Goffredo Buccini, Corriere della Sera 15/02/2013, 15 febbraio 2013
ASCESA E CADUTA DEL SUPERUOMO CHE CORREVA CONTRO IL DESTINO
L’abbiamo amato come si ama una promessa mantenuta. Perché questo era, fino a ieri, Oscar Pistorius: la dimostrazione fisica, con quei suoi trampoli mirabolanti al posto delle gambe, che qualsiasi cosa ci accada nella vita c’è quasi sempre modo di reagire, never surrender, e di beffare gli dei avversi, rubando loro il fuoco e portandolo tra gli umani.
Il fuoco che Oscar ci aveva regalato gliel’aveva acceso dentro sua madre Sheila, una donna straordinaria, morta quando lui aveva quindici anni e già faceva a cazzotti col mondo, rugbista tosto e pallanuotista infaticabile e tennista spietato, ipodotato sulla carta, superdotato in mezzo agli altri ragazzini per i quali rugby, pallanuoto e tennis erano banalmente soltanto giochi e non prove tecniche per la gloria. Lui si porta tatuata addosso la data della morte di lei e rilegge quasi ogni giorno l’ultima lettera che lei gli lasciò: «Il vero perdente non è chi taglia il traguardo per ultimo, è chi si siede a guardare gli altri». Tutte le mattine Sheila svegliava i suoi figlioli e, senza farla tanto lunga, ordinava al fratello di Oscar «mettiti le scarpe» e a Oscar «mettiti le gambe»: normale è chi il normale fa, diremmo, parafrasando la mamma di Forrest Gump. La normalità è solo uno stato d’animo, un tono di voce nel caos.
E la vera storia di Oscar comincia forse da lì, dall’unica e autentica sciagura della sua vita fino a ieri, che non è perdere le gambe ma perdere da adolescente la donna che gli aveva insegnato a considerarlo un vantaggio: «Sono fortunato, perché riesco a fare quello che voglio mentre molti lo sognano soltanto, la compassione mi fa schifo». Nelle grandi tragedie classiche il prima consiste sempre in una fase di preparazione dell’eroe. Gli eventi e il caso dispongono le carte in modo che l’eroe debba confrontarsi poi con la grande prova. Oscar ha undici mesi quando gli tagliano le gambe sotto il ginocchio per una malformazione genetica: niente peroni né caviglie, moncherini per piedi. Dovrebbe starsene rintanato in un cantuccio di protezione garantita, gattonare nella melassa della pietà camuffata da politically correctness, piegarsi a quella che noi presunti normali chiamiamo diversità. Oscar dimostra che è diverso, sì, ma solo perché è migliore. Molla il rugby per un incidente di mischia. E quando la mamma muore comincia a correre, si issa più deciso sulle protesi speciali e fila come il vento, si iscrive alle gare paraolimpiche, straccia tutti ad appena diciassette anni su quelle gambe di carbonio che tutto il mondo conoscerà con la marca Cheetah. Non è una marca a fare la differenza. È il cuore. Lo chiamano Blade Runner. Ma non sono le lame a dargli la forza, dopo aver vinto la lotta coi propri limiti, di ingaggiare la seconda grande battaglia della vita: quella contro la burocrazia e l’idiota paura del diverso. Chiede di correre tra gli atleti normali, sogna le Olimpiadi, i tempi ci sono. La federazione internazionale di atletica sulle prime gli risponde di no: «Hai troppa spinta innaturale, troppi vantaggi», gli dicono, con sovrano sprezzo del grottesco. Lui fa i 45’’07 nella 400 metri mondiale di Daegu, e insiste: «Studiatemi, ho meno sangue e meno muscoli degli altri: quali vantaggi?». Diventa un caso planetario, divide l’opinione pubblica tra chi lo vede come un innesto innaturale di scienza e marketing e chi ne coglie commosso il «dialogo col dolore» degno dei campioni antichi, con quelle viti nella carne che lo straziano a ogni falcata. Quando la federazione si piega e lui corre tra i «normali» a Londra 2012, il trionfo non sta nella semifinale dei 400 conquistata a 45’’44 ma nell’ovazione del pubblico, tutto in piedi adorante.
Oscar diventa speranza di resurrezione, come Armstrong per i malati cancro. Le mamme dei piccoli disabili gli consegnano i bambini, lui ha in testa una fondazione, «ad almeno dieci di loro darò la possibilità di muoversi», lo fotografano coi piccini che hanno le sue stesse protesi in scala e gli trotterellano accanto. Ma Oscar è anche affari, danaro, forse la sua sfida agli dei diventa hybris, arrogante superomismo. Dicono beva troppo, corra troppo in macchina e in barca, che allevi una tigre da duecento chili, pitbull da combattimento, che sul davanzale tenga un mitra... stravaganze di un ragazzo che, da corridore senza gambe, guadagna quanto Bolt, due o tre milioni l’anno. Dicono che maltratti le donne, chissà se è vero, lo arrestano perfino per aggressione, ne esce pulito.
Certo ora, da superuomo, la normalità è più lontana che da bambino disabile. Nessuna può dargli l’equilibrio di mamma Sheila, nemmeno la splendida creatura che gli appare accanto negli ultimi mesi, nella villa blindata ai sobborghi di Pretoria: Reeva, la bionda top model che sembra l’ultimo sogno coronato, perfetta per il ragazzo che beffò gli dei. Ma gli dei hanno ben altro in serbo, sono vendicativi. Reeva e la sua morte assurda diventano nemesi, all’alba di un San Valentino che lei aveva celebrato con un tweet tragicamente profetico («come sorprenderete il vostro amore?»), nel giorno di One Billion Rise, dedicato in tutto il pianeta alla lotta contro la violenza sulle donne. Così, di colpo, tutto il pianeta si volta a guardare sgomento il ragazzo che aveva adottato. Quell’eroe caduto tra gli uomini, che esce dalla villa come un qualunque assassino, nascondendosi sotto il cappuccio della felpa, per la prima volta a testa china. Lasciandoci più poveri, al freddo, senza fuoco.
Goffredo Buccini