Calvin Tomkins, la Repubblica 17/2/2013, 17 febbraio 2013
Ecco alcuni stralci dell’intervista che , critico d’arte del “New Yorker”, fece a più riprese a Marcel Duchamp nel corso del 1964 e che ora viene per la prima volta pubblicata negli Stati Uniti Oggi vorrei mi parlasse della sua vita a New York prima della Grande Guerra
Ecco alcuni stralci dell’intervista che , critico d’arte del “New Yorker”, fece a più riprese a Marcel Duchamp nel corso del 1964 e che ora viene per la prima volta pubblicata negli Stati Uniti Oggi vorrei mi parlasse della sua vita a New York prima della Grande Guerra. Ha detto che la città è cambiata tantissimo da allora. «La vita è cambiata in ogni parte del mondo. Prenda le tasse. Nel 1916 e nel 1920 le tasse non esistevano, o erano talmente trascurabili che la gente non ci pensava mai. Oggi, quando si avvicina marzo o aprile, tutti si agitano e dicono che non possono comprare questa o quell’altra cosa perché devono pagare le tasse. È una frenesia che all’epoca non c’era. E anche il resto della vita in generale era più tranquillo, almeno nei rapporti interpersonali. Non c’era la corsa del topo, cioè la corsa forzata al successo che c’è adesso. Il mondo intero oggi è ossessionato dalla corsa al successo». Però, nonostante tutta questa mercificazione e questa corsa al successo, è un dato di fatto che fra gli artisti più giovani oggi ci sia un grande fermento. C’è moltissima inventiva, eccitazione… «Sì, allora c’era meno movimento di oggi, e non c’erano così tanti artisti. Fare l’artista di professione era qualcosa di riservato a pochi, mentre oggi un giovane che non ha una predisposizione particolare per qualcosa ti dice: “Magari provo con l’arte”. Ai miei tempi i ragazzi che non sapevano che fare provavano con la medicina, o studiavano per diventare avvocati. Era questo che si faceva». Pensa si sia diffusa l’idea che fare arte è semplice? «Non è più semplice di prima fare arte, è che ci sono più sbocchi. Ma ovviamente anche molta più concorrenza». E secondo lei tutta questa nuova attività artistica non è un segnale positivo? «Sì, se lo si guarda dal punto di vista sociale. Ma dal punto di vista estetico mi sembra alquanto dannoso. A mio parere una produzione tanto abbondante non può generare che mediocrità. Non c’è il tempo per realizzare opere veramente belle. È quello che io chiamo l’integrazione dell’artista nella società. Significa che l’artista ha uno status equivalente a quello dell’avvocato, del medico. Cinquant’anni fa eravamo dei paria: i genitori di una ragazza non avrebbero mai acconsentito a farle sposare un artista». Ma a lei piaceva essere un paria. «Ah sì, certo, non è molto comodo ma almeno hai la sensazione di realizzare qualcosa di diverso dal consueto che resterà per secoli dopo la tua morte». Quindi disapprova il fatto che l’artista si integri nella società? «Per certi versi è una cosa molto piacevole, perché c’è la possibilità di guadagnarsi da vivere. Ma è deleteria dal punto di vista della qualità del lavoro eseguito. Sono del parere che le cose importanti devono essere realizzate con lentezza. Non credo nella velocità, ed è questo che succede con l’integrazione. Non credo nella rapidità, nella velocità, concetti che ora vengono introdotti nella produzione dell’arte, per poterla fare in fretta. Più veloce è meglio è, dicono loro». Lei ha detto che le sue opere hanno contribuito a creare questo fenomeno che ora ci ha descritto. La stessa creazione dei ready-made, per esempio… «Ma quando io realizzavo cose come quelle non era con l’idea di produrne migliaia. L’obbiettivo era sottrarmi alla capacità di scambio, alla monetizzazione, per così dire, dell’opera d’arte. Non ho mai avuto intenzione di vendere i miei ready-made. Era un gesto per dimostrare che era possibile fare qualcosa senza il retropensiero di ricavarne del denaro. E infatti