VARIE 16/2/2013, 16 febbraio 2013
APPUNTI PER GAZZETTA - LA POLEMICA CON NAPOLITANO
ROMA - La presidenza della Repubblica respinge con fermezza le accuse di ingerenza nella campagna elettorale mosse ieri da Pdl e Lega dopo l’incontro di Giorgio Napolitano con il presidente Usa, Barack Obama. Dal Quirinale si fa notare che "è palesemente infondato e del tutto gratuito parlare di ’ingerenza’ nella campagna elettorale". Anche la Casa Bianca interviene nel dibattito: "Gli Usa non si schierano".
La precisazione del Colle. "L’incontro con il presidente Obama si è aperto con brevi dichiarazioni dinanzi a stampa e tv: il presidente degli Usa ha ribadito il suo ben noto apprezzamento per i progressi compiuti dall’Italia, e al presidente Napolitano è sembrato giusto sottolineare che essi erano stati possibili grazie al sostegno parlamentare di diverse e opposte forze politiche", prosegue il Quirinale.
"Più tardi, in conferenza stampa con i giornalisti italiani, il capo dello Stato ha rilevato come da qualche parte si sia passati dal sostegno ai provvedimenti del governo a giudizi liquidatori. Rispetto alle forze in campo nella competizione elettorale in Italia, il presidente Obama si è astenuto da qualsiasi apprezzamento nei confronti di chiunque. Non solo in pubblico, ma anche nel colloquio a porte chiuse, si sono tenuti comportamenti assolutamente impeccabili".
Accuse e difese. Il capo dello Stato aveva detto: "I progressi fatti con Monti devono continuare. Deploro le critiche di chi l’ha sostenuto". "Il presidente ha chiarito e richiarito che non si è trattato di una interferenza nella campagna elettorale. Il punto, che è da condividere, è che dobbiamo assolutamente nel futuro preservare, confermare, quel tanto di credibilità internazionale che è stata riacquisita dopo Berlusconi". Pier Luigi Bersani a margine di un’iniziativa elettorale a Lecce, difende Napolitano dall’attacco del Pdl. "Dopo di che - ha aggiunto - è chiaro che bisogna aggiungere a questo fatto degli altri fatti: equità, lavoro, crescita, riforme, lotta alla corruzione. Ci sono cose da fare che il governo tecnico non è stato in condizioni di fare e che tocca a noi fare".
"Napolitano non ha detto nulla di clamoroso. È dispiaciuto che i partiti che hanno appoggiato Monti ora lo trattino come figlio di nessuno", ha scritto Pier Ferdinando Casini, in un tweet. ’’Il presidente Napolitano, come sempre, ha detto parole di grande verità e saggezza e sono puerili le critiche che gli vengono rivolte dal Pdl’’, afferma in una nota il leader del ’’Centro Democratico’’ Bruno Tabacci, alleato di PD e SEL alle prossime elezioni.
Le accuse di ingerenza nella campagna elettorale erano state rivolte al Capo dello Stato da parte di Lega e Pdl. Ancora questa mattina Alessandra Mussolini, del Pdl, ha fatto sapere di disconoscere Napolitano da presidente della Repubblica, e il segretario della Lega, Roberto Maroni, ha bollato l’atteggiamento di Napolitano come "di parte" e lo ha invitato a star "fuori dalla campagna elettorale".
Usa: "Decide il popolo italiano". ’’Gli Stati Uniti non si schierano e non appoggiano partiti in occasione delle elezioni in altri Paesi’’, ha ribadito la portavoce della Casa Bianca, Caitlin Hayden, commentando le reazioni di esponenti del centro destra alle dichiarazioni rilasciate dal presidente della Repubblica italiana. ’’Sulle elezioni in Italia - precisa la Casa Bianca - è il popolo italiano che decide’’
(16 febbraio 2013)
HUFFINGTON POST
“È palesemente infondato e del tutto gratuito parlare - a proposito della visita del presidente della repubblica a Washington - di ingerenza nella campagna elettorale”. Trascinato suo malgrado nella gazzarra della campagna elettorale da un impressionante fuoco di dichiarazioni di tutto lo stato maggiore del Pdl. Infastidito per l’accusa di “ingerenza”, rivoltagli proprio nel corso di una delicata visita internazionale Giorgio Napolitano mette nero su bianco una nota durissima.
È palesemente infondato e del tutto gratuito parlare, a proposito della visita del presidente della repubblica a Washington, di “ingerenza” nella campagna elettorale. L’incontro con il presidente Obama si è aperto con brevi dichiarazioni dinanzi a stampa e tv: il presidente degli usa ha ribadito il suo ben noto apprezzamento per i progressi compiuti dall’Italia, e al presidente Napolitano è sembrato giusto sottolineare che essi erano stati possibili grazie al sostegno parlamentare di diverse e opposte forze politiche.
Più tardi, in conferenza stampa con i giornalisti italiani il capo dello Stato ha rilevato come da qualche parte si sia passati dal sostegno ai provvedimenti del governo a giudizi liquidatori. Rispetto alle forze in campo nella competizione elettorale in Italia, il presidente Obama si è astenuto da qualsiasi apprezzamento nei confronti di chiunque. Non solo in pubblico, ma anche nel colloquio a porte chiuse, si sono tenuti comportamenti assolutamente impeccabili.
È una doppia precisazione quella del capo dello Stato. Che riguarda il suo ruolo di presidente della Repubblica, messo in discussione dalla propaganda pidiellina. Ma anche il comportamento di Barack Obama: “impeccabile”. Precisazioni rese necessarie da una raffica di dichiarazioni velenose dei fedelissimi del Cavaliere. È il capogruppo Fabrizio Cicchitto ad aprire le danze mettendo indubbio la correttezza di Napolitano: “E’ anche un po’ deplorevole che ci sia un intervento politico alla fine della campagna elettorale da parte della massima autorità dello Stato che deve sempre rimanere al di sopra delle parti”. Il riferimento è alla constatazione oggettiva, da parte di Napolitano, del comportamento parlamentare del Pdl, passato “dal sostegno ai provvedimenti del governo a giudizi liquidatori”. Semplicemente, i fatti.
