei suoi ormai infiniti imitatori se non avessero come sfondo la Chiesa, proprio quella che ha il suo centro in Vaticano? Una Chiesa, per giunta, non come residuato archeologico, come pittoresco set storico, sul tipo dell’abbazia di Umberto Eco, ma ben viva, presente, intrigante. Magari imbrogliona o, addirittura, assassina: ma, anche per questo, pericolosa perché ancora potente. L’immagine, anche se così spesso deformata, della Catholica et Apostolica affascina o inquieta l’immaginario dell’umanità. E il suo Capo in veste bianca è la sola autorità morale ascoltata ovunque e comunque: per accettare o per rifiutare, per amare o per detestare.
Débâcle cattolica?
Eppure, suona ormai beffardo l’aggettivo «cattolicissima», abbinato per secoli alla Spagna, all’Irlanda, all’Austria; e, tra un poco, forse non sarà più adatto neppure alla Polonia, che sembra volere recuperare a grandi passi il «ritardo» verso il laicismo liberal. Sono ormai multisale cinematografiche, outlet, studi di architetti, sale da gioco o, in qualche caso, sex-shop buona parte delle chiese dell’Olanda, un tempo per metà cattolica e famosa per il fervore devoto. Proprio nei Paesi Bassi vi è un gigantesco magazzino che è una sorta di segno concreto — ed è crudele, per un credente, visitarne il sito Internet — della débâcle cattolica, non solo nell’Europa nordica, ma nel continente intero: quei capannoni sono un ammasso (svenduto a prezzi stracciati, vista l’esiguità della domanda) del contenuto dei luoghi di culto abbandonati o trasformati. È un cumulo tragico di statue, di quadri edificanti, di Viae Crucis, di tabernacoli, di campane e campanelli, di vasche battesimali, di interi altari, di ostensori, di candelabri, di confessionali, di inginocchiatoi, di vetrate, di mobili da sagrestia, di abiti liturgici. A improbabili acquirenti si propongono persino le venerate reliquie di santi, racchiuse in artistiche cornici. Una discarica, insomma, per tutto ciò che fu «cattolico», dove i clienti pare siano scenografi cinematografici e teatrali o arredatori eccentrici in cerca del pezzo per qualche abbinamento blasfemo per bar, discoteche, garçonnière. Non a caso colui che ha avuto l’idea di quel deposito ha scelto un nome latino per il suo commercio: Fluminalis. Come un fiume, cioè, che porta via i detriti del Cattolicesimo. Anche se resta da chiedersi se si tratta davvero della fine del o di un Cattolicesimo; del congedo di una fede o solo dell’esaurimento di un modo di devozione legato a un tempo ormai finito.
Prima del Conclave
Ma che Chiesa è, davvero, questa che per otto anni Benedetto XVI ha presieduto e al cui peso, unito a quello dell’età, ha infine ceduto? Cos’è, oggi, quella Chiesa cattolica, apostolica, romana che sarà «guidata» (il verbo sembra forse, nella situazione attuale, un po’ pretenzioso) da colui che uscirà dal Conclave di marzo? Lo spazio ci obbliga solo a qualche pennellata, a qualche sprazzo della situazione oggettiva: ben altro respiro occorrerebbe per un quadro completo. Un quadro che — sia ben chiaro — non ha soltanto i punti di crisi cui qui accenniamo ma che presenta anche non pochi aspetti positivi, luoghi di resistenza, solidi rinnovamenti, motivi fondati di speranza. La natura duplice, al contempo umana e divina della Chiesa (a immagine del suo Signore: Dio e uomo; crocifisso e risorto), fa sì che sempre, nei secoli, sia parsa sofferente se non agonizzante; e sempre fosse, al contempo, brulicante di vita, anche se talvolta visibile solo agli occhi della fede. Un’energia vitale capace di manifestarsi e di rianimarla anche al fondo delle crisi peggiori. Mai, pure nei secoli più bui, mai questa Chiesa ha smesso di essere madre di santi, mai le sono mancati — malgrado tutto — uomini e donne che del Vangelo hanno fatto carne e sangue della loro vita. Papa Borgia è