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 2013  febbraio 15 Venerdì calendario

PAKISTAN S’AVANZA UN NUOVO KHOMEINI ADORATO DALLE FOLLE


ISLAMABAD. È il 14 gennaio 2013. Piazza Tahrir sembra materializzarsi a Islamabad. Le bandiere verdi e bianche del Pakistan sventolano d’orgoglio sopra le teste di migliaia di persone accampate di fronte al Parlamento. Uomini, donne, bambini. Da tutto il Paese. C’è ebbrezza da rivoluzione. Anche se qui non c’e da buttar giù un dittatore. «C’è da rimettere in sesto una democrazia»: così tuona sul palco, da dietro un vetro anti-proiettili, l’uomo dalla barba candida e il fez in testa. Un mese prima era un semi-sconosciuto religioso islamico, ora è un capopopolo che è riuscito a portare in piazza una folla che da queste parti s’era vista forse solo ai funerali dell’ex premier assassinata Benazir Bhutto. E con l’indice puntato contro il palazzo presidenziale in lontananza, si permette di urlare nel suo inglese disinvolto che «i politici sono tutti dacoits, banditi, il governo ha fallito, il sistema collassato».
Oggi il suo popolo tornerà in piazza per una nuova manifestazione, che ha battezzato Revolution March, e al grido «vogliamo la vera democrazia» e «dateci liste pulite» attraverserà sei città. L’ultima volta il sit-in si è sciolto tre giorni dopo, quando il governo ha in parte ceduto alle richieste della folla. Una fra tutte: la consultazione del loro leader nella formazione del governo tecnico che traghetterà il Paese al voto di primavera. Ma chi è questo vate dell’anti-politica pachistana che ha indetto la Marcia di un milione? E, soprattutto, chi c’è dietro di lui? Sono le domande che stanno ronzando da settimane nella nebulosa politica pachistana. Senza trovare risposte certe.
Di assodato c’è che si chiama Muhammad Tahir-ul Qadri e ha trascorso gli ultimi sette anni in Canada. È un religioso sufi, esperto di diritto, ex deputato. Ha un partito dal 1989, il Pakistan Awami Tehreek, che però non ha neanche un membro in Parlamento. Ha un’organizzazione religiosa, la Tehrik Minhaj-ul Quran, che dal 1981 gestisce una rete di madrasse e predica una visione dell’Islam intrisa di valori moderati. La tolleranza, ad esempio. Un mantra suo e della setta Barelvi di cui è seguace, opposta alla Deobandi, genitrice dei Taliban. Tanto che la sua Fatwa contro il terrorismo era – fino a ieri – il solo elemento del suo curriculum che gli aveva regalato una certa fama, anche in Occidente. Oggi, è un’altra storia: è una celebrità. E un enigma.
Quantomeno sospetto, anzitutto, è il timing del suo ritorno in Pakistan. Dicembre. Cioè la vigilia di un anno campale per il Paese. Che va incontro a una serie di consecutivi cambi di leadership: elezioni parlamentari tra aprile e maggio e fine dell’era Asif Zardari a settembre, con conseguente nomina del nuovo presidente. Tra novembre e dicembre suonerà la campanella della pensione prima per il generale Ashfaq Parvez Kayani, a capo delle potenti forze armate, e poi per l’eccentrico Iftikhar Chaudhry, che presiede la Corte Suprema. Con tutte queste nubi all’orizzonte, c’è chi respira aria di golpe. O, perlomeno, vede la mano (e i soldi) dell’esercito dietro l’irruzione nell’arena pubblica del signor Qadri, apparso come un Khomeini tornato dall’Occidente per ripulire l’ancien regime.
Il 15 gennaio, il presunto complotto è parso prendere forma, quando le tv hanno interrotto la diretta dalla Marcia di Qadri per una breaking news: la Corte Suprema emetteva un ordine d’arresto per corruzione per il primo ministro Raja Pervez Ashraf. All’apparenza una coreografia impeccabile: l’ennesima conferma della giustizia sul lerciume al governo; la piazza in tripudio. In realtà, il premier non è stato arrestato perché l’ordine aspetta l’ok dell’autorità anticorruzione. E l’esecutivo può comunque sopravvivere senza premier sino alla fine del suo termine, a marzo.