E fin qui il comportamento del capo dello Stato. Ma Napolitano, nella sua nota, è costretto a ripetere ciò che aveva dichiarato per ben due volte all’uscita dalla sala Ovale. E cioè che Obama è stato “impeccabile”. Impeccabile, parola che addirittura, fanno notare nello staff del Colle, suonerebbe quasi indelicata se il presidente degli Stati Uniti non conoscesse gli umori volubili della politica italiana. Nel senso che normalmente non c’è bisogno di dire che il comportamento del presidente degli Stati Uniti è stato corretto. Invece proprio lo svolgimento dei colloqui e le dichiarazioni che i due presidenti hanno rilasciato mostra, al contrario, quante cautele siano state usate per fugare l’impressione di una interferenza. A partire dalle parole sobrie utilizzate da Obama in relazione a una campagna elettorale che preoccupa, e non poco, l’amministrazione americana. Non è un mistero che l’America ha bisogno di un’Italia che sia un fattore di stabilizzazione dell’Eurozona, e che guardi con apprensione il moltiplicarsi di forza dal profilo populista e antieuropeo, dal Pdl a Grillo. Tuttavia Obama ha evitato di formulare giudizi sui singoli leader politici italiani, limitandosi a un discorso più generale sulla crisi e sul ruolo dell’Europa.
C’è tutto questo dietro il disappunto di Napolitano. E dietro una nota che suona come una irritata risposta al Pdl. Perché non si era davvero mai visto un attacco al capo dello Stato nel corso di un viaggio internazionale che mettesse in discussione la correttezza del capo dello Stato medesimo e pure quella del suo ospite, il presidente degli Stati Uniti. E non è un fatto solo di garbo istituzionale. Che è pure necessario. Trascinare nella baruffa un incontro del genere significa fare danno all’immagine del paese, minarne la credibilità. Una linea “anti-italiana” che i fedelissimi di Berlusconi decidono di portare alle estreme conseguenze. Con l’obiettivo di fare della polemica col Quirinale un asse della campagna elettorale.
E poco importa pure che la visita è avvenuta in America con un carattere molto riservato e proprio perché in Italia ci sono elezioni anticipate. Fatto che ha suggerito di cambiare il programma originario che prevedeva una visita di Obama a Roma. Basta scorrere l’elenco delle dichiarazioni per capire che da palazzo Grazioli è partito un ordine preciso per tutta la scuderia: picchiare duro sul Quirinale. Cicchitto, Bondi, Gasparri, denunciano l’ingerenza in campagna elettorale e il comportamento "deplorevole" di Napolitano. Né la nota del Colle ha l’effetto di ricondurre a ragionevolezza gli animi surriscaldati. Il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri, anzi, coglie l’occasione per rilanciare scagliandosi contro manovre “torbide interne e internazionali” e criticando la “deludente autoassoluzione di Napolitano”. Frasi che fanno apparire quasi un moderato Roberto Maroni che, interpellato in materia, prova a chiudere la polemica: “Penso che il presidente della Repubblica debba stare fuori dalla campagna elettorale”.
BERLUSCONI TEME GRILLO (HUFFINGTON)
“Grillo è una iattura, un istrione. Da lui arrivano solo messaggi distruttivi. Votando Grillo si porta una banda di estrema sinistra in Parlamento”. Quando Silvio Berlusconi prende la parola al teatro Politeama di Palermo si capisce chi è il nemico vero dell’ultima settimana di campagna elettorale. E si capisce perché alla fine il Cavaliere ha deciso di andare in Sicilia. Un evento, considerando che l’ex premier si è tenuto lontano dall’Isola da quando non è più a palazzo Chigi.
La grande paura si chiama Beppe Grillo. Per questo Berlusconi dedica a lui gli attacchi più duri: “Grillo – scandisce il Cavaliere - fa il gioco della sinistra perché toglie ai moderati dei voti che vanno via dalla coalizione”. E ancora: “ Nelle liste dei grillini al nord, oltre l’80 per cento dei candidati vengono dall’estrema sinistra. Vengono da centri sociali e no tav. Votando grillo si porta una banda di estrema sinistra in parlamento, con chissà quale difficoltà di lavorare per tutto il Parlamento”.
Parole forti. Che danno il senso della chiamata alle armi di fronte al pericolo a cinque stelle. Le ultime rilevazioni dicono che nell’Isola, così importante per determinare gli equilibri del Senato, il Movimento a 5 Stelle potrebbe fare davvero il boom. Di quelli che si sentono fino a Roma. Tra gli sherpa del Cavaliere non si esclude che Grillo possa arrivare primo in Sicilia. E comunque la sfida per ottenere il premio di maggioranza al Senato è tra l’ex comico e il Pd. Non è un caso che Grillo tornerà in Sicilia proprio giovedì prossimo, prima del gran finale a piazza San Giovanni. Insomma il partito di Berlusconi rischia di arrivare terzo. Dato questo che ha una forte ricaduta sugli equilibri nazionali. E’ il motivo per cui Angelino Alfano aveva chiesto al vecchio leone di stare un paio di giorni in Sicilia, e non solo per uno spettacolo di un paio d’ore. La terra dello storico 61 a zero si sta trasformando in un incubo. Il Pdl viene da una serie di sconfitte alle amministrative – l’ultima la vittoria di Crocetta – ed è già iniziata la grande diaspora dei big che contano: Crocetta ha svuotato il partito di Miccichè, mentre i notabili del Pdl stanno andando con Monti.
La verità, dicono nell’inner circle del Cavaliere, è che il leader di M5S le “ha azzeccate tutte dal suo punto di vista”. Ha cavalcato la protesta anti-euro, ha avuto fiuto per gli scandali a partire da Mps, si può permettere di intercettare il clima da tangentopoli e di attaccare i magistrati, insomma ha il vento in poppa. Da giorni, il passaggio su Grillo ha uno spazio sempre maggiore nei comizi dell’ex premier, nel tentativo di usarlo come uno spauracchio ma anche di normalizzarlo, di considerarlo un politico come gli altri, non come l’uomo della Provvidenza. Schema questo che nessuno più del Cavaliere sa quando tira.
Ed è proprio in funzione anti-Grillo che Berlusconi urla sempre più forte, la spara grossa, cerca di stupire, si affida a un linguaggio violento contro il “professorino Monti” che “non capisce nulla di economia” o contro Bersani che “vuole distruggere Mediaset”. Per la serie, altro che Beppe, se mi ci metto io non sapete di cosa sono capace. Spettacolo compreso. Ecco la gag su Veronica: “Sono diventato povero. Provate voi a guardare l’orologio e dire sono le 13, speriamo che mia moglie si sia già alzata, altrimenti deve spendere 100 mila euro solo nel pomeriggio...”. Nello spartito pure una battuta sulle belle donne che elette il Parlamento e che lo hanno reso finalmente “frequentabile” e sul suo “monsignore” che dice: Cavaliere, lei non ha bisogno di confessarsi. Il tutto tra la solita promessa di realizzare il Ponte sullo stretto – la prima volta lo disse nel 2001 – e un crescendo di attacchi alla perfida Merkel. Chissà.