non li ho mai venduti. Non li ho nemmeno mai esposti. Nessuno li ha mai visti fino a una ventina d’anni fa. Quando li ho esposti alla galleria Bourgeois, nel 1916, Bourgeois me lo fece come un favore di includerli nella mostra, come una cosa ironica (da parte sua, non da parte mia). Perciò se sono responsabile di quanto accade oggi, lo sono fino a un certo punto, non interamente». Cosa ne pensa della concezione contemporanea dell’arte come di qualcosa che non è fisso: invece del capolavoro che se ne sta lì fisso appeso al muro dovrebbe essere qualcos’altro. «La difficoltà è farlo capire a chi compra, i collezionisti sono una categoria molto tradizionalista. In genere non sono sufficientemente intelligenti. Hanno la tendenza a sentire le cose, vanno a sensazione, non sono intellettuali. Per loro è già un grande passo avanti capire che quello che comprano non è fatto per essere appeso a un muro o per decorare la loro abitazione. Sono sempre pronti a dire: “Lo voglio comprare soprattutto per mostrarlo ai miei amici”, oppure “Quando verranno al mio cocktail party, voglio che vedano il mio Rauschenberg”. Vogliono guardare i colori e la combinazione delle forme e dire con disinvoltura: “Oh, questo lo adoro. Non ti piace? Ah, è meraviglioso”. Questo è il loro vocabolario. Un vocabolario meraviglioso, no?» ( ridacchia). Sarebbe più salutare se il collezionista recepisse queste opere in modo più vicino allo spirito con cui sono state create? «Almeno ci sarebbe una possibilità di tornare a un approccio spirituale, che oggi manca completamente. O meglio, è oscurato dal valore monetario dei dipinti. Il dipinto può essere molto spirituale o qualcosa del genere, ma il collezionista finisce sempre per dire: “L’ho pagato questa cifra”. O troppo o troppo poco, e va bene in tutti e due i casi. Seètroppopocochiede:“Hofattomale?”. E se è troppo dice: “Ne vado orgoglioso perché l’ho pagato tantissimo”». Ritiene che la mercificazione sia la caratteristica dominante nel mondo dell’arte del nostro tempo? «È l’effetto dell’integrazione. Integrazione significa che se un avvocato o un medico fanno qualcosa vengono pagati per farla, e tutti danno per scontato che debbano essere pagati per i servizi che rendono. Nel caso dell’artista — che è integrato per la prima volta da un secolo a questa parte — dev’essere pagato per quello che fa. È normale. È automatico. Nessuno si preoccupa di ragionarci su o di spiegarlo». Secondo lei un giovane artista che cosa potrebbe fare per rompere le gabbie di oggi come lei ruppe le gabbie di ieri, quelle di prima della Grande Guerra? «Il grande artista di domani dovrà entrare in clandestinità. Se avrà fortuna sarà riconosciuto come tale dopo la sua morte, ma potrebbe anche passare inosservato. Entrare in clandestinità significa non essere tenuto a interagire in termini monetari con la società. Non accettare l’integrazione. Oggi un artista può essere un genio, ma se si lascia contaminare dal fiume di denaro che gli gira intorno il suo genio si scioglierà, fino a scomparire. A dispetto di quello che ha detto o fatto l’artista, di lui rimarrà qualcosa che non ha nulla a che fare con ciò che desiderava: la sua opera sarà stata catturata dalla società, che l’avrà fatta propria. L’artista non conta. La società prende ciò che vuole. È l’interazione col pubblico che fa il dipinto. Senza quella, il dipinto scomparirebbe in una soffitta, nessuna opera d’arte esisterebbe davvero. L’opera d’arte è sempre basata su due poli: il pubblico e l’autore, e la scintilla che scocca da questa azione bipolare dà vita a qualcosa, come l’elettricità. Non bisogna dire che l’artista è un grande pensatoreperchéproducel’operad’arte.L’artistanonproducenientefinchéchiguarda non dice: “Hai prodotto qualcosa di meraviglioso”. Chi guarda ha l’ultima parola». In altre parole, l’artista non dovrebbe considerarsi un