Soprattutto, l’esistenza di un disegno golpista con Qadri come ariete non ha prove. Ma il Pakistan ha vissuto tre colpi di Stato e neanche una transizione di potere tra due governi democraticamente eletti. I sospetti quindi abbondano. Quello più in auge tra gli osservatori sostiene che l’obiettivo sia un «putsch dolce» modello Bangladesh: un riferimento al governo tecnocratico creato a Dacca nel 2007, con l’aiuto di militari e giudici, per limitare i danni di una politica dominata da due partiti giudicati inetti. In Pakistan, i partiti in questione sono il Pakistan People Party, al governo con misere performance, del presidente Zardari, vedovo della Bhutto, e il Pakistan Muslim League-Nawaz all’opposizione, di centro-destra, guidato dall’ex premier Nawaz Sharif, deposto dal generale Musharraf nel ’99.
Tra i due partiti e l’esercito non corre buon sangue. E di fronte a un Paese con un’economia in coma, i black-out elettrici quotidiani, la corruzione politica spaventosamente endemica, i vertici militari potrebbero essere stufi dell’esperimento democratico in corso. E Qadri, nota Arif Rafiq del Midle East Institute, sembra il loro front-man perfetto: indignato come il ceto medio dalla tracotanza dei politici, propone di candeggiarla con misure anti-mazzette e «liste pulite» dei candidati. Per di più, si presenta come un musulmano «moderato», fattore che conta per un esercito angustiato dalla difficile relazione con l’alleato americano. Tanto che si adombra anche l’ipotesi che un accordo Qadri-esercito possa avere il tacito appoggio di Washington, come contropartita all’indispensabile aiuto dei pachistani in Afghanistan ora che si avvicina il delicato momento dell’exit strategy.
Il trascinatore di folle sufi, che nel ’99 sostenne il golpe di Musharraf, nega ogni comunione d’intenti coi militari. Eppure ci si chiede da quale cilindro abbia pescato i denari per finanziare la bulimica campagna mediatica che ha preceduto la manifestazione, e le migliaia di pullman affittati per i dimostranti. E lo stesso Qadri ha più volte descritto l’esercito e l’autorità giudiziaria come le uniche istituzioni affidabili del Paese. Tanto che ne chiedeva l’inclusione nel processo di formazione del governo tecnico pre-elettorale. La richiesta è stata respinta dall’esecutivo. Che però, per sedare la Tahrir pachistana, ha promesso a Qadri voce in capitolo nella designazione di quel governo che, secondo Costituzione, spetta di concerto solo a maggioranza e opposizione. Il modello Bangladesh pachistano sarebbe a portata di mano. Basterebbe, dicono i cinici, convincere l’opinione pubblica dell’impossibilità di andare al voto per trasformare quel governo tecnico, pro-militare, da transitorio a stabile. E Qadri ha già dimostrato di sapere mobilitare le masse per creare lo scompiglio necessario.
Ma l’esercito sta davvero macchinando tutto ciò? «Ora ha altre grane cui pensare», commenta da Lahore il politologo Mohammad Waseem. Si riferisce alla guerra contro gli estremisti nelle Fata, le aree tribali al confine afgano, al riattizzarsi delle tensioni sulla frontiera indiana, al malcontento popolare per l’incapacità di fermare gli attentati che insanguinano il Paese. In più, la fronda pro-democratica nella società civile, nei media, nei tribunali non è mai stata così vibrante. E lo stesso generale Kayani ha più volte espresso il suo sostegno a favore della democrazia. «La classe media» riflette Waseem «è pero anche stufa dei due partiti-padroni: vuole una terza forza, vuole pulizia». Cioè quello che potrebbero garantire Qadri e i militari, che hanno governato per 30 dei 65 anni di vita del Pakistan.
Valeria Fraschetti