CORRIERE.IT
«È palesemente infondato e del tutto gratuito parlare, a proposito della visita del Presidente della Repubblica a Washington, di «ingerenza» nella campagna elettorale». Il presidente della Repubblica Napolitano replica con una nota alle accuse rivoltegli da parte di Lega e Pdl, di ingerenza nella campagna elettorale. Ancora questa mattina Alessandra Mussolini, del Pdl, ha fatto sapere di disconoscere Napolitano da presidente della Repubblica, ed il segretario della Lega Roberto Maroni bollava l’atteggiamento di Napolitano come «di parte» e lo invitava a star «fuori dalla campagna elettorale».
LA NOTA - «L’incontro con il presidente Obama si è aperto con brevi dichiarazioni dinanzi a stampa e tv: il presidente degli Usa ha ribadito il suo ben - scrive il Quirinale - noto apprezzamento per i progressi compiuti dall’Italia, e al presidente Napolitano è sembrato giusto sottolineare che essi erano stati possibili grazie al sostegno parlamentare di diverse e opposte forze politiche», prosegue la nota. «Più tardi, in conferenza stampa con i giornalisti italiani, il Capo dello Stato ha rilevato come da qualche parte si sia passati dal sostegno ai provvedimenti del governo a giudizi liquidatori - si legge ancora - Rispetto alle forze in campo nella competizione elettorale in Italia, il presidente Obama si è astenuto da qualsiasi apprezzamento nei confronti di chiunque. Non solo in pubblico, ma anche nel colloquio a porte chiuse, si sono tenuti comportamenti assolutamente impeccabili».
MARONI - Chi non getta acqua sul fuoco delle polemiche è Roberto Maroni, che interpellato a margine dell’accordo sulla macroregione del nord a Sirmione, riguardo alle polemiche sulle parole dal capo dello Stato ha rincarato la dose: «Io penso che il presidente della Repubblica debba stare fuori dalla campagna elettorale. Non posso impedirgli di parlare, ci mancherebbe altro, però ogni cosa che dice in questo senso si capisce da che parte sta, con chi è schierato, e questo per un presidente della Repubblica che ha fatto bene il settennato non è un bel finire il suo mandato». «Napolitano ha attaccato chi attacca Monti e, quindi, anche Bersani immagino...», ha proseguito Maroni, «perché Bersani non ha detto sempre cose positive su Monti». «Detto questo - ha concluso il segretario federale della Lega Nord - io ho già espresso il mio giudizio sulla vicenda Mps, quando Napolitano ha chiesto il silenzio stampa sullo scandalo: un cosa invereconda».
Redazione Online
PEZXZOP DI STAMATTINA DEL CORRIERE SULLA VISITA DI NAPOLITANO
WASHINGTON — Dentro la Casa Bianca, il primo presidente di colore degli Stati Uniti ha definito «un leader dotato di visione e un grande amico personale» il primo ex dirigente di Botteghe Oscure che spinse il Partito comunista italiano fuori dai confini della tradizione e in seguito è diventato capo dello Stato. La sintonia era già stata collaudata, ma basterebbe questo a inserire il colloquio di ieri alla Casa Bianca tra Barack Obama e Giorgio Napolitano, l’ultimo faccia a faccia tra i due prima della fine del settennato del presidente italiano, in un repertorio storico. La cronaca del momento, però, matura prima della storia. Di quei 50 minuti di incontro, quasi il doppio della mezz’ora prevista, spiccherà nel circuito dell’informazione italiana un aspetto: l’analisi fornita da Napolitano a Obama in risposta alla sua curiosità sulle elezioni del 24 e 25 febbraio nel nostro Paese.
«Ho un po’ deplorato il fatto che in questa situazione si finisce, anche da parte di qualche partito che ha sostenuto per 13 mesi tutte le decisioni del governo Monti, per dare dei giudizi liquidatori su quelle stesse scelte e sui loro risultati», ha riferito Napolitano ai giornalisti ricostruendo il colloquio con Obama. L’affermazione non può essere compresa adeguatamente se non si tiene conto di un elemento: la Casa Bianca non ha nascosto di aver recuperato fiducia nell’Italia quando nel 2011, con la nascita del governo di Mario Monti, si è innestata una marcia di risanamento dei nostri conti che ha messo al riparo l’euro dal crollo. La frase di Napolitano, in ogni caso, ha attratto reazioni risentite del Popolo della libertà, il partito più riconoscibile nella descrizione a Obama. «Pesante intromissione di Napolitano nella campagna elettorale», è stata l’accusa del coordinatore del Pdl Sandro Bondi. Fabrizio Cicchitto l’ha definito atto «deplorevole». Il segretario Angelino Alfano, sul terreno arato dai due: «Ci sono stati in passato tentatavi di ingerenza e la nostra è una democrazia sovrana che non accetta ingerenze e quindi noi siamo assolutamente sereni».
Alla vigilia del colloquio con il presidente italiano al quale ha messo a disposizione la Blair House, foresteria per gli ospiti ritenuti più illustri, il presidente degli Stati Uniti aveva fatto sapere di augurarsi che a Roma il prossimo governo realizzi le riforme progettate da Mario Monti. Nel riferire ai giornalisti della «forte identità di vedute» con Obama sulla necessità di un’Unione Europea attiva e coesa, Napolitano ha descritto l’incontro così: «Ho messo in luce come (in Italia, ndr) abbiamo dovuto dare la priorità al risanamento finanziario essendo arrivati sull’orlo di una disastrosa crisi, di un vero collasso nel corso del 2011. Ho sottolineato, come era stato messo in luce anche dalla portavoce della Casa Bianca, l’importanza dei risultati ottenuti nel corso di questi 14 mesi».
Soltanto dopo, Napolitano ha raccontato: «Ho detto che il panorama italiano è in parte ancora dominato dal confronto tra i due schieramenti che da 20 anni competono. C’è poi un fenomeno di un movimento populista (di Beppe Grillo, ndr) non molto diverso da quelli che si sono avuti in altri Paesi europei, come espressione di una crisi e di un’insoddisfazione per come vanno le cose in Europa. E poi c’è la novità della scelta fatta da Monti, che io ho rispettato come scelta che a lui spettava di assumere. Ho un po’ depolorato...».