contemporaneo del più penitente e austero dei santi, Francesco da Paola, che da quel Pontefice simbolo della maggior decadenza ecclesiale fu stimato e ne ebbe approvata la durissima Regola. Tempeste che sembrarono segnare la fine, come quelle che seguirono la Riforma o la Rivoluzione francese, l’Era napoleonica, l’occupazione italiana di Roma, furono superate più che dal valore di gerarchi e fedeli dall’apparizione imprevedibile di una schiera di santi. Lo studioso serio sa che occorre grande prudenza nel giudicare quella che è la più antica, la più vasta, la più variegata istituzione della Storia: c’era già quando l’Impero romano era al suo apogeo, la sua vicenda ha attraversato venti secoli, ha visto sorgere e morire tutti i regni e svanire tutti i potenti e, malgrado tutto, è giunta sino a noi, non ha alcuna intenzione di congedarsi dal mondo. Il suo popolo e i suoi pastori — cardinali e vescovi — appartengono a tutte le stirpi e a tutte le culture, come non avviene in nessuna parte, altrove. Ultimo Stato teocratico, ultima Monarchia assoluta, è al contempo il luogo più democratico: ogni seminarista, per povero e oscuro che sia, sa che avrà nella sua bisaccia di sacerdote un possibile pastorale da Papa o almeno da cardinale o vescovo. Il più oscuro dei battezzati ha — all’interno delle sue mura spirituali — i diritti e i doveri del più potente o ricco della Terra intera. Anzi, nell’ottica che qui solo vale, è la sua la posizione privilegiata. L’ultima tra gli ultimi, quella Bernadette ignorante, malata, miserabile di cui stavo scrivendo quel mattino, avrà la gloria degli altari, ritratti venerati nel mondo intero, una statua in marmo nella navata stessa di San Pietro, pellegrinaggi ininterrotti alla sua tomba di Nevers.
Le «sfumature di grigio»
Sia chiaro, dunque: le «sfumature di grigio» che qui elenchiamo, con realismo doveroso, convivono con ampi spazi dai quali filtra la luce. Non dimentichiamo ciò che proprio Benedetto XVI ci ha ricordato, anche con il suo congedo: solo chi non comprenda che la Chiesa non è nostra ma del Cristo, può preoccuparsi per essa, per il suo futuro. Ai fedeli, Papa compreso, non è chiesto che fare, ciascuno al suo posto, il proprio dovere: il resto non è affare degli uomini. La barca, in ogni caso, giungerà al porto della fine della storia, anche fosse ridotta a una misera zattera carica solo di povera gente. Non potendo allargarci al mondo intero, concentriamoci, come abbiamo cominciato qui sopra, sull’Europa che, malgrado tutto, resta e resterà il centro, e non solo perché il Papa è il vescovo di Roma. Le comunità cattoliche di ogni altro Continente sono tutte sue figlie, sono state fondate da missionari spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi, austriaci, bavaresi, italiani e ne portano ancora il segno indelebile. E, pure oggi, malgrado il baricentro numerico dei battezzati si sia spostato oltre l’Atlantico, è dall’Europa che giungono gli orientamenti, anche culturali, per la Chiesa intera. Solo qualche semplice può credere, ad esempio, che la più nota delle teologie «esotiche», quella detta «della liberazione», sia nata dalla sofferenza e dall’anelito degli sfruttati nell’America che parla spagnolo e portoghese. In realtà, è stata elaborata nei laboratori teologici di Francia e di Germania, con un robusto apporto olandese: dunque dagli stessi uomini e dagli stessi circoli che hanno ispirato e guidato, nei fatti, il Vaticano II. Concilio, più che dei vescovi, dei teologi. Tutti europei. La stessa superpotenza economica e militare degli Stati Uniti non ha dato finora alla cattolicità alcun santo davvero popolare né al pensiero ecclesiale uno spunto originale, se non quell’«americanismo», applicazione un po’ naïf del pragmatismo yankee al Vangelo, che Leone XIII si affrettò a condannare nel 1899.
