Davide Frattini, Sette 15/2/2013, 15 febbraio 2013
SCORRE SOTTOTERRA LA RICCHEZZA DELL’ÉLITE DI GAZA
[Una nuova classe di super benestanti è nata dai traffici di merci, anche di lusso, attraverso i tunnel con l’Egitto. Un business da 590 milioni di euro. Sorvegliato da Hamas] –
La città finisce dove comincia quella sotterranea. Gli ultimi blocchi di cemento non intonacato sono sparsi come un lancio di dadi che non crede nella fortuna. I palazzotti mai finiti di costruire servono a coprire il buco che sta dabbasso dove dovrebbe esserci la cantina, se al primo piano ci fosse il soggiorno o anche solo una camera da letto. Qui non abita nessuno, il clan di Muassim Abu Thabet ci lavora e basta. Sono i “topi”: vivono scavando in questa metropoli lievitata sulla sabbia, all’estremo sud della Striscia di Gaza. Muassim come quasi tutti a Rafah guadagna, e guadagna bene, trasportando merci attraverso i tunnel che arrivano dall’altra parte in Egitto.
È una corsa all’oro che cammina lenta: per realizzare il traforo artigianale ci vuole tempo, un metro all’ora, dieci ogni notte, almeno due mesi e mezzo per percorrere i 750 metri che sbucano sotto un’altra casa, in una città con lo stesso nome ma in una nazione diversa. Quando nel 1982 gli israeliani hanno lasciato il Sinai, il confine ha tagliato a metà Rafah. La cortina di ferro alta nove metri non ha diviso i legami di sangue: i cugini di quarto o quinto grado si sono trovati in due Paesi e si sono messi in affari insieme.
Nei cunicoli viaggiano sigarette, benzina, cemento, pezzi di ricambio, auto (in quelli più grandi), medicine (tanto Viagra e ansiolitici), cibo e qualche volta anche persone. È l’economia parallela creata dall’embargo imposto dagli israeliani per bloccare il respiro finanziario al governo di Hamas, un sistema che nei sei anni di dominio esercitato dal gruppo fondamentalista è cresciuto fino a emergere dal deserto, fino a diventare il mercato ufficiale.
Le mazzette. La commissione tunnel sta in un capanno di lamiera imbiancata. Di qua devono transitare e venir punzonati i prodotti che arrivano dall’Egitto e non attraversano nessuna dogana. Per ogni tonnellata di cemento i funzionari esigono 70 shekel (poco meno di 15 euro), per un’auto bisogna pagare il 25 per cento del valore e circa 1.500 euro di immatricolazione, 5 centesimi bastano per un pacchetto di sigarette, 35 per un litro di benzina. La licenza per aggiungere un nuovo tunnel al migliaio che già esistono lungo i dodici chilometri di frontiera vale 1.900 euro, altri 600 servono per potersi attaccare alla rete elettrica e far funzionare le scavatrici o i carrelli che corrono lungo i binari. Un investimento iniziale che pochi a Gaza, dove la disoccupazione raggiunge il 75 per cento, possono permettersi: tra manodopera, mazzette e macchinari un tunnel arriva a costare 15 mila euro, sempre meno dei 75 mila che toccava sborsare fino al 2005 e al ritiro israeliano, quando le pattuglie dell’esercito rendevano le operazioni più pericolose e comprare la riservatezza dei vicini costava caro.
Adesso le guardie di Hamas proteggono i cantieri e stabiliscono quel che può passare. «Le droghe sarebbero proibite», commenta Muassim che è specializzato in cemento. «Per gli armamenti ogni fazione ha le sue gallerie». Quella di Muassim è stata distrutta negli ultimi bombardamenti israeliani, gli otto giorni di guerra alla fine di novembre. Il missile ha lasciato un cratere, le travi di legno sono crollate e alla squadra di “topi” conviene costruirne una nuova.
La tregua ha fermato i lanci di missili dalla Striscia e le incursioni di Tsahal. Ora i negoziatori devono fissare misure meno rigide per le importazioni e le esportazioni: ammorbidire le restrizioni può portare benefici alla popolazione, non è sicuro che sia nell’interesse di Hamas. Le tasse locali, che il governo ha deciso di imporre tre anni fa, ormai coprono il 70 per cento dei costi operativi, il budget per il 2012 è stato di quasi 590 milioni di euro, il 25 per cento in più rispetto all’anno precedente. Aladin Rafati, il ministro delle Finanze, la chiama “strategia dell’autosufficienza” e spiega che la maggior parte degli introiti serve per pagare gli stipendi dei 40mila tra dipendenti pubblici e forze di sicurezza. Gli attivisti per i diritti umani lamentano che solo 10 milioni di euro sono andati per aiutare le famiglie indigenti, che una volta rappresentavano la base più solida del sostegno ai fondamentalisti.