A questo punto, la frase contestata dal Pdl, seguita da una sottolineatura di Napolitano: «Lì mi sono fermato. Il presidente Obama sapeva che prima di lasciare il Quirinale (...) mi toccherà di presiedere le consultazioni per il nuovo governo. Mentre prima era un augurio di buon riposo o quasi, poi si è ricordato che c’è questo pezzo di strada abbastanza in salita che mi toccherà». Altra sottolineatura: «Obama è stato assolutamente impeccabile. Non ha nominato nulla e nessuno».
Negli Usa, Napolitano non poteva non percepire fastidio per le condanne emesse in Italia contro agenti della Cia per il sequestro dell’imam Abu Omar. «La questione è all’attenzione dei collaboratori dei due ministeri della Giustizia», ha detto, mettendo in evidenza che il governo italiano ha sollevato presso la Corte Costituzionale conflitto di attribuzione contro la Cassazione. Sottinteso non dichiarato: le condanne potrebbero non restare scolpite nella pietra.
Maurizio Caprara
MASSIMO GAGGI
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
WASHINGTON — «Visionario» e «impeccabile» sono le parole-chiave dell’ultimo incontro Obama-Napolitano da capi di Stato. Quello italiano è, nelle parole del presidente Usa, il leader dalle grandi visioni che lo ha aiutato a capire l’Europa e il nostro Paese e a trasmettere ai leader del Vecchio Continente il messaggio della Casa Bianca: una forte pressione perché vada avanti l’integrazione Ue. Giorgio Napolitano ha invece parlato di un Obama «impeccabile» nel suo interessarsi al processo elettorale italiano senza mai esprimere giudizi su schieramenti e personaggi: «Nel colloquio non ha citato mai né un partito né un esponente politico». Insomma, al di là dell’apprezzamento per le riforme del governo tecnico di Monti, il presidente Usa non dà giudizi, anche se ci tiene a dire, in un breve incontro coi giornalisti nello Studio Ovale, che lui alle elezioni italiane è molto interessato. «Ma perché», sottolinea, «voglio capire come incideranno sulla costruzione europea». Seduto in poltrona davanti al caminetto, Obama è rilassato. Quando parla dell’Italia non manca mai di cercare qualche battuta affettuosa: stavolta parla dell’«appropriato» arrivo di Napolitano nel giorno di San Valentino. Poi, però, Obama vira sui temi politici veri: gratitudine nei confronti per l’Italia per quello che ha fatto in Afghanistan e speranza che Roma divenga fattore di aggregazione e non indebolimento della Ue nella direzione di quella partnership economica transatlantica che il presidente ha lanciato nel messaggio sullo Stato dell’Unione e che considera essenziale. Agli occhi degli americani l’Italia è un partner importante della Ue, un alleato nelle operazioni internazionali e un avamposto proteso verso il turbolento Nord Africa. Ieri di Mediterraneo non si è nemmeno parlato, mentre quando ringrazia l’Italia per l’Afghanistan, Obama parla del passato: tutta l’enfasi oggi è sul ritiro. Resta, quindi l’Europa. Le elezioni italiane lo preoccupano in questa prospettiva: del "fattore Berlusconi" abbiamo già scritto, mentre ieri Napolitano ha condannato i movimenti populisti e antieuropeisti che vogliono scardinare la Ue. La Casa Bianca guarda lontano: se non vuole essere marginalizzata dalla crescita tumultuosa degli scambi attraverso il Pacifico, l’Europa deve abbracciare una «partnership» basata non solo sulla caduta di ogni barriera commerciale, ma anche su regole comuni, dagli investimenti agli ogm. E deve farlo presto: «Get there on one tank of gas», arrivare a destinazione con un solo serbatoio di benzina, è un’altra espressione da ricordare. Non è stata pronunciata ieri, ma è la linea data da Michael Froman, il negoziatore di Obama. Rende bene quello che hanno in mente gli americani.
M.CA.
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
WASHINGTON — Può sembrare paradossale, ma per l’allievo di Giorgio Amendola che in primavera finirà di essere capo dello Stato italiano l’ultima visita a Washington da presidente è anche l’occasione di una rimpatriata. Sì, di incontri con personalità che nella sua gioventù avrebbero rappresentato nemici e poi sono diventati interlocutori politici e, per certi versi, anche amici. Era Zbigniew Kazimierz Brzezinski, l’americano di origini polacche che alla fine degli anni 70 fu consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, l’invitato principale in un pranzo che Giorgio Napolitano ha offerto giovedì alla Blair House. C’erano inoltre Madeleine Albright, già segretario di Stato, e il professor Charles A. Kupchan, frequentatore di convegni dell’Aspen Institute. L’uomo di 84 anni che si occupava dei problemi più delicati per gli Usa mentre il mondo era ancora diviso in due blocchi è stato ospitato da un ex dirigente di Botteghe Oscure nella foresteria messagli a disposizione dalla Casa Bianca e si erano conosciuti in circostanze ben diverse. Nel novembre 1986, Napolitano incontrò Brzezinski a una «Atlantic conference» in Francia. Poco prima, come ha ricordato in «Dal Pci al socialismo europeo» (Laterza), il dirigente del Pci era stato negli Usa per convegni dell’Aspen Institute: «Ero l’unico comunista chiamato tra gli europei a quegli scambi di opinioni riservati sulla politica da seguire verso l’Urss». I contatti con Washington avevano richiesto fatiche. Nel 1975, a Napolitano il visto fu negato, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti. Nel 1978, presidenza Carter, gli fu rilasciato: per conferenze a Princeton, Yale e Washington che aprirono la strada a rapporti ufficiali degli Usa con il Pci. Nella Blair House, Napolitano ha ricevuto Joe Biden. Il vice di Obama gli ha raccontato: «Ero giovane di bottega quando il mio capo di allora dovette decidere sul tuo visto».
M. Ca.
GIUSEPPE SARCINA
L’indifferenza dei fondi L’economista Gros: per gli hedge fund l’ex premier non è un problema. Sul fisco qualsiasi governo dovrà seguire la linea Ue Non è semplice trovare qualcosa che metta tutti d’accordo in Europa. A meno che non si parli di un possibile ritorno al potere di Silvio Berlusconi. Stavolta non è un fatto personale: giornali e tv europei e americani riportano le preoccupazioni crescenti delle cancellerie sulla tenuta sostanziale del sistema Italia e sulla sua governabilità post elezioni. Helmar Brok, 66 anni, è un europarlamentare di lungo corso del Partito popolare europeo, di cui fa parte anche il Pdl berlusconiano. Viene dalla tedesca Cdu ed è considerato un po’ il portavoce politico del cancelliere Angela Merkel a Bruxelles. Non potrebbe essere più esplicito: «La mia opinione personale coincide con il sentimento dominante e trasversale ai partiti qui a Bruxelles. Se vuole reggere l’Italia deve continuare sulla strada intrapresa da Mario Monti. Sappiamo che non è facile fare le riforme che sono necessarie. Ma non abbiamo altra scelta, se vogliamo porre le basi di un ciclo di crescita». «L’Economist» di questa settimana si richiama, in modo più o meno consapevole, al film di Sergio Leone, sostenendo che gli italiani, davanti alla prospettiva di un crollo rovinoso, debbono scegliere tra il «buono» (Monti), il «cattivo» (Berlusconi) e «il largamente accettabile» (il «bello» evidentemente è stato giudicato eccessivo per Pier Luigi Bersani).