Per quanto è dunque dell’Europa, umbilicus Ecclesiae, la situazione non sembra, umanamente, rassicurante: la diminuzione, spesso l’azzeramento delle vocazioni al sacerdozio secolare potrà dissolvere a breve buona parte della millenaria rete delle diocesi e delle parrocchie, per mancanza di personale ecclesiastico. Già ora, in Francia, nell’area germanica e altrove, gli accorpamenti sono la norma, ma bastano sempre meno. Quanto alle vocazioni alla vita religiosa, molte congregazioni (soprattutto femminili, ma non solo) sono destinate statisticamente all’estinzione: sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti, delle Case Generalizie ormai deserte. I collegi che furono per i novizi sono trasformati in ricoveri per i religiosi anziani e malati: molte congregazioni stipulano patti per unire i loro invalidi, non avendo più né personale né fondi sufficienti per fare da sole. La speranza di riempire i vuoti europei con i giovani e le giovani africani ed asiatici si è rivelata spesso illusoria o, almeno, eccessiva. Troppe le differenze culturali, troppa la distanza di mentalità, troppe le motivazioni sospette nell’ingresso in seminari ed istituti. Non sono certo solide tante «vocazioni» terzomondiali determinate (come un tempo nell’Europa delle campagne miserabili) da ragioni di sopravvivenza o da ricerca di elevazione sociale. Non tutti i casi, grazie a Dio, finiscono come quello di mons. Milingo, il presule nero che tante simpatie e speranze aveva suscitato; non mancano le buone riuscite, ma molto al disotto — almeno per quantità — di quanto vescovi diocesani e Superiori Generali delle Congregazioni avevano atteso. Quanto ai laici, l’abbandono in massa della pratica anche solo domenicale, per alcuni ha portato all’indifferenza e alla lontananza, per altri si è trasformato in ostilità, tanto da spingere i sociologi a coniare un triste neologismo: «cristianofobia». Nessuno è più rancoroso di un «ex» deluso. Malgrado l’alternarsi di destre e di sinistre nei vari governi europei, un trend storico che sembra per ora inarrestabile porta a costumi morali, prima o poi riconosciuti dalle leggi statuali, che contrastano frontalmente l’etica cattolica. E, questo, anche tra gli ancora praticanti, tanto che qualcuno ha parlato di uno «scisma silenzioso»: una pratica di vita, cioè, che non tiene alcun conto (pur senza proclamazioni e, a quel che pare, senza crisi di coscienza) dei precetti ecclesiali. Chi, oggi, pur tra coloro che si definiscono cattolici e che si accostano ai sacramenti, chi penserebbe a escludere dalla sua vita coniugale gli anticoncezionali; o a distogliere il parente divorziato dal risposarsi; o ad ammonire l’amico gay praticante; o a vietare alla figlia i rapporti sessuali con il compagno; o a dissuadere le coppie dalle convivenze, esortando alle nozze. Pare che forti desistenze si verifichino pure per aborto ed eutanasia. Il praticante cattolico medio europeo sembra coincidere, nella prassi morale, col laico medio della postmodernità, senza differenze rilevanti.
L’abito del prete
I sacerdoti: sia diocesani che religiosi. Non si creda (lo hanno denunciato più volte tanto Benedetto XVI quanto Giovanni Paolo II, ma le messe in guardia cominciarono con Paolo VI) che l’insegnamento di teologi e biblisti, nei seminari superstiti e negli atenei che pur si dicono «cattolici», sia sempre rispettoso delle indicazioni che vengono da Roma. Al clero che ne esce manca spesso, più ancora che le nozioni, quella che i tedeschi — ancora al tempo della gioventù di Joseph Ratzinger — chiamavano die Katholischeweltanschauung, la prospettiva, il punto di vista cattolico. Non di rado l’ottica di certo clero e di certa stampa confessionale sembra essere quella della ideologia egemone del momento: per più di vent’anni dopo il Vaticano II fu l’impasto — con dosi diverse a seconda dei luoghi e dei teologi — tra Cristianesimo e marxismo. Ora, si è largamente infiltrato il relativismo liberal, il liberalismo etico, soprattutto la political correctness, questa ideologia diabolica perché dalle apparenze quasi cristiane ma fondata su ciò che il Cristo più detesta: l’ipocrisia, l’eufemismo ruffiano, la manipolazione delle parole per nascondere la realtà nella sua verità.
A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra minore — quello dell’abito ecclesiastico — ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuovo Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: «I chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo». E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: «I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà». Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo «segno» di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando persino il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni, gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard-filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro Papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale. La questione sembra secondaria, ma non lo è: dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio «sacrale», che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato «diverso», «a parte». Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come «atleta di Dio» (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno sociopolitico.
