Claudio Del Frate Corriere della Sera 17/2/2013, 17 febbraio 2013
DAL NOSTRO INVIATO
CASTEL SAN GIOVANNI (Piacenza) — Anche il gioco d’azzardo ha la sua «filiera corta». In poche centinaia di metri si incontrano sette bar con le slot machine, due sale per scommesse sportive, tre sale giochi e due compro oro.
Chi brucia i soldi, chi li intasca e chi li rimette a disposizione: il cerchio si chiude.
Cartolina da Castel San Giovanni, il comune piacentino di 14 mila abitanti dove il 4 febbraio scorso Maria Cristina Filippini, una tranquilla donna di 48 anni, ha soffocato nel letto la madre novantenne Anna Giuliana Bocenti, le ha strappato la catenina, l’ha rivenduta per 280 euro ed è corsa ai videopoker in un bar del paese.
Una storia esemplare, soprattutto perché Castel San Giovanni, bersaglio dell’invasione dei mangiasoldi, non è più l’eccezione ma è diventata la regola. E se altrove nessuno si è ancora trasformato in matricida per la dipendenza dall’azzardo, il fenomeno è lo stesso esplosivo. La provincia di Pavia, che confina con Piacenza, ha il record italiano di spesa pro capite per scommesse (2.700 euro l’anno) mentre a Cremona, città dirimpettaia sull’altra sponda del Po, una barista ha spento i videopoker stanca di assistere allo spettacolo dei clienti che si rovinano con le loro mani. Per non parlare della provincia di Bergamo, dove un mese fa, in un paesino sul lago d’Iseo, un giocatore è rimasto attaccato allo schermo per dodici ore filate e ha dovuto essere portato via in ambulanza dopo aver perso 23mila euro e aver dato in escandescenze.
A Castel San Giovanni i gestori dei locali non si nascondono dietro un dito. «Certo che qua dentro abbiamo le slot — tagliano corto al bar "Dogana" («ma niente nomi, per favore») — come ce le hanno tutti qui in paese. Se sono dannose, che lo Stato faccia una legge e le proibisca...». Più articolato ed esplicito è invece il ragionamento di Anna Rita Miglionico, che conduce il bar «La Sosta»: «Ho soltanto due slot ma mi bastano per pagare l’affitto mensile del locale, mille euro al mese. Qui non ci sono giocatori fissi, abituali, credo che chi ha il vizio si sposti da un bar all’altro. Però di gente che in una giornata brucia 400, 500 euro ne vedo parecchia».
Ci guadagna lo Stato, ci guadagnano i gestori e gli installatori delle macchinette, ci perdono tutti gli altri. Persino il tessuto economico. Un bar nel centro di un paese fino a pochi anni fa era una miniera d’oro. Ora a Castel San Giovanni secondo il cartello di un’agenzia immobiliare un bar («80 metri quadrati, completo di arredi e slot machine») passa di mano a 115 mila euro, un prezzo da saldi di fine stagione per un’attività commerciale.
«Il fatto è — spiega Carlo Capelli, sindaco del paese piacentino — che la legge ha completamente liberalizzato tutto: l’apertura di un bar, l’istallazione delle macchinette. Non esiste alcuna possibilità di controllo, almeno per noi sindaci. Qui a Castel San Giovanni nel 2005 abbiamo provato a metterci una pezza: abbiamo emanato un’ordinanza che limitava con misure di natura edilizia l’apertura di sale giochi nel centro storico. Il risultato è stato che in poco tempo è raddoppiato il numero delle macchinette installate nei bar. Ed è stata la rovina di troppa gente: perché chi è vulnerabile al vizio del gioco se le trova sotto casa, dappertutto, basta la scusa di un caffè al bar per buttare soldi».
E per il sindaco il rimedio a questo punto può essere uno solo: «Se lo Stato non vuole rinunciare ai suoi proventi, che apra dei Casinò, grandi. Sono luoghi più controllabili e se uno davvero vuole rovinarsi, almeno deve fare la fatica di andarci».
Claudio Del Frate