Stati Uniti ed Europa sembrano attraversati da due correnti: i sostenitori di Monti (per stima personale, per affinità o per necessità) e quelli di Bersani. La stampa americana di taglio liberista, a cominciare dal «Wall street Journal», ha scelto da tempo il «Professore». Ma Monti riscuote consenso o perlomeno un interesse in ambienti eterogenei, come si è visto a fine gennaio al World economic forum di Davos. Si va da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, all’economista radical Joseph Stiglitz, a Mark Carney, governatore della Banca centrale canadese.
Il «rischio Berlusconi» sta mobilitando anche il versante opposto dello schieramento politico. Sabato 9 febbraio si sono riuniti a Torino i principali leader socialisti e laburisti europei, ospiti della Fondazione di studi progressisti europei, presieduta da Massimo D’Alema. Ovazioni ogni volta che qualcuno attaccava Berlusconi. Fisiologico, d’accordo. Il punto è che al convegno si sono espressi con gli stessi toni anche primi ministri europei, cioè potenziali interlocutori del Cavaliere, come il francese Francois Hollande, il belga Elio Di Rupo («Berlusconi riporterebbe l’Italia verso il baratro»), il romeno Victor Ponta («non posso immaginarmi l’Italia di nuovo con Berlusconi, come non posso immaginarmi la Romania di nuovo con Ceausescu»). In sostanza è come se moderati e progressisti, in Europa come negli Stati Uniti, si fossero dati appuntamento sotto un immaginario cartello con la scritta «vietato l’ingresso a Berlusconi». Martin Wolf, editorialista di punta del «Financial Times» osservava, conversando qualche giorno fa con il Corriere, che date queste premesse, la coalizione tra Monti e Bersani potrebbe diventare «una soluzione europea» quasi obbligata per l’Italia.
L’ex premier non ha dunque alcuna carta da spendere? L’unico versante da cui non arriva ostilità, ma solo indifferenza (e con questo clima è già qualcosa) è, paradossalmente, proprio la finanza internazionale. Riferisce l’economista Daniel Gros, direttore del Ceps (Centre for european policy studies) di Bruxelles: «In queste settimane ho parlato della situazione italiana con diversi gestori di hedge fund (fondi di investimento su scala mondiale ndr). L’idea dominante è che Mario Monti sia il risultato di una bolla mediatica e che alla fine prenderà al massimo il 15% dei voti, diventando uno dei tanti politici italiani. E se gli elettori dovessero richiamare Berlusconi, poco male. Tanto sul piano del consolidamento fiscale qualsiasi governo italiano non avrà altra scelta se non seguire la linea imposta dall’Europa».
Giuseppe Sarcina
NAPOLITANO SULLE BUSTARELLE
PAOLA DI CARO
ROMA — Troppo feroci le polemiche, troppo alto il rischio di autogol. Così Silvio Berlusconi, dopo aver in pratica giustificato il ricorso da parte di alcune aziende di pagareal pagamento di tangenti o comunque all’ammorbidimento di ammorbidirecon costruzione di strade e ospedali dei governi di «Paesi del Terzo mondo» per ottenere commesse, ci ripensa e corregge il tiro. «Non ho mai pronunciato la parola tangenti — giura l’ex premier —. Sono un reato e va evitato. E quando accade va punito. Io ho solo fotografato la situazione internazionale delle nostre aziende all’estero, dal momento che in certi Paesi non proprio democratici gli appalti si assegnano anche con condizioni a latere». E adesso, il risultato delle inchieste su Eni e Finmeccanica è che «i concorrenti di queste due aziende si stanno fregando le mani».
Ma se il Cavaliere cerca di ridimensionare il caso (ancora tanti gli attacchi, fra i quali quello di Monti che lo bacchetta perché «uno che ha governato deve rendersi conto che l’Italia deve combattere contro la corruzione internazionale»), pare impossibile per tutti i leader evitare il grande tema di questo scorcio finale della campagna elettorale: dopo l’ondata di inchieste giudiziarie, arresti, condanne si può parlare di nuova Tangentopoli? Da Washington Giorgio Napolitano si dice «preoccupato» per quanto sta accadendo, ma aggiunge di «non saperne nulla, aspettiamo l’esito delle indagini». Comunque, dice a proposito di Finmeccanica «la magistratura deve verificare se dietro queste transazioni internazionali ci sia qualcosa sotto forma di riserva occulta o tangenti».
E’ invece convinto che la situazione sia serissima Mario Monti: «Purtroppo sì, siamo di fronte a qualcosa di molto simile a Tangentopoli. Nel 1992 si pensava che il fenomeno delle tangenti era alla fine, invece siamo qui di nuovo. Si è passati dalla partitocrazia alla partitorazzia». Tutt’altro il parere di Berlusconi: «Una nuova Tangentopoli? Assolutamente no. Ci sono dei casi isolati che sono stati creati da una certa magistratura per produrre una cortina di fumo, una nebbia sul grande scandalo MPS che vede coinvolto completamente il Pd. Uno scandalo da 3 miliardi di euro». E’ d’accordo solo su un punto Pier Luigi Bersani, e cioè che «la storia non si ripete mai negli stessi termini, non credo tecnicamente si possa definire una Tangentopoli simile a quella di quegli anni», ma Berlusconi non può chiamarsi fuori: «La destra ci lascia una catastrofe etica e morale, e quando sento che c’è chi giustifica le tangenti si capisce da dove viene il problema...».
In questo clima da tutti contro tutti, chiaro che chiunque abbia avuto ruoli di primo piano nel governo del Paese rischia di cedere passo e consensi a Beppe Grillo. Che però, a sua volta, attacca la magistratura: «La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti», denuncia il leader del M5S. E aggiunge: «Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi».
