Piero Melati, il Venerdì 15/2/2013, 15 febbraio 2013
SEX & ‘NDRANGHETA COSCHE CHE ODIANO LE (LORO) DONNE– La matriarca soffia sussurri incomprensibili, come lavorasse il vetro
SEX & ‘NDRANGHETA COSCHE CHE ODIANO LE (LORO) DONNE– La matriarca soffia sussurri incomprensibili, come lavorasse il vetro. Pronuncia fonemi indecifrabili quanto la lingua del demonio. La sala colloqui del carcere di Reggio Calabria è imbottita di microspie. Ma sono inutili, come il radar per un aereo che voli sottotraccia. Per fortuna ci sono anche le telecamere. Un fazzoletto nero sulla testa copre, come un burqa, il viso spaccato dal sole. L’indice della mano destra d’improvviso si solleva e si appoggia alla gola. La percorre parte a parte, come una lama, a simulare uno squarciamento. Senza dirlo, sta dicendo al nipote Francesco che la sorella Giusy deve morire. La matriarca è sua nonna. Nonna Giuseppa. Ha cresciuto la bambina, l’ha tenuta in braccio, svezzata, consolata nelle notti insonni. Eppure adesso, quando emette la sentenza, non tradisce sentimenti. La figlia di sua figlia deve morire. Perché ha un amante. L’amore al tempo della ’ndrangheta. Il sesso nella terra delle cosche. Una sola declinazione prevista: i boss uccidono le donne. Ne fanno strage come nella messicana Ciudad Juárez, dove dal ’93 sono state assassinate 430 operaie e 600 sono scomparse. I motivi? Misteriosi. I neurobiologi parlano di «terreni fertili» per ogni tipo di degenerazioni, quando un habitat diventa infetto. Deve trattarsi della stessa cosa, traslando dal biologico al sociale. Solo che in Calabria, come in Messico, la pestilenza che provoca contagio si chiama illegalità, arretratezza, narcoricchezza. Quali siano i motivi, un pezzo di Medioevo si è piantato fra San Luca, Platì Locri, Gioiosa Ionica, Rosarno. Ne conosciamo attività e rituali, faide sanguinarie e santuari finanziari, potenza e scalate al Nord. Ma non sapevamo, non ancora, che il codice mafioso prevede anche la strage delle donne. Non è un effetto collaterale. È il cuore del problema di un’Italia cattiva, orrenda, talebana. La racconta l’inviato dell’Espresso Lirio Abbate. Lui siciliano, ogni anno scende (o sale?) in Calabria per dirigere Trame, il festival dell’editoria antimafia. Perché tanta attenzione? Lo stesso Lirio lo rivela all’inizio del suo viaggio edito da Rizzoli, Femmine ribelli: l’omicidio di un congiunto, avvenuto proprio in terra di Calabria, rimasto misterioso e impunito. Potente, dunque, la motivazione del giornalista, che intraprende la sua inchiesta per dimostrare alla piccola Anna, figlia del cugino ucciso Enzo, l’esistenza di un’altra realtà possibile: diventare orgogliosa di essere una fimmina calabrese, in una terra in cui sempre più fimmine si ribelleranno al potere arcano delle mafie. L’importanza dei piccoli gesti. A volte sono bombe. Era in apparenza piccolo il gesto di due donne calabresi, Maria Concetta Cacciola e Simona Napoli, di navigare su internet e iscriversi a Facebook. E qui trovare, loro sempre segregate in casa, nell’incontro con due compagni, la possibilità di una alternativa al padre boss, al marito padrone, alla famiglia cosca. Una volta scoperte dai parenti, la sentenza è stata una sola: morte. Rompere, anche con comportamenti privati, l’anello di ferro che lega i clan del Santuario di Polsi (dove ogni anno si riuniscono i boss, al cospetto della Madonna della montagna, per rinnovare il patto di sangue) equivale sempre a una ribellione intollerabile. Non a caso, sarà sulla scia di storie d’amore proibite che molte donne tradiranno l’organizzazione, scegliendo di collaborare anche per garantirsi una tutela. Non c’è scampo. La regola è essere come nonna Giuseppa, la matriarca novantenne. Quando la nipote Giusy si pentirà, sarà lei a scoprire le microspie nascoste in giardino e le telecamere puntate sul viale piazzate dagli investigatori. Ufficialmente vende frutta e verdura a Rosarno, nonna Giuseppa. Gira in paese infagottata in abiti dimessi, con il foulard nero legato stretto al mento, a coprirle testa e viso. In realtà detiene le chiavi del forziere di famiglia. La regola è lei. Una donna d’acciaio al servizio dei supremi interessi. Se sei donna di ’ndrangheta, hai due alternative: o stai segregata in casa oppure devi essere feroce. Più dei tuoi uomini. Come nel caso di Velenia, al secolo Ilenia Bellocco, la sposa di Giuseppe Pesce, fratello del boss di Rosarno Ciccio u’ Testuni. Lo zio di Velenia, da anni, ha messo le mani su Bologna. Ed era contrario al matrimonio, per la vecchia faida con i Pesce. Ma Velenia guarda più lontano: pensa che le nozze tra Bellocco e Pesce daranno vita a un’alleanza tra dinastie, come nelle orde barbariche. Offre ai nuovi parenti una fetta degli appalti dell’autostrada Salerno-Reggio. E così, quando, il 30 maggio del 2009, Rosarno è scossa da un matrimonio da mille invitati, lei tra turpiloqui e bestemmie (ascoltati da inquirenti sconvolti) offre agli ospiti bomboniere con il simbolo di Velenia: un cobra di Lalique con occhi in pietre preziose. Ma un’eccezione c’è. Non viene punita la donna, bensì i suoi amanti. A nord di Reggio, tra Catanzaro e Vibo Valentia, la terra ha il colore dell’inferno. Qui quaranta persone sono sparite nel nulla. E qui vive Angela, la Mantide della ’ndrangheta. Il marito è un capobastone. Lei lo tradisce non appena va in carcere. Nel 2002 circuisce Santino Panzarella. Il ragazzo sparirà nel nulla. Verrà trovata una sua lettera d’amore alla Mantide. La madre, Angela Donato, da anni chiede giustizia. Nel 2006 tocca a Valentino Galati, 19 anni. Anche lui scompare, inghiottito da una foiba del sesso che non si sa quanti uomini abbia bruciato. Come chiamereste, se non jus primae noctis, il diritto esercitato dai Califfo di Rosarno, il boss Francesco Pesce, detto Ciccio ’u Testuni? Latitante, chiuso in un bunker in cemento armato, con botola telecomandata e boudoir con ogni comfort, sotto le viscere di un paese che conterebbe duemila complici su 15 mila abitanti, il Califfo pretendeva, come un signorotto feudale, che i sudditi gli spedissero a decine le figlie più belle. Paura del drago? Macché. Il padre di Valentina R., per esempio, ha confermato di aver spinto sua figlia a correre da lui «prima delle altre». Il guaio del Califfo si chiama Giusy Pesce, la nipote che nonna Giuseppa vuole eliminare. Dal 2010 collabora con i magistrati Michele Prestipino e Alessandra Cerreti. Del clan ha raccontato tutto: le dieci amanti del Califfo, i suoi amici (tra cui Rosa Stagnitti, partecipante del Grande Fratello 5, indagata per favoreggiamento), le sue disavventure con la moglie Maria Stella (prima la rapisce a mano armata, poi le punta una pistola, la chiude dentro un’auto e le getta dentro un serpente, per farle confessare un presunto tradimento). È lei a spiegare ai pm: «Nella mia famiglia si punisce chi ha una storia clandestina. Esiste un codice: chi tradisce o disonora la famiglia deve essere punito con la vita. È una legge. È successo tante volte in passato». Come ad Annunziata, trent’anni fa, bendata e uccisa dal fratello Tonino e dal cugino Antonino, il padre del Califfo. Come a Maria Teresa, trucidata a Genova nel ’94 insieme alla madre Nicotina e alla cugina Marilena (poco dopo venne eliminato anche l’amante). Come a Maria Concetta, cugina di Giusy Pesce, madre di tre figli, costretta ad abbandonarli per fuggire da Rosarno dopo essere stata massacrata di botte: si erano procurati i tabulati delle sue telefonate con l’amante. Maria Concetta muore in agosto, dopo aver ingerito (a forza?) acido muriatico. Il gip scriverà: «Cercava quella libertà che da anni le veniva rubata, mediante l’inflizione di penose umiliazioni, compiute da chi avrebbe dovuto amarla di più». Una catena che non finisce mai. Simona Napoli, 25 anni, un bimbo di quattro, un padre che l’ammazzava di botte e che le ripeteva sempre: «Meglio una figlia morta che una disonorata». Da marzo 2012 vive sotto protezione, per sottrarla alla fatwa emessa dalla sua famiglia. Il suo amante, 38 anni, è già stato assassinato. Scomparso nel nulla. «Molte volte ho cercato di farlo ragionare» ha scritto lei, «sapevo che per una cosa del genere mio padre avrebbe ucciso anche me». Si dice che in Calabria, nascosto tra gli scogli di una costa, esista uno specchio. Se lo si guarda di notte, sembra riflettere un corteo di donne penitenti: accusano noi vivi di non averle mai difese, fortuna che è solo una leggenda. Piero Melati