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 2013  febbraio 17 Domenica calendario

ROMAN VLAD

[vedi appunti]

Tutta la vita di Roman Vlad ha ruotato attorno alla musica.
Con disciplina e passione: componendola, suonandola, raccontandola. Guardo le sue mani afflitte dall’artrite. Come ulivi che il tempo ha deformato: «Oggi mi dedico molto meno al pianoforte», sottolinea con un leggero rimpianto, «e quando ancora mi siedo e suono lo faccio con tre dita. Capisce cos’è la tenacia umana? », capisco e penso che la determinazione insieme a una trasparente intelligenza siano le doti di quest’uomo che ha conosciuto il mondo nei suoi più diffusi aspetti culturali.
Cosa vuol dire perdere l’uso di certe facoltà?
«Dipende quali organi, naturalmente.
Beethoven era sordo e scoprì un sistema tutto suo per entrare in sintonia con la musica. Metteva una matita tra i denti e avvicinava la punta al pianoforte e così sentiva le vibrazioni».
La musica è una cosa tattile?
«In certi casi lo diventa, come un corpo che ti sfiora. Stravinskij era convinto che la musica oltre che ascoltata fosse anche un’esperienza tattile».
Era la sua anima russa a dettarglielo. Lo ha conosciuto?
«Molto bene. Era un uomo pieno di entusiasmo e curiosità per tutto. Ricordo che una delle prime cose che gli chiesi – eravamo negli anni Cinquanta – fu perché avesse sostenuto, con tanta convinzione, l’idea discutibile che la musica non andasse interpretata ma eseguita. Mi guardò da dietro le lenti spesse da miope e mi rispose che era pura polemica la sua. In realtà la musica è fatta soprattutto della parte che non si è scritta».
È a questa che un direttore si rivolge?
«Il grande direttore trascende il fatto razionale, stabilisce un rapporto empatico con l’orchestra e crea l’emozione per il pubblico. Ecco cosa lo distingue da un semplice Kapellmeister».
La differenza è nel grado di libertà?
«Penso proprio di sì. Una volta, discutendo con il mio maestro Alfredo Casella, sostenni che alla perfezione di Toscanini preferivo la libertà e l’imperfezione di Furtwängler. Allora mi invitò a casa sua e mise sul piatto del giradischi il preludio della Traviata e mi chiese di accompagnarlo battendo il tempo. Capii che quella che sembrava un’abile esecuzione meccanica in realtà emanava una libertà straordinaria. Toscanini era talmente bravo da riuscire a nascondere la sua interpretazione!».
Accennava a Furtwängler e all’imperfezione.
«L’imperfezione in musica può diventare una grande risorsa. Mozart in qualche modo ne intuì la forza. L’“incidente” era in lui fonte di divertimento come nell’ouverture del Ratto del serraglio. Ma l’errore deve essere voluto, cercato, perché esalti la bellezza di un brano. Non so quanto la nostra critica sia abituata a queste sottigliezze».
Passiamo per essere un paese musicale. Eppure non abbiamo un’educazione musicale. Perché?
«La musica è l’arte immateriale per eccellenza. Come la matematica, se non la si insegna nel suo linguaggio non la si capisce e non la si ama. In passato qualche aiuto venne dalla radio e dalla televisione. Poi più niente. È prevalsa la mercificazione. Del resto, Adorno lo aveva capito benissimo».
Che ruolo ha svolto nella musica questo filosofo?
«Oltre che filosofo Adorno è stato allievo di Alban Berg. Fu lui a suggerirgli di musicare Lulù di Wedekind. Ho amato molto i suoi scritti su Webern, meno certe posizioni “tranchant” che assunse in seguito».
A cosa si riferisce?
«Premetto che ho frequentato spesso Adorno, ammirando la sua intelligenza, la versatilità con cui sapeva passare da un argomento all’altro e ho patito molto quando nel 1968 gli studenti tedeschi lo attaccarono e lo sbeffeggiarono. Però non era simpatico e soprattutto aveva la presunzione di sentirsi il primo della classe».