Paola Di Caro
RAMPINI SU REPUBBLICA
DAL NOSTRO INVIATO
WASHINGTON
«UN’EUROPA dove l’austerity non basta, non funziona neppure per risanare i debiti pubblici ». È la linea Obama-Napolitano, un sentire comune tra i due leader di fronte alle tre incognite del voto italiano. La prima minaccia, è un risultato elettorale da cui non emerga una maggioranza netta, in grado di esprimere un governo durevole. La seconda minaccia è rappresentata
da forze «populiste ed anti-europee », che possono riaprire un “caso Italia” dentro l’eurozona. Il terzo pericolo, per tutta l’Unione, è il persistere di un’austerity che sprofonda il continente nella recessione. L’asse Obama-Napolitano emerge dal lungo colloquio di ieri alla Casa Bianca. Trenta minuti erano previsti inizialmente, ma è durato il doppio. Il voto italiano, le sue conseguenze sull’eurozona, sono la ragione principale per cui il presidente della Repubblica è stato invitato a Washington. «Un leader visionario, un grande dirigente dell’Italia e dell’Europa», lo definisce Obama ricevendolo volutamente in un luogo della Casa Bianca che è operativo, non cerimoniale: lo Studio Ovale dove lui lavora tutti i giorni.
Un summit inusuale, tradisce l’allarme dell’Amministrazione Obama. Non s’invita abitualmente un leader straniero alla vigilia di un’elezione. Nè tantomeno gli si organizza una “immersione intensiva” per due giorni ai massimi livelli istituzionali: in
sucessione Napolitano ha incontrato la capogruppo democratica alla Camera Nancy Pelosi, il vicepresidente Joe Biden, quindi Obama, infine il neosegretario di Stato John Kerry. Altri esponenti della squadra Obama si sono aggiunti ai colloqui, incluso il capo in pectore della Cia, John Brennan. Una due-giorni di “seminario sulle elezioni italiane” con l’establishment politico di Washington: l’attenzione non avrebbe potuto essere più accentuata. Tanto che Obama ha dovuto moltiplicare le cautele per non dare l’impressione di un’interferenza. «È stato impeccabile», ribadisce più volte Napolitano, per
sottolineare che il suo interlocutore ha evitato di formulare giudizi su questo o quel leader politico italiano. Questo non impedisce al presidente americano di indicare le sue preoccupazioni sull’Italia, i rischi da scongiurare, gli errori che la Casa Bianca giudicherebbe gravidi di conseguenze. Napolitano ricorda un precedente: Obama mandò un sottosegretario di Stato a diffidare pubblicamente David Cameron dall’indire il referendum sull’uscita dell’Inghilterra dall’Unione.
Obama aveva invitato Napolitano a novembre: la lettera dalla Casa Bianca al Quirinale partì
mentre si apriva la crisi e l’Italia scivolava verso le elezioni anticipate. Obama si è reso conto che nella parte finale del suo mandato Napolitano avrà un ruolo cruciale nei passaggi verso la formazione del nuovo governo. C’è un parallelismo tra questo febbraio 2013 e i momenti più convulsi della crisi di sfiducia che dalla primavera all’autunno del 2011 portò l’Italia sull’orlo del baratro: nei due frangenti, Obama ha cercato una sponda in Napolitano. Nel novembre 2011 il presidente Usa si negava a Silvio Berlusconi al G20 di Cannes, mentre il suo interlocutore era il Quirinale. Oggi, che l’Italia “non torni indietro”,
ha un significato preciso: che non torni ad essere una mina vagante nell’eurozona, un anello debole, capace di riscatenare una crisi di fiducia dei mercati, con conseguenze anche sulla ripresa americana. È l’Italia che Obama ricorda alla deriva fino al G20 di Cannes, il passato che non deve ritornare. L’America torna a investire capitale politico verso l’Unione europea, lo ha dimostrato il discorso sullo Stato dell’Unione: la proposta di un grande patto di liberalizzazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico è un salvagente lanciato al Vecchio Continente per aiutarlo a uscire dalla recessione: è anche la risco-
perta di un’affinità forte tra le due grandi aree economiche dell’Occidente, una comunanza fondata sui diritti, per ridisegnare le regole della globalizzazione nei confronti della Cina. L’America ha bisogno di un’Italia che sia un elemento di stabilizzazione dell’eurozona, e questo non si concilia con un Parlamento in cui diventino troppo forti gli elementi “populisti e anti-europei”, definizione che ormai abbraccia il Pdl, la Lega, il Movimento 5 stelle. Lo aveva detto a New York, precedendo di 48 ore l’arrivo di Napolitano, l’ambasciatore Thorne: commentando la previsione di una maggioranza di centro-
sinistra, l’ambasciatore ha auspicato che sia netta, in grado di esprimere un governo stabile e forte. Su Monti, la portavoce della Casa Bianca ha poi ribadito l’apprezzamento per il lavoro svolto nei 13 mesi di governo, che ha ridotto lo spread e riportato l’Italia nell’alveo europeo. Sui contenuti della futura strategia di governo la preferenza va alla sinistra- centro: meno austerity e più crescita dell’occupazione, è l’altro segnale del summit Obama-Napolitano. «Mario Draghi è stato bravo — ha detto Obama — ma non bastano le banche centrali». Il messaggio è chiaro: tocca alle politiche di bilancio uscire dalla morsa del rigore e diventare motori di crescita. Lo ha decifrato Napolitano rievocando quel passaggio del discorso sullo Stato dell’Unione pronunciato da Obama martedì: «Ogni sera prima di andare a letto dobbiamo chiederci: cos’abbiamo fatto noi oggi per creare nuovi posti di lavoro, e perchè siano lavori remunerati dignitosamente?».
UMBERTO ROSSO - REPUBBLICA DI STAMANE
DAL NOSTRO INVIATO
WASHINGTON
— Nello Studio Ovale, con il dossier Italia sotto braccio, Giorgio Napolitano rassicura Obama sui risultati ottenuti dal governo Monti con la linea del risanamento: «Nel 2011 eravamo arrivati sull’orlo di una disastrosa crisi, di un vero collasso finanziario». Ora «ci vorrà anche la crescita». Ma la fotografia consegnata dal presidente della Repubblica nel lungo colloquio è un chiaroscuro pieno di
preoccupazioni. A cominciare dal clima della campagna elettorale, visto che «qualche partito» prima ha sostenuto il governo per 13 mesi e «adesso assume atteggiamenti in toto liquidatori, che io deploro». Facile riconoscere il partito di Berlusconi nelle critiche del capo dello Stato.