essere supremo. «Provi un po’ a dirglielo! Un artista mi risponderebbe: “Tu sei pazzo! Io lo so che cosa sto facendo”. Hanno un ego smisurato. Nauseante». Ma è un atteggiamento che sta cambiando, no? Gli artisti della pop-art sembrano prendersi molto meno sul serio degli espressionisti astratti. «Sì, c’è una sorta di umorismo, e questo non è un male. Anzi, forse è il presagio di un’epoca in cui l’umorismo entrerà nell’arte, in cui la gente non sarà così seria e il denaro così importante, e ci sarà tempo libero a disposizione. Bisognerebbe trovare un sistema in cui tutti abbiano abbastanza soldi senza dover lavorare per averli». Ha mai cercato di discutere di queste teorie con un altro artista? «In generale non amo discutere. Con gli artisti non si discute, tu dici delle parole e loro dicono delle parole, non c’è la minima connessione. Zero assoluto. Bellissimo da entrambe le parti, un mucchio di parole nuove, linguaggio forbito, ma nessuno scambio reale e nessuna comprensione delle idee dell’altro». Tornando al discorso della mercificazione, quanto è importante il ruolo dei mercanti d’arte nella vita degli artisti? «Hanno lanciato tantissimi giovani. Ma sono anche i pidocchi che vivono alle spalle dell’artista. Anche i collezionisti sono parassiti. L’artista è il fiore intorno a cui ruotano tutti questi parassiti. A me piacciono molto, sono persone simpatiche, ma questo non ha niente a che vedere con la loro caratteristica di fondo, cioè che sono dei parassiti dell’artista. La loro è una forma di parassitismo molto peculiare: invece di essere d’intralcio, valorizza». Lei ha dichiarato che siamo al punto più basso nella storia dell’arte. «In realtà non c’è un punto più basso e un punto più alto, ma ho paura che il nostro caro secolo fra cinquecento anni non sarà ricordato granché. Rispetto all’Ottocento avrà un valore simile a quello del Settecento, con le sue forme artistiche giudicate frivole, leggere, più o meno decorative. Inoltre l’arte novecentesca è realizzata in modo da non durare. Gli strumenti impiegati per produrla sono estremamente deperibili. Gli artisti usano pigmenti scadenti; l’ho fatto io stesso. Il risultato è che fra non molto quelle opere scompariranno. I dipinti si scrostano continuamente, vengono riparati e restaurati in continuazione. E anche i restauratori in parte li distruggono, restaurandoli troppo. Quando un dipinto si scrosta, bisogna riattaccare lo strato superficiale e questo comporta un altro ritocco. Tutto ciò ha un nome: arte veloce, arte per il momento presente, a cui non importa nulla del futuro o del passato. Ritengo sia stata una caratteristica di tutto il secolo, dai fauvisti in avanti. Bisogna fare un dipinto in un pomeriggio. Altrimenti sei uno stupido. O meglio, sei giudicato privo di importanza. Ma questa è una cosa che non posso ammettere. Quando fai una cosa non la fai in cinque minuti o in cinque ore, ma in cinque anni. Io penso che la lentezza dell’esecuzione possieda qualcosa che rende più probabile produrre un’opera duratura nella sua espressione, un’opera che a distanza di cinque secoli ancora verrà considerata importante». Può sviluppare meglio il concetto di “uscire dalla tradizione”? «Dovrebbe essere l’atteggiamento adottato da chi vuole trovare qualcosa di proprio. Per fare qualcosa di tuo devi dimenticare quello che hai imparato. E quando cominci a dimenticare trovi qualcosa… di altro. Certo, magari ci provi senza mai riuscirci. Credi di stare facendo qualcosa di interamente tuo e un anno dopo lo guardi e ci vedi le radici da cui proviene inconsapevolmente la tua arte. Il Nudo che scende le scale non era qualcosa di nuovo per me nel momento in cui lo stavo facendo. Non lo sapevo. Solo dopo, dalle reazioni degli altri, ho scoperto che era qualcosa di nuovo». È stato scritto tantissimo sui ready-madecome protesta contro l’arte vista