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 2013  febbraio 15 Venerdì calendario

RESURREZIONE DI UN DEMONE. ULTIMO MIRACOLO DI SIMENON

Come si fa, per uno scrittore di centinaia di romanzi, a stabilire preferenze? Uno che scrive decine e decine, centinaia di romanzi si affida al giudizio dei lettori con tutta la sua opera (all’interno della quale potranno esserci «parti» migliori o peggiori: questo è ovvio). Il lettore, certo, ricorderà qualche trama in particolare, qualche specifica atmosfera, un luogo che proprio non si può confondere, un episodio che proprio non si può dimenticare, ma, alla fin fine, di quello scrittore così prolifico, e quasi sempre «costante», conserverà una memoria generale, e, sostanzialmente, la scrittura.
È il caso di Georges Simenon, uno dei massimi scrittori in lingua francese del secolo scorso. Chi può dire, per esempio, se La vedova Couderc è migliore delle Finestre di fronte, o se L’uomo che guardava passare i treni è superiore al Testamento Donadieu, quando in ciascuno di questi romanzi, benché ambientati in situazioni diverse, quello che conta è la febbre della lettura, determinata dalla capacità che ha Simenon di avvincere il lettore grazie al suo straordinario stile, fatto di velocità, precisione, omissioni, dialoghi perfetti che danno al lettore la netta sensazione di trovarsi in quella stanza riscaldata da una buona stufa, in quel bar fumoso nel quale si beve, la gente esce ed entra e si odono le sirene del porto, e qualcosa sta capitando?
È, dunque, con qualche imbarazzo (dopo tale premessa) che, accodandomi al giudizio che ne dette Gaston Gallimard, mi spingo ad affermare che Il borgomastro di Furnes, (ristampato da Adelphi), è proprio un capolavoro.
Furnes è una cittadina fiamminga alle spalle di Ostenda, governata da un borgomastro, Joris Terlinck, che tutti chiamano Baas, vale a dire: padrone. Terlinck, proprietario di una fabbrica di sigari che fuma continuamente, è un uomo arrogante, chiuso, tutto d’un pezzo, egoista, inflessibile e feroce nella custodia del suo segreto familiare e nella lotta contro gli avversari politici. Il suo segreto familiare è costituito da una figlia pazza, già adulta, Emilia, che vive nuda, sporca dei suoi escrementi, in una soffitta sopra la rispettabile abitazione in cui il borgomastro abita con una donna spenta, Thérésa, che non ama, e una serva, Maria, che è stata (e talvolta lo è ancora) la sua amante e dalla quale ha avuto un figlio non riconosciuto. Il rivale politico di Joris è un ricco, grasso, pure lui arrogante produttore di birra, tale Van Hamme. Sullo sfondo, il ristretto confine provinciale: la piazza, il mercato, le strade dalle quali tutti vedono all’interno delle case povertà o lusso, le voci che si intrecciano e si rincorrono nell’unico bar in cui si gioca a carte o a dama, o nel lugubre Circolo Cattolico, dalle cui penombre si staccano vestiti neri, barbe bianche, punte di sigari, volti intagliati nel legno come in bui quadri di qualche secolo prima.
La molla che fa scattare la vicenda è un suicidio, seguito a un mancato omicidio. Un giovane impiegato di Terlinck, Jef Claes, ha messo incinta una ragazza, Lina, e va dal borgomastro, disperato, a chiedergli i soldi per abortire. Il borgomastro glieli rifiuta; il ragazzo si spara, dopo aver ferito la ragazza incinta, seduta al pianoforte. Senonché, dietro a quel pianoforte, a volgere amorevolmente le pagine dello spartito, c’era Van Hamme: il padre di Lina, rivale politico di Terlinck. Da qui in avanti, il romanzo si muove (splendidamente) in un doppio binario. Da una parte, infatti, assistiamo al degrado politico di Van Hamme, costretto a ripudiare la figlia e ad allontanarla in un luogo segreto (Ostenda) a causa dell’ignominia che Furnes non gli risparmia e il suo borgomastro golosamente cavalca. Dall’altra, assistiamo a una trasformazione esistenziale che mai avremmo immaginato. Perché l’uomo egoista, tutto d’un pezzo, l’uomo che non conosce la carità altro che per accudire personalmente sua figlia, scopre il rifugio della ragazza che sta per partorire, la figlia negletta del suo rivale politico, e si innamora. Non voglio anticipare al lettore la fine, doppiamente sorprendente del romanzo. È sufficiente dire che mai come nel Borgomastro di Furnes, in questo cupo arazzo fiammingo, Simenon è riuscito a entrare nella psicologia di un personaggio, a scavare nella sua profondità (sconosciuta a lui stesso), nascosta dai lineamenti rigidi di un figlio del demonio.
Giorgio Montefoschi