C’è la «novità» Monti, dice ancora al presidente Usa, «scelta che atteneva solo a lui e che rispetto». Ma con il numero uno della Casa Bianca il presidente Napolitano ha discusso anche di una seconda novità: l’incognita populismo, e qui spunta Grillo. Un «movimento populista» non molto diverso da altri in Europa, che «è fuori dal background europeo », espressione «della crisi e della insoddisfazione per come vanno le cose, da noi come in altri paesi». E infine, ma questo è un capitolo
che non è finito ufficialmente sul tavolo, il terremoto della scandalo Finmeccanica. «Se vi dicessi che non sono preoccupato — dice ai giornalisti dopo il faccia a faccia con Barak — certamente non mi credereste ». «Il centro dell’azione della magistratura non è tanto esplorare i costumi prevalenti nelle transazioni internazionali. Perché sarebbe come minimizzare: in questo campo agiscono dei consulenti nelle mediazioni, soprattutto nel settore della difesa, che certo non operano gratis». Il punto, denuncia Napolitano,
è chiarire se per vincere le gare ci siano «transazioni che rifluiscono poi in Italia, sotto forma di riserve occulte o altro, per le tangenti». Al governo intanto «spetta il compito di assumere eventuali iniziative nei confronti degli amministratori».
Però non è l’immagine di un paese in ginocchio quella che l’inquilino del Colle fornisce nei cinquanta minuti di colloquio a tutto campo (e che si protrae più del previsto). Napolitano — che ha incontrato anche l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, l’ex
Segretario di Stato Madeleine Albright e l’attuale numero uno della diplomazia Usa, John Kerry — prevede già che dopo il voto gli toccherà fare gli straordinari. «So che mi aspetta una dura strada in salita, quando dovrò affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo. Se ne è reso conto anche Obama. Il nostro doveva essere un semplice incontro di saluto, di commiato, e invece mi ha augurato ancora buon lavoro». Per Obama, rilassato, sorridente ma attentissimo al ritratto-Italia, la conferma di un’opzione già
maturata nell’amministrazione americana. A Roma non si può tornare indietro, le migliori garanzie di stabilità le può offrire solo l’area del centrosinistra. Ma è arrivato un endorsement per Monti? Oppure va bene anche Bersani? A domanda, esplicita, Napolitano risponde: «Obama è stato impeccabile, rispettoso e pacato. Non ha appoggiato nulla e nessuno. Ci siamo ritrovati perfettamente sull’idea che l’Italia deve andare avanti». Preoccupazioni per l’incertezza della sfida elettorale? «Sono preoccupato dal fatto che non sappiamo chi vincerà. Ma — sorride il capo dello Stato — fin quando non ci saranno elezioni vinte a tavolino, tutte le elezioni sono incerte. Sono state apertissime in America, così come in Germania o Olanda».
Feeling che nemmeno il braccio di ferro sul sequestro Abu Omar sembra guastare. «Se ne stanno occupando i rispettivi ministeri degli esteri. Lo avrei annoiato illustrando la complessa vicenda tecnica. C’è un ricorso che può cambiare la situazione rispetto alle persone coinvolte. Vedremo».
RAMPINO SULLA STAMPA
«Barack Obama è stato impeccabile». Lo ripete due volte Giorgio Napolitano appena uscito dallo Studio Ovale, niente di indelicato da parte del Presidente degli Stati Uniti, al quale pure ha spiegato la volubile geometria e gli invisibili equilibri della politica in Italia. Visto anche che dovrà «presiedere alle consultazioni per la formazione del prossimo governo, me l’ha ricordato proprio Obama, ho davanti a me una strada tutta in salita...». È preoccupato, sì, Obama per il risultato delle elezioni in Italia, «ma come sempre, con tutte le elezioni», è la democrazia...
Se - confermano testimoni degli incontri avuti anche con Joe Biden, Nancy Pelosi, John Kerry - stupisce la ricomparsa di Berlusconi, se di Vendola preoccupa non la colorazione ma il programma, è il grillismo l’hic sunt leones degli americani. Napolitano l’ha paragonato al partito dei Pirati, presente in Germania e pure in Europa, ognuno ha il suo populismo, «ce ne sono in molti Paesi...».
Questo con Obama è il terzo incontro durato 50 minuti, ovvero quasi il doppio di quanto c’era in agenda, e con un finale one-to-one, oltre a svariati altri contatti telefonici sin da quei giorni bui del novembre 2011 quando a Roma non c’era una semplice crisi di governo ma un Paese «al collasso» - come ha ricordato Napolitano suscitando le manichee reazioni del Pdl. Ma questa volta alla Casa Bianca è l’ultima del settennato, e anche per questo l’occasione si colora, si scalda. Barack Obama si lascia andare in poltrona sorridente, rilassato. Segue attentamente le parole di Napolitano, fa cenni di approvazione con la testa, definisce il Presidente italiano «un leader straordinario, visionario». Si comprendono pragmaticamente le ragioni di tanta sintonia, stanti gli interessi americani nell’alleanza con il Vecchio Continente, la reciproca necessità di implementare crescita e occupazione anche attraverso la partnership transatlantica per il commercio e gli investimenti appena lanciata da Obama, e il ruolo di perno dell’Italia nella soluzione della crisi dell’eurozona e nello spingere le politiche economiche europee oltre il rigore, verso la «job creation».
Ma c’è qualcosa in più, e lo si legge nel rapporto tra i due. «Napolitano è un grande amico personale» dice Obama spiegando che «Malia e Sasha, appena sono stato rieletto, mi hanno subito chiesto: papà, che bello, ma allora torniamo in Italia?». Quando un capo carismatico parla dei propri figli, insegnano gli studiosi di leadership, è qualcosa di se stesso che sta mettendo in gioco. E Obama sembra avere quasi una fascinazione per un leader europeo coltivato alla politica nel Novecento delle guerre e dei fumi delle ideologie, capace di narrargli la politica europea - e quella italiana che è tra le più astruse - come nessun altro. Lo dice: «È bene che questa visita sia iniziata il giorno di San Valentino, così posso esprimere l’affetto che ho per lei e per l’Italia».