Una ong di filantropi?
Vi è qui la maggiore, forse, delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa, cioè, come la maggiore delle ong, una organizzazione di volontari, di filantropi dediti a soccorrere coloro che sono bisognosi di assistenza materiale e, al contempo, a denunciare con toni profetici ingiustizie, disparità, violazione dei diritti umani. Preti e suore come militanti sociali e come sindacalisti, uniti nella lotta, senza differenze di religione, a ogni uomo di buona volontà. Nobile ideale, va riconosciuto. Ma che a un cristiano non può bastare. In questo pur generoso darsi da fare solo umano vi è un rovesciamento radicale della prospettiva di fede: il «Cristianesimo secondario» — quello dell’impegno sociale e politico — non può, non deve essere anteposto a quello «primario». Che è l’annuncio del Vangelo della salvezza eterna, è la «carità della verità» prima ancora di quella (pur benemerita, ma derivata) del pane, l’amministrazione dei sacramenti che sorreggano nella fede e conducano verso la meta al di là della morte, la preghiera individuale ma pure quella, pubblica, incessante, ogni giorno rinnovata, della liturgia. La fede senza esitazione nella verità del Vangelo e l’annuncio di esso ai fratelli (il kérygma) è il prius, la carità materiale non è che la conseguenza doverosa, istintiva ma subordinata, all’annuncio che «Gesù è il Cristo». Quel rinnovato Codice canonico che dicevamo, questa raccolta delle leggi che reggono l’istituzione ecclesiale, riporta alla fine il fondamento di sempre, la ragion stessa di essere della Comunità cristiana: Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto, suprema legge della Chiesa (e di ogni uomo di Chiesa) sia la salvezza delle anime. La Chiesa esiste per questo: per annunciare la Vita oltre la vita e per accompagnare gli uomini verso questo traguardo finale. Non è spiritualismo disincarnato, al contrario: è consapevolezza della parola del Cristo, per il quale «non di solo pane vive l’uomo» e per il quale non vi è vita umana senza una prospettiva di eternità. Quel Gesù che predicava la Parola che salva e poi, ma soltanto poi, dopo aver nutrito le anime, le menti, i cuori, pensava ai pani e ai pesci per sfamare anche i corpi. Quel Gesù che guardò con affetto grato Marta che si affaccendava per la casa «tutta presa da molti servizi», come scrive Luca. Ma che le ricordò che era la sorella, Maria, accoccolata in silenzio ai suoi piedi, che «aveva scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta». La parte, cioè, di chi dà il primo posto all’ascolto della Parola di Dio, alla meditazione, alla preghiera, che è il lavoro più prezioso anche socialmente, benché i suoi effetti concreti spesso sfuggano alla nostra miopia. Non a caso la Chiesa ha sempre approvato, incoraggiato, benedetto le famiglie religiose di «vita attiva», dedite soprattutto alla carità corporale. Ma ha sempre considerato più alte — dunque, più rare — le vocazioni alla «vita contemplativa», nel silenzio e nel nascondimento del chiostro.
Concetti che furono elementari, per un cattolico. Eppure, sembrano sfuggire a tanti, tra i fedeli stessi. Non a caso Benedetto XVI ci ha ridato un esempio: nel suo desiderio di continuare a servire la Chiesa, ha scelto il ministero della preghiera nella solitudine e nel silenzio, cioè l’impegno più concreto, che però solo la fede può comprendere.
Che fare?