Il gruppo al potere ha consolidato il controllo sui tunnel e può permettersi di decidere chi lasciare arricchire: sotto la sabbia scorrono i dollari, sopra l’85 per cento degli abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno (la soglia di povertà fissata dalle Nazioni Unite). Stanno scomparendo dalla scena i clan tradizionali, le famiglie più influenti e gli uomini di affari legati a Fatah, il partito che resta avversario di Hamas malgrado i tentativi di riconciliazione. «Al loro posto si è formata una nuova classe», spiega Samir Abu-Midalala, preside della facoltà di Economia all’università Al-Azhar, «che ha fatto i soldi grazie ai favori e alle buone relazioni con i leader islamici». Il professore calcola che nella Striscia siano comparsi negli ultimi anni 650 nuovi milionari, «creati dall’embargo e dall’economia di guerra».
I neo-signorotti reinvestono in proprietà terriere ed edilizia. Figure come il finanziere Abdul Aziz Al Khaldi (che possiede anche l’hotel Commodore sul lungomare e ovviamente almeno una Bmw) rastrellano le occasioni e i contratti migliori. «La speculazione edilizia», continua Abu-Midalala, «ha fatto schizzare in alto i prezzi degli appartamenti che sono cresciuti del 100 per cento, gli appezzamenti sono raddoppiati. La bolla danneggia la classe media, già impoverita dall’embargo: il potere finanziario si è spostato dalla città di Gaza verso centri come Rafah o altre zone periferiche». Acquistare un dunam di terra (1.000 metri quadrati) in aree residenziali come quella di Rimal può arrivare a costare dai 7 ai 10 milioni di dollari.
Al servizio degli affari. «Questo gruppo di affaristi non ha ricevuto educazione», commenta Omar Shaban, fondatore dell’organizzazione Palthink for Strategic Studies, «non sono mai stati fuori dalla Striscia e non hanno la preparazione per diversificare gli investimenti. Comprano terra o auto di lusso, scelte semplici e tradizionali. Sono diventati sempre più visibili e pian piano stanno guadagnando influenza sul resto della società. Non vogliono la revoca dell’embargo, che arricchisce pochissimi e impoverisce tutti gli altri. Anche quando i tunnel cesseranno di esistere, il loro marchio sul sistema durerà per anni: gli imprenditori abituati alla clandestinità dovranno essere spinti a registrarsi alla camera di commercio o a far affluire il denaro nelle banche perché entri nei canali ufficiali e contribuisca a un rilancio collettivo».
Il boom edilizio spiazza anche organismi come le Nazioni Unite e altre agenzie per lo sviluppo che restano vincolate alle regole israeliane su quanto cemento o materie prime importare. «Gli uomini d’affari vicini ad Hamas», spiega un funzionario dell’Onu al sito GlobalPost, «recuperano quel che gli serve dai tunnel. Noi dobbiamo aspettare che i convogli possano passare dai valichi».
«Gaza è venuta da me come una donna affamata / Ha appoggiato la testa stanca sul mio braccio e insieme abbiamo pianto / Non ricordo niente di lei eccetto un’aquila che si mangia le ali». I versi sono ricamati all’uncinetto, verdi su un tessuto bianco, e stanno appesi nell’ufficio di Basil Eleiweh. Che nel 2005, dopo il ritiro israeliano da Gaza, ha messo insieme altri quattro imprenditori e un milione di dollari per investire in alberghi e ristoranti da costruire lungo la costa. Hanno chiamato la società Cactus come la pianta che riesce a sopravvivere nel deserto, le spine non sono bastate per proteggerli dalle pressioni di Hamas. Quando sei anni fa il movimento ha strappato il potere nella Striscia ai politici e ai miliziani di Fatah, a Basil è mancato l’appoggio dei vecchi amici. I suoi locali, come l’elegante Roots, sono ancora aperti ma ormai passa la maggior parte del tempo in Cisgiordania, come altri investitori più vicini al presidente Abu Mazen che al governo di Ismail Haniyeh.
I Fratelli Musulmani. Dalla Muqata il leader palestinese guarda con sospetto ai nuovi milionari e al loro peso sulle strategie dell’organizzazione islamica. «I raìs dei tunnel», ha attaccato la scorsa estate, «si arricchiscono a spese degli interessi nazionali palestinesi ed egiziani». Abu Mazen ha reagito dopo che sedici soldati egiziani sono stati uccisi all’inizio di agosto da estremisti quasi certamente infiltrati attraverso i cunicoli. L’agguato ha fatto infuriare anche i Fratelli Musulmani di solito molto indulgenti con i cugini di Hamas. Il Cairo ha bloccato per qualche settimana i traffici sotto terra, fino a quando non ha ottenuto garanzie su quel che può camminare nei tunnel.
Quando Hosni Mubarak era al potere, le truppe egiziane intervenivano per fermare i contrabbandieri, soffiando gas o mitragliando acqua nelle gallerie. Le vittime erano, e sono ancora oggi quando un soffitto crolla e i lavoratori restano seppelliti, soprattutto ragazzini, usati come scavatori e per muoversi nei passaggi più stretti. Minatori del deserto che riescono a strisciare in budelli a volte larghi solo ottanta centimetri. Loro ricchi non diventano.