Racconterà poi Napolitano che Obama doveva venire a Roma, ma le elezioni anticipate innescate dalle dimissioni di Monti hanno «reso impossibile una visita in campagna elettorale». E ci si è dunque acconciati a una venuta di Napolitano a Washington, per una «visita di commiato, molto personale». Nella quale tuttavia, a pochi giorni dalle elezioni, si è affrontato il ruolo cruciale dell’Italia «che ha fatto in questi 14 mesi grandi progressi, che possono e devono continuare», ha detto Napolitano usando parole perfettamente speculari a quelle della portavoce della Casa Bianca che il giorno prima aveva ribadito la necessità di proseguire sulla via delle riforme già intraprese dal governo Monti. E stigmatizzando però Napolitano, su sollecitazione di un giornalista, che nella politica italiana vi sia oggi chi sconfessi quel risultato ottenuto per il bene del Paese, «è deplorevole che chi ha sostenuto Monti ora lo liquidi». L’eco di queste parole, a Roma, provoca baruffe da campagna elettorale. Ma quel che conta è che si sono rinsaldati i rapporti con gli Stati Uniti, mai stati così stretti. Alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato si studia il discorso sull’Europa e i rapporti transatlantici che Napolitano ha pronunciato all’Ispi pochi giorni fa, e che è il lascito in politica estera del suo settennato.
ANT.RAMP SU STAMPA
Ma lo sa che io ero, giovanissimo, tra quelli che nel 1978 le negarono il visto per gli Stati Uniti? Pare abbia divertito Giorgio Napolitano, sentire la «confessione» di Joe Biden con il quale ha stretto da tempo un rapporto di grande sintonia. Il cattolico vicepresidente degli Stati Uniti ha potuto «interrogare» quello che è uno dei testimoni di un evento senza precedenti, e che ha colpito moltissimo i leader americani: le dimissioni di Benedetto XVI. È straordinaria l’attenzione negli Stati Uniti attorno a quel che sta accadendo nella Santa Sede.
Nella visita di Giorgio Napolitano un altro momento di franco scambio di punti vista è stata una lunga serata di discussioni politiche e geopolitiche, a cena nella Blair House, la residenza di gusto ottocentesco very british nella quale i presidenti americani ospitano i capi di Stato. A cena con l’ex segretario di Stato Madeleine Albright, Zbigniew Brzezinski, e il geo-politologo della Georgetown University Charles Kupchan, autore di quelli che per Napolitano sono ormai livre de chevet. Brzezinski, soprattutto, nonostante l’età pare fosse in grandissima forma e disponibile ad approfondite analisi, dalla Siria alla Russia, situazione interna agli Stati Uniti compresa. Lo stratega della «grande scacchiera» pare consideri l’autocrazia putiana sul viale del tramonto, perché a Mosca sta per fortuna emergendo una nuova classe media e borghese. Gli interlocutori della serata non si sono fatti sfuggire l’occasione per «interrogare» Napolitano sull’Europa e sull’Italia. In particolare, hanno cercato di approfondire il discorso su una meteora insondabile al di là dell’Atlantico, il Movimento Cinque Stelle, e hanno posto una domanda inevitabile, che suona più o meno così: com’è possibile, e davvero vi sono ancora italiani disposti a seguire Berlusconi?
PREOCCUPAZIONE USA (MOLINARI SULLA STAMPA)
L’ interesse per un patto sulla crescita con l’Europa, il timore di instabilità durante la transizione post-voto, la presenza nello Studio Ovale di John Brennan, l’arrivo di John Kerry a Roma a fine febbraio e la possibile tappa italiana di Barack Obama in giugno descrivono una Casa Bianca convinta che il nostro Paese conta molto per le politiche dell’amministrazione.
L’ospitalità nella Blair House, la forte simpatia personale di Barack e un’agenda di incontri che ha incluso gli altri due maggiori attori della politica estera - Joe Biden e John Kerry - sono la cornice che la Casa Bianca ha voluto per trasformare la visita di Giorgio Napolitano in un momento di riflessione su argomenti di rilievo nell’agenda del secondo mandato di Obama. Anzitutto c’è la volontà di sfruttare il negoziato Usa-Ue sulla «Transatlantic Trade and Investment Partnership» (Tafta) per arrivare ad un patto euroatlantico sulla crescita, spingendo anche la Germania su tale strada. Per riuscirci Obama ha bisogno di una forte convergenza con i leader dell’Unione europea e Napolitano è considerato, per le posizioni che esprime, un interlocutore prezioso a tale riguardo. La maggiore minaccia che incombe sulla “Tafta” è però un aggravamento della crisi dell’Eurozona dovuto all’indebolimento dei Paesi più a rischio: Spagna e Italia. Da qui l’interesse, espresso da Obama a Napolitano, per la transizione dal governo Monti al suo successore. Il timore, si apprende da fonti vicine alla Casa Bianca, è che un’eventuale impasse dopo il voto italiano possa innescare fibrillazioni sui mercati tali da far ripartire la speculazione. Rispetto a tale scenario Washington considera la Bce di Mario Draghi un argine prezioso ma se la transizione italiana dovesse prolungarsi troppo potrebbe non bastare. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per cosa avverrà dopo il voto, testimoniata dall’arrivo il 27 febbraio a Roma di John Kerry complice la riunione multilaterale sulla Siria. Medio Oriente e primavere arabe sono l’altro dossier su quale Washington guarda a Roma nell’ambito della strategia di spingere i Paesi europei ad assumersi maggiori responsabilità lungo la sponda sud del Mediterraneo. Quando il nuovo Segretario di Stato dice di avere «idee nuove» su come affrontare la guerra civile in Siria, intende anche un maggior impegno europeo e David Thorne, ambasciatore a Roma nonché fra i suoi stretti consiglieri, lo ha convinto a sfruttare la riunione romana per imprimere tale accelerazione.
Insomma, Obama vede nell’Italia un partner cruciale per il successo della «Tafta» come nel superamento della crisi in Siria ma teme che la transizione la immobilizzi, trasformandola in elemento di rischio per la ritrovata stabilità dell’Eurozona. È la somma di questi temi a spiegare il perché dell’ipotesi di una tappa italiana nel viaggio che Obama farà in Europa a giugno per il summit del G8 in Gran Bretagna.
Ma non è tutto perché la presenza nello Studio Ovale di Brennan, nominato alla guida della Cia, sottolinea l’urgenza con cui Obama vuole risolvere il caso Abu Omar per via dei malumori nell’«intelligence comunity» innescati dalle sentenze di condanna contro 23 agenti della Cia implicati nel sequestro dell’imam egiziano nel 2003.
L’amministrazione Obama non difende le «rendition» di Bush ma, si apprende da fonti diplomatiche, ritiene che la condanna dei 23 americani sia una violazione degli accordi «Sofa» sull’immunità di militari e diplomatici nei Paesi Nato. Dunque, vedrebbe con favore una soluzione rapida, magari attraverso la grazia del Quirinale ai condannati. Al fine di non lasciare tale contenzioso in eredità al nuovo governo italiano.