Ma che dovrebbe fare il Papa che uscirà dal prossimo Conclave, alla luce di quei nodi di crisi che si è cercato di indicare, seppur solo con pochi, pochissimi esempi? Noi non siamo Hans Küng che da decenni si è nominato anti-Papa e che, in un’intervista di questi giorni, sfidava il grottesco: plaudiva infatti allo svecchiamento della Chiesa, voleva che gli anziani si togliessero di torno, diceva che il suo già collega Ratzinger aveva aspettato troppo ad andarsene. Non ricordava al lettore, però, che, con i suoi 85 anni, è coetaneo di Benedetto XVI (soltanto pochi mesi in meno), eppur nulla intende mollare degli incarichi raggiunti. In pensione vadano i Papi, che diamine, non gli anti-Papi! Ma noi non siamo Küng, soprattutto perché ci pare da delirio egocentrico, da rinnegamento di ogni prospettiva cristiana la risposta alla domanda «Che cosa si aspetta dal prossimo Conclave?». Risposta che così, purtroppo, suona: «Il Conclave potrà dare un impulso solo se i cardinali accetteranno l’analisi esposta nel mio libro Salviamo la Chiesa». Poiché, come si sa, in una prospettiva di fede è lo Spirito Santo a ispirare gli elettori nella Sistina, il Paraclito dovrà sbrigarsi: occorre procurarsi quel libro e studiarselo bene per indirizzare i cardinali non come Dio, ma come il professor Küng comanda. Lo Spirito, in Conclave, non è che un tramite del Messaggio redentore, quello che sta nelle tavole bronzee, incise in caratteri gotici, di Salviamo la Chiesa vergate da colui cui fu vietato di dirsi «teologo cattolico».
Prendendoci, come doveroso, assai meno sul serio, noi crediamo che la Chiesa, Corpo stesso di Cristo, Sua proprietà esclusiva, sia già salvata, senza bisogno delle nostre analisi e dei nostri libri che, semmai, rischiano di irrigidire in un morto schema ideologico l’abbondanza di vita del Vangelo. «Il mio programma è di non averne», disse giustamente Benedetto XVI nel discorso di inizio del pontificato. Se è lecito, tuttavia, un auspicio, è che il Papa che uscirà dal prossimo Conclave si ponga come prioritario un impegno. Quello che mi riassunse, in una intervista che fece rumore, Hans Urs von Balthasar, tra i maggiori teologi del secolo scorso, cardinale mancato solo per la morte improvvisa. Mi disse: «Tout d’abord, il faut remettre le christianisme debout», innanzitutto bisogna rimettere il Cristianesimo in piedi. Occorre, cioè, rimetterlo dritto sulla base in roccia della fede: una fede salda, come fonte originaria e primaria, da cui tutto derivi. Continuando, in questo modo, il lavoro di colui che ora lascia il pontificato. In effetti, l’eredità più significativa che Benedetto XVI ci lascia è quell’Anno della fede, per il quale ci ha dato anche il testo di riferimento: quei tre libretti, apparentemente divulgativi, in realtà calibrati parola per parola, frutto di una vita intera di riflessione, che ci mostrano come Gesù sia il protagonista di una storia vera, non di un oscuro mito giudaico-ellenistico. Da docente prima e poi da vescovo, poi da Prefetto della Dottrina della Fede, infine da Papa, Joseph Ratzinger ha voluto sempre e solo darci testimonianza che prendere sul serio i Vangeli, scommettere sulla loro verità la nostra vita e la nostra morte è ancora possibile, non è ingenuità o carenza di informazione. Credere che Gesù è davvero il Cristo può farlo anche lo specialista più informato, più smaliziato (come Ratzinger è) quanto alle esegesi e alle teologie più recenti. Insomma, per dirla alla svelta: confermare il popolo di Dio che le chrétien n’est pas un crétin. Ha scritto nel testo di indizione per l’Anno della Fede: «Capita ormai che i cristiani si diano preoccupazione quasi esclusiva per le conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, pensando ad essa come a un presupposto ovvio. Ma simile presupposto di una fede salda è, purtroppo, sempre più spesso illusorio».
Ecco — pur convinti che la scelta della Sistina sarà comunque la migliore, se i venerandi elettori si riterranno solo gli strumenti di Qualcuno che li sovrasta — ecco, il nostro auspicio è per un Papa consapevole che la Chiesa non ha che un problema: confermarsi e confermarci nella fede, tornare a recitare il Credo con convinzione, rafforzare (anche con la riscoperta di un’apologetica adeguata) le ragioni per credere. Il resto seguirà da sé e tanti nodi si scioglieranno. La sola vera, preoccupante crisi ecclesiale è consistita, in questi decenni, nell’affievolirsi della certezza nella Speranza che il Vangelo ci annuncia. Papa Ratzinger ne era ben consapevole, alla pari di Papa Wojtyla. L’augurio è che il loro Successore, chiunque sia, ne sia altrettanto convinto.
Vittorio Messori