È stato tra i grandissimi pensatori del Novecento.
«Non discuto questa affermazione. Ma gli mancava l’umiltà che completa il carattere e rende grande davvero una persona. Lo conobbi nel 1950 a Monaco di Baviera, durante un convegno dedicato alla musica moderna. E mi trovai in disaccordo con lui. Sosteneva che Stravinskij era la conservazione e Schönberg il progresso. E che per questo il primo era meno intenso, meno bravo, meno interessante del secondo».
Ci può stare un giudizio così formulato.
«No. La musica non seduce solo per i concetti che esprime, ma anche per la passione che provoca. Mio padre amava molto Verdi e ricordo che ci faceva spesso ascoltare l’Aida. In seguito, ho amato in egual misura Wagner che era l’opposto di Verdi. E così è stato per Schönberg e Stravinskij. Amare è fondamentale».
Ed essere amati?
«Altrettanto importante. Ma attenzione a non approfittarne. Il nostro mondo ormai vive di icone. È stato Karajan, in musica, a creare il mito del direttore d’orchestra».
Il cognome “Vlad” è un’altra icona dell’immaginario.
«Non discendiamo dall’impalatore né dal conte Dracula. “Vlad” è un nome paleoslavo, in origine era il capo villaggio».
Suo padre cosa faceva?
«Era un magistrato. Dove sono nato – a una quarantina di chilometri da Czernowitz in Bucovina – la mia famiglia possedeva un grande latifondo. Eravamo ricchi. Papà voleva che studiassi ingegneria e devo dire che avevo una certa propensione per la matematica. Ma la musica era la mia ossessione. Per questo quando mi trasferii in Italia alla fine del 1938 entrai, con qualche difficoltà, all’Accademia di Santa Cecilia diretta allora da Casella».
Perché la decisione di lasciare la Romania?
«Soffiavano i primi venti di guerra. Hitler aveva già occupato l’Austria e si apprestava a invadere l’Europa. L’Italia mi pareva ancora un approdo possibile. E infatti, quando giunsi a metà novembre a Roma vidi, sotto un cielo piovoso, una città bellissima e ancora accogliente».
È singolare che anche Paul Celan, qualche anno dopo, avrebbe lasciato Czernowitz.
«Ho molto pensato a questa coincidenza. Tra noi c’era un solo anno di differenza e l’ho conosciuto quando ancora si chiamava Paul Antschel. Proveniva da una famiglia di ebrei ortodossi. Anche se la madre lo fece studiare in un liceo laico e questo, so per certo, gli salvò la vita».
In che modo?
«La Bucovina fu occupata dai nazisti e la famiglia di Paul fu deportata in un lager. Il padre morì di tifo e la madre fu fucilata. Lui riuscì a salvarsi e grazie all’interessamento di certe amicizie scolastiche divenne assistente in una clinica psichiatrica. In seguito, ma c’era già l’occupazione sovietica, fuggì a Vienna e poi approdò a Parigi. Le nostre vite, come vede, ebbero destini diversi. Fu un poeta straordinario, che ha patito come pochi il suo essere ebreo».
Gli caddero addosso gli orrori del nazismo.
«Penso alla sua ammirazione per Heidegger e al contempo alla delusione che provò la volta in cui andò a trovarlo nella baita di Todtnauberg: il filosofo non disse una parola sul nazismo. E Celan aveva scritto quella poesia tragica sugli orrori del campo: Todesfuge, ossia “Fuga di morte”».
Ne restò sconvolto, oltre che deluso.
«Certo, so che Heidegger rimase seriamente impressionato dallo stato mentale di Celan».
Lei come spiega il suicidio?
«È accaduto come per Primo Levi. Il rimorso di esseri salvato mentre i genitori erano stati uccisi. La sofferenza a volte è più forte del Dio al quale ci rivolgiamo o vorremmo rivolgerci».
Dio occupa un posto nei suoi pensieri?
«Non sono credente anche se ritengo che la religione svolga un compito importante. Ho perfino scritto una messa cattolica».
Compone spesso?
«Ho sempre scritto musica. Anche per il cinema. Si tratta di un’esigenza profonda. Debussy diceva che in musica il piacere è la regola. Io direi: la necessità interiore è la regola. Non ce ne sono altre».
Si crea in omaggio o contro la tradizione?
«Dipende. Personalmente sono in disaccordo con chi pur creando va solo contro qualcosa».
A chi pensa?
«Beh, la “Scuola di Darmstadt” è un esempio. I suoi componenti – comunque straordinari come Stockhausen, Boulez, Maderna, Berio, Nono – pensavano di fare musica con il solo gusto del nuovo per il nuovo. Qualcosa di analogo avvenne da noi con il “Gruppo ’63”. Diffido di quelle avanguardie che bruciano i ponti con il passato».
Altrimenti non sarebbero avanguardie.
«D’accordo. Ma quanto deve durare il loro manicheismo?»
Offre di sé un’immagine moderata.
«Non ho mai rifiutato il nuovo. Come si fa a respingere la dodecafonia, la musica elettronica e sperimentale? Il che non mi impedisce di vedere la grandezza della classica. Ogni rottura, ogni svolta musicale, per quanto grande e profonda possa essere, non può fare a meno di quello che è venuto prima. Si può reinterpretare, ma non ignorare il passato».
Ci sono state molte svolte nella sua vita?
«Come in tutti. Il mio arrivo in Italia. La cittadinanza presa nel 1951, mia moglie Licia, i miei due figli. Sono le nostre vite che si trasformano, anche faticosamente. A volte veniamo messi a dura prova».
La sua è mai stata in pericolo?
«Sì. Vivo senza un rene, dopo che, tanti anni fa, fui operato di un tumore preso in tempo. Appresi della cosa solo dopo l’operazione e reagii con molta serenità».
Non la spaventa l’idea della morte?
«No. Anche se può diventare un evento tragico. Nel 1978 deragliò il treno in cui viaggiavo e ci furono una sessantina di morti. Con me c’era Fedele D’Amico che rimase ferito gravemente. Mi salvai per caso. Ma in quel momento, ricordo, reagii freddamente e questo mi permise di aiutare alcuni feriti. La morte che ci sovrasta è una strana figura».
In che senso?
«Pensi all’arte. Non esisterebbe senza la presenza continua della morte. Il mondo è libero perché è limitato. Noi siamo liberi, e dunque capaci di creare, perché viviamo nel tempo. L’arte non potrebbe sopportare la vita eterna».
Gli uomini se la sono inventata, la vita eterna.
«È il motivo per cui non credo in un Dio, ma nelle sue funzioni. Mi resta il rammarico, in questo tempo che si chiude, di non poter fare ancora, e di più».
È il mito del Faust che torna.
«Non in quel senso, non sotto forma di patto che comunque limita la libertà. Ma nell’idea del fare, che è il nostro modo umano di stare al mondo senza nostalgia».
Non le manca niente?
«Sono stato un uomo fortunato, devo riconoscerlo. Con un dolore che mi ha sempre accompagnato».
Quale?
«Non ho più rivisto mio padre, da quando me ne andai. Tornai una sola volta a prendere i miei genitori per portarli sopra un carro al riparo dagli invasori. Quella scena di fuga e di tormento è ancora indelebile davanti agli occhi».