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 2013  febbraio 15 Venerdì calendario

RISCALDAMENTI A SINGHIOZZO, NEGOZI CHIUSI, CODE ALLE MENSE DEI POVERI. IN GRECIA LA CRISI SPEZZA LE SPERANZE. MA C’È CHI RESISTE ISPIRANDOSI A ULISSE

RISCALDAMENTI A SINGHIOZZO, NEGOZI CHIUSI, CODE ALLE MENSE DEI POVERI. IN GRECIA LA CRISI SPEZZA LE SPERANZE. MA C’È CHI RESISTE ISPIRANDOSI A ULISSE –
I greci benestanti, cioè quelli che possono permettersi quasi tutto, amano esibire la propria ricchezza. Magari adesso la ostentano un po’ meno volentieri che nel passato, perché i binocoli degli uffici fiscali sono diventati invadenti e irrispettosi. Tuttavia sulle terrazze più note e frequentate di Atene, con obbligatoria vista notturna sull’Acropoli illuminata, si vive come si viveva quando il Paese era vincente e il denaro scorreva facile e impetuoso. La padrona di casa, con la collana (apparentemente discreta) di preziose e antichissime pietre sassanidi, intervallate da palline di oro opaco, lancia un’occhiata risentita all’ospite inglese che sta spiegando perché le esauste finanze del Paese mostrino ancora qualche cupa prospettiva di fallimento. La risposta all’offesa nazionale non è una lapidaria e infastidita smentita, ma un ruvido e laconico: “We are not the worst”, non siamo i peggiori. Come se l’ultimo posto nella classifica dei demeriti economici dell’Unione europea fosse un’infamia insopportabile, e soprattutto assai poco credibile. Perché, come pensano coloro che hanno modesta dimestichezza con l’autocritica, i guai della Grecia sono sempre colpa degli altri.


Una pioggia di micro-attentati. Nessuno può dire, con assoluta certezza, come finirà questa maledetta crisi che sta frantumando prospettive e speranze. Quando la disoccupazione giovanile vola verso il 60 per cento, e quella generale è più del doppio della media europea, c’è davvero da tremare. I giornali, le tv, i blog e i social network traboccano veleno e rabbia assai poco repressa, visto che si sta sviluppando un’offensiva incontenibile di insofferenza sociale. La Grecia, patria e origine della democrazia, vive insomma la sua stagione più tribolata e inquietante. L’inverno è freddo ma i riscaldamenti delle case funzionano a singhiozzo perché il carburante costa troppo, e sono in tanti a non poterselo permettere. In molti supermercati, i prodotti più richiesti (non necessariamente i più cari) li puoi trovare solo alla cassa, perché i furti sono aumentati esponenzialmente e i controlli non sono sufficienti a impedirli. Una pioggia di micro-attentati, nelle scorse settimane, ha riprodotto l’incubo degli anni di piombo ellenici. Quando la Repubblica, che stava ricostruendo le proprie strutture dopo l’infame settennato dei colonnelli, finì ostaggio di un misterioso gruppo terroristico, chiamato “17 novembre”, cioè la data che segnò la rivolta degli studenti e che produsse le prime vistose crepe all’edificio di potere costruito dai golpisti. Da allora, e per un quarto di secolo, i terroristi, formalmente di estrema sinistra, seminarono morte, uccidendo politici, imprenditori, banchieri, giornalisti al ritmo di un paio di obiettivi all’anno. Nessuno, ma proprio nessuno dei fanatici fu catturato. Pareva che la banda fosse impermeabile, protetta e quindi irraggiungibile. Fino a quando, a pochi mesi dalle Olimpiadi del 2004, con i Giochi che tornavano finalmente a casa dopo 108 anni di attesa, il gruppo eversivo evaporò in circostanze quantomeno strane. Tutti arrestati. Il killer del “17 novembre”, Dimitris Koufodinas, che aveva trascorso un lungo periodo in un campo di nudisti, salì su un taxi e si consegnò alla polizia. Fu costretto persino a insistere con gli agenti, i quali non volevano credere di avere di fronte l’uomo più ricercato del Paese.

