Elena Tebano, Corriere della Sera 17/2/2013, 17 febbraio 2013
Non è un gigante blu dalle eccezionali capacità fisiche, ma da un anno a questa parte anche Devon Carrow ha il suo «Avatar», un corpo artificiale che gli permette di muoversi in un ambiente che altrimenti gli sarebbe fatale, proprio come succede ai protagonisti del film di James Cameron
Non è un gigante blu dalle eccezionali capacità fisiche, ma da un anno a questa parte anche Devon Carrow ha il suo «Avatar», un corpo artificiale che gli permette di muoversi in un ambiente che altrimenti gli sarebbe fatale, proprio come succede ai protagonisti del film di James Cameron. Solo che questa non è fantascienza: Devon, 7 anni, si muove e interagisce con gli altri grazie a un robot alto un metro e 20 centimetri, con una microcamera al posto della testa e uno schermo che rimanda la faccia paffuta e sorridente del bambino. Lo si può vedere girare per i corridoi della sua scuola elementare di West Seneca, nello stato americano di New York, mentre la silhouette bianca del robot spunta solo qualche centimetro sopra i compagni di classe. «È fantastico — dice il bambino — prima non ero mai potuto andare a scuola». Devon, infatti, ha una forma molto pericolosa di allergia a latticini e noccioline: se il suo corpo entra in contatto con particelle di queste sostanze disperse in aria, lo choc anafilattico gli serra la gola e gli impedisce di respirare. Anche adesso non può lasciare la sua stanza, ma il robot è connesso al suo computer via wi-fi e il bambino lo manovra a distanza: si sposta sulle ruote grazie a un motore a batteria, la microcamera girevole gli permette di vedere ciò che accade intorno a lui, quattro microfoni captano i suoni circostanti, due altoparlanti fanno sentire la voce di Devon e uno schermo di sei pollici permette agli altri di guardarlo negli occhi. Il robot è prodotto dalla VGo Communications e costa l’equivalente di 4.500 euro, più altri 80 al mese per la manutenzione. È stata sua madre Rene a convincere il distretto scolastico a comprarlo: «Avrei potuto educare Devon a casa, ma così avrebbe perso i contatti sociali con i suoi compagni — ha raccontato all’Ap — Non volevo che mio figlio si sentisse escluso». Il suo caso non è l’unico: dal 2011 quando ha messo in commercio il primo modello, la VGo Communications ne ha venduti almeno 100 esemplari, per lo più impiegati nell’educazione a distanza o nell’assistenza a persone immobilizzate. E sono sempre di più le aziende che forniscono apparecchi simili. L’inventore di videogame Richard Garriott — un guru nel suo campo — ha usato un avatar per permettere alla madre ottantaduenne di partecipare al suo matrimonio. Garriot si è sposato a novembre 2011 a Parigi. La madre, che vive negli Stati Uniti, non avrebbe potuto affrontare il viaggio e Garriot ha fatto spedire in Francia al suo posto il robot QB, prodotto dalla californiana Anybots (costo 7.250 euro). Per l’occasione è stato rivestito con una sagoma cartonata dell’anziana signora, che ha potuto partecipare al ricevimento, parlare con gli ospiti e persino ballare. «Era come se mia madre fosse l’androide di "Guerre stellari" nel mezzo della pista da ballo», ha raccontato Garriot al Wall Street Journal. I robot telecomandati stanno cambiando profondamente anche il telelavoro. Il programmatore canadese Ivan Bowman, ormai da 5 anni, ogni giorno «va» al lavoro dalla sua casa di Halifax in un’azienda di Waterloo. Sarebbe un viaggio da 1.800 km, ma lui cambia soltanto stanza e guida dal pc «IvanAnywhere», un androide artigianale costruito dal suo collega Ian McHardy. «Eppure mi sento come se fossi davvero in ufficio», ha spiegato alla radio Cbc. Non tutti, però, hanno reagito bene all’Ivan artificiale: «C’è chi si sente a disagio e cerca di sgattaiolare dietro la microcamera per non essere visto», dice. Per i compagni di classe di Devon, nativi digitali cresciuti di fronte a uno schermo, il suo avatar telecomandato invece non è mai stato un problema. «È divertente, come un videogame — dice il bambino — La tua missione è sopravvivere». Elena Tebano