come merce. Lei preferisce considerare l’arte come una forma di magia? «Più vado avanti più mi pare che non sia assolutamente possibile. C’è questo dilemma, come ho detto, legato al fatto che chi guarda è importante quanto l’artista. Io attribuisco al pubblico quasi più importanza che all’artista, perché non soltanto guarda, ma emette anche un giudizio. Penso che questo sia un modo per introdurre nella società il gioco irrilevante dell’arte. È come un gioco fra lo spettatore e l’artista. Come la roulette, o una droga. Perciò l’aspetto magico dell’arte è qualcosa a cui io non credo più, temo di essere un agnostico dell’arte. Non credo nell’arte con tutti i suoi fronzoli, la mistica, la reverenza e così via. Come droga è utilissima per tante persone. È un sedativo. Dà assuefazione». È una droga anche per l’artista? «Sì, ma in modo diverso. C’è un aspetto psicologico, il fatto di mettersi sopra un piedistallo. L’artista fa di tutto per pensare che entrerà a far parte delle collezioni del Louvre o del Metropolitan. Usando l’arte come una scala. È un altro capitolo della vita, il capitolo dell’ambizione. Ma questo lo si trova dappertutto». La sua definizione di arte per certi versi si avvicina a quella di Matisse, l’arte come poltrona comoda. «Certo, presenta vari vantaggi. Ma al contempo non bisogna darle il riconoscimento di essere una specie di religione. Dio è molto meglio (ride). Tutto ciò che viene sistematizzato ci mette poco a diventare sterile. Nulla possiede valore in eterno. Dipende da come lo accoglie la società. La povera Gioconda ormai è andata, perché per quanto il suo sorriso possa essere meraviglioso è stato guardato talmente tante volte che è sparito. Io sono convinto che quando un milione di persone guarda un dipinto, per il solo fatto di guardarlo lo sta modificando. In senso fisico. Capisce che cosa intendo? Modificano l’immagine fisica senza rendersene conto. C’è un’azione, trascendentale naturalmente, che distrugge in maniera assoluta tutto quello che hai potuto vedere nel momento in cui era viva. Il pubblico è parte della realizzazione del dipinto, ma esercita anche un’influenza diabolica semplicemente per il fatto di guardarlo. La stessa cosa è successa con il mio maledetto Nudo che scende le scale: da dipinto scandaloso è diventato dipinto noioso, perché è stato guardato troppo. “Ah, di nuovo il Nudo” (ride) ». Nel decidere di spingere al limite le leggi della fisica e della chimica stava cercando di adottare un punto di vista ironico? «Sì, con l’idea che sarebbe stato più di un gioco, qualcosa per cui valesse di più la pena vivere: riuscire a spingere al limite quelle leggi, renderle più elastiche...». Perché così la vita sarebbe più interessante? «Ci sarebbe più immaginazione, più libertà d’azione, più mancanza di serietà, più gioco, più spazio per respirare invece di lavorare. Perché l’uomo dovrebbe lavorare per vivere? Il poveretto è stato messo sulla Terra senza il suo consenso. È costretto a stare qui. Il suicidio è una cosa difficile da realizzare. La vita sono dei lavori forzati. È il nostro destino, dobbiamo lavorare per respirare. Io non capisco perché sia così ammirevole. Riesco perfettamente a concepire una società in cui ci sia posto per i pigri. Avevo addirittura pensato di fondare una casa per i pigri, l’Hospice des paresseux. Se sei pigro, e la gente accetta che tu non faccia niente, hai il diritto di mangiare, bere, avere un riparo. Una casa in cui fare tutto questo gratis. A condizione di non lavorare. Se cominci a lavorare, vieni cacciato via». La sua vita è stata riempita dall’arte, ma non sembra che lei creda così tanto nell’arte. «Io non credo nell’arte. Io credo nell’artista». (Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA Duchamp nel 1953 davanti a À regarder d’un oeil... (1918) quando l’opera fu acquistata dal MoMA FOTO GETTYIMAGES