Sergio Romano, Corriere della Sera 17/2/2013, 17 febbraio 2013
Sbalorditivo: la Corte costituzionale si considera «virtuosa» perché ha stabilito che a tutti giudici costituzionali cessati dalla carica è conservata l’assegnazione temporanea di una autovettura e di un autista «solo per la durata di dodici mesi dalla scadenza del mandato»
Sbalorditivo: la Corte costituzionale si considera «virtuosa» perché ha stabilito che a tutti giudici costituzionali cessati dalla carica è conservata l’assegnazione temporanea di una autovettura e di un autista «solo per la durata di dodici mesi dalla scadenza del mandato». Mi auguro che questo non significhi che finora tutti i componenti della Consulta (e quindi non soltanto il presidente) avevano diritto all’auto blu per tutta la vita! Ma quanti e quali sono le alte cariche «emerite» (per usare il termine coniato dall’ex presidente Cossiga per se stesso) dello Stato che hanno diritti a privilegi cosi iperbolici? Ricordo di avere incontrato in un ristorante a New York un ex presidente americano: era solo e non aveva intorno a sé nessun guardaspalle! Vittoria Cappelli, Bologna Cara Signora, A nch’io ho letto con qualche sorpresa il comunicato della Corte costituzionale pubblicato sul Corriere del 13 febbraio. Se il limite di dodici mesi per l’uso dell’auto dopo la fine del mandato è stato fissato grazie a una decisione adottata dalla Corte «nell’ambito delle restrizioni di spesa che hanno interessato tutte le amministrazioni pubbliche», devo desumerne che l’automobile, prima di allora, era un vitalizio. Quanto alla durata della presidenza del collegio (non più di tre anni secondo l’art. 135 della Costituzione), non mi sembra importante sostenere che periodi più brevi siano consentiti dalla norma. Credo che il triennio sia stato indicato per garantire alla funzione una certa continuità e al titolare l’acquisizione di una maggiore esperienza. Se la presidenza dura soltanto qualche mese, il senso della norma viene ignorato e trascurato. Temo che persino la Corte, cara Signora, abbia ceduto a una tentazione che ha contagiato in questi ultimi decenni quasi tutte le pubbliche istituzioni. Mentre le condizioni generali del Paese andavano progressivamente migliorando, pochissimi hanno resistito alla tentazione di concedersi vantaggi e comodità che in altri tempi sarebbero stati considerati disdicevoli o inutilmente costosi. È cresciuto esponenzialmente il numero delle auto di servizio; è aumentato il numero dei servizi privati che un dirigente pubblico pretende dai suoi collaboratori; è aumentato il numero degli incarichi, spesso onorifici e assegnati soltanto per giustificare maggiori compensi; è considerevolmente migliorata la condizione economica di chi lavora in prossimità del potere. È accaduto nella vita pubblica, per molti aspetti, quello che accadeva contemporaneamente nel mondo degli affari e delle banche dove i bonus, alla fine dell’anno, venivano considerati una pratica lecita anche quando le ricadute per i clienti erano modeste o addirittura negative. Uno degli aspetti più interessanti di questa generale autogratificazione è il fenomeno degli «emeriti». Secondo un divertente articolo di Mattia Feltri apparso su La Stampa del 13 febbraio, all’origine di questa nuova categoria sociale vi è una legge fortemente voluta da Francesco Cossiga all’epoca del primo governo Prodi. L’ex presidente della Repubblica pensava che i vecchi inquilini del Quirinale fossero un patrimonio nazionale e che a ciascuno di essi dovesse venire garantito, oltre al titolo («presidente emerito»), una serie di vantaggi e benefici. Pensavamo che il voto per la Repubblica fosse un voto contro gli orpelli, le pompe e i privilegi dinastici delle monarchie. Non potevamo immaginare che l’Italia repubblicana avrebbe reinventato un personaggio molto simile a quello della regina madre.