Corruzione, evasione, traffici. Oggi, per fortuna, siamo nella fase degli attentati dimostrativi o dei falsi allarmi, giusto per limare il sistema nervoso degli investigatori. Ma l’esperienza insegna che il salto qualitativo è sempre possibile, soprattutto adesso, in un Paese umiliato, prostrato e ferito a sangue dalla crisi. Una crisi spaventosa provocata da un debito pubblico stratosferico, dalla corruzione dilagante, dall’evasione fiscale, dalla propaganda dei populisti e degli apprendisti stregoni, dai traffici poco chiari, anzi decisamente opachi che hanno coinvolto sia i governi di centro-destra sia quelli di centro-sinistra. Però va detto che il prologo al crollo della Grecia è avvenuto nell’ultima fase del governo liberal-conservatore del giovane Kostas Karamanlis, schiacciato da un cognome troppo pesante (suo zio Konstantin fu uno dei padri della democrazia greca, e riuscì a ottenere l’ingresso di Atene nella Ue), e travolto – anche a causa della sua ben nota pigrizia – dalle amarissime verità che si stavano malignamente disegnando all’orizzonte. Sapendo che stava affiorando la conferma che i suoi ministri avevano truccato i conti, e avevano inviato a Bruxelles bilanci non veritieri, Karamanlis chiese di anticipare il voto. Non per vincere le elezioni ma – inaudito! – per perderle, e scaricare il bubbone sui socialisti di George Papandreou, anch’egli prigioniero di un cognome da brividi: il paragone con il nonno Jorgos e soprattutto con il padre Andreas, fondatore del Pasok, è decisamente impietoso. George, il meno greco di tutti i leader greci, da primo ministro sembrava un distaccato gentleman scandinavo. La Grecia, da quel giorno, senza che nessuno battesse il pugno sul tavolo, ha iniziato a correre verso il baratro, con la prospettiva, anzi la quasi certezza del fallimento.
Le immagini odierne delle code alle mense dei poveri, dei negozi che abbassano le saracinesche per sempre, degli affitti che crollano; degli estremisti filonazisti di Alba Dorata che picchiano gli immigrati, che distribuiscono cibo solo a chi può dimostrare di essere greco al 100 per 100 e che raccolgono sostegno e consensi soprattutto dai poliziotti; delle banche che non hanno la possibilità (o la volontà) di concedere crediti, del lavoro che manca, delle manifestazioni sempre più rabbiose, delle violenze generalizzate, spiegano quasi tutto. Diciamo quasi tutto, perché il tarlo peggiore per i greci è quello che divora la mente di un popolo fiero e patriottico, che si è alimentato di orgoglio, di illusioni ma anche di nazionalismo. Un esempio? Toccare un centimetro quadrato di terra greca può provocare crisi devastanti. Si è rischiato quasi un conflitto armato soltanto perché la ex Repubblica jugoslava di Macedonia, dopo lo sfaldamento della Confederazione, aveva scelto di chiamarsi semplicemente Macedonia. Apriti cielo! “La Macedonia è greca da 3.000 anni”, predicavano i giornali ellenici e strillavano gli annunci a pagamento, e poco importa se quella storica regione, che si sviluppa attorno a Salonicco, si allunghi fino alla confinante Skopje. Per evitare guai intollerabili, per ora è finita così: il mondo chiama il piccolo Stato balcanico Macedonia, mentre per Atene è soltanto Fyrom, acronimo dell’ex repubblica jugoslava.

Se l’Imu è una bazzecola. Oggi, però, anche queste passioni si sono lievemente assopite, a causa dei tagli mostruosi e dei sacrifici sanguinosi che la gente deve subire. Le tasse sulle case di proprietà sono addirittura quattro: l’ultima, salatissima, si paga in due rate ravvicinate sulla bolletta della luce. Le polemiche italiane sull’Imu, al confronto, sembrano bazzecole. I dipendenti pubblici, a cominciare dalla potente casta degli insegnanti e dei professori universitari, hanno dovuto rinunciare a oltre il 30 per cento del loro stipendio: via tredicesima, quattordicesima, extra, voci aggiuntive, più la limatura del minimo contrattuale. Analoga decurtazione per le pensioni. Nel privato è ancora peggio. Decine di migliaia di commesse e di impiegati, che non ricevono lo stipendio ma soltanto qualche magro acconto (se va bene), preferiscono continuare a occupare gratis il loro posto di lavoro. Andarsene significherebbe cancellare anche la speranza che tutto, un domani, possa tornare come prima.
Vassilis Vassilikos, celebre scrittore, autore del testo che ci fece conoscere la storia di Grigoris Lambrakis, il politico progressista ammazzato durante la cupa