Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 15/02/2013, 15 febbraio 2013
CATTOLICI NEGLI ANNI TRENTA TRA FASCISMO E ANTIFASCISMO
Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira vengono spesso considerate guide ideologiche da molti cattolici di sinistra. Eppure ambedue manifestarono propensioni cattolico-integraliste e antilaiche nel secondo dopoguerra, come in precedenza avevano espresso adesione se non ammirazione per la cultura nazionalfascista. Come dunque possono essere diventate personalità di riferimento per i cattolici che si considerano «di sinistra»?
Nicola Zoller
Rovereto (Tn)
Caro Zoller, La Pira e Dossetti non appartengono alla stessa generazione e fecero esperienze alquanto diverse. Il primo nacque nel 1904 e aveva quindi diciotto anni all’avvento del fascismo. Insegnò diritto romano a Firenze e non tardò a manifestare il suo crescente dissenso per il regime fascista. Il secondo nacque nel 1913, si laureò a Bologna e si perfezionò all’Università Cattolica di Milano dove ascoltò, tra l’altro, le lezioni di Amintore Fanfani sull’economia corporativa. Sembra che si sia iscritto al Partito nazionale fascista. Ma la scelta le sembrerà meno incomprensibile se cercherà di mettersi nei panni di un giovane intellettuale cattolico verso la metà degli anni Trenta.
Il Partito popolare era stato soppresso dal regime, ma Dossetti non poteva ignorare che alcuni ambienti ecclesiastici ne avevano favorito la scomparsa e che la partenza di Don Sturzo dall’Italia era stata decisa al di là del Tevere. La Chiesa difendeva l’Azione cattolica contro le angherie del regime, ma riconosceva a Mussolini il merito di avere «salvato l’Italia dal bolscevismo» e di avere firmato un Concordato che offriva alle istituzioni cattoliche molte garanzie. L’Università cattolica, fondata da padre Agostino Gemelli all’inizio degli anni Venti, non era fascista, ma neppure antifascista, e molti cattolici apprezzarono sia la guerra d’Africa sia quella di Spagna. Dopo la crisi americana del 1929, d’altro canto, i giovani intellettuali cattolici erano impegnati nel tentativo di aggiornare con un programma moderno l’enciclica di Leone XIII (De Rerum Novarum) sulla dottrina sociale della Chiesa. Il modello corporativo elaborato e proposto dal fascismo appariva a molti una praticabile terza via tra capitalismo e comunismo, un ritorno alle società organiche del Medioevo, dove il profitto non escludeva la solidarietà. Anche Alcide De Gasperi, che aveva cominciato la sua carriera politica nel partito austriaco dei cristiano-sociali, era attratto dal corporativismo. In una rubrica dell’Illustrazione Vaticana, dove commentava con uno pseudonimo (Spectator) gli avvenimenti internazionali, registrava attentamente l’interesse sollevato dalla diffusione in Europa del modello a cui Mussolini legava allora le sorti del regime. Ma accanto al corporativismo moderato di De Gasperi vi era anche quello piu radicale di chi sognava la corporazione proprietaria, vale a dire una decisiva svolta anticapitalista. Sono questi i corporativisti cattolici che crederanno, dopo la guerra, nella collaborazione con il partito comunista.
Per spiegare l’apparente contraddizione fra gli orientamenti di questi intellettuali negli anni Trenta e il loro successivo antifascismo, aggiungo, caro Zoller, che vi fu una fase durante la quale il fascismo sembrò a molti un grande contenitore nazionale, capace di ospitare varie tendenze e scuole di pensiero. Quella speranza tramontò fra il 1938 e il 1939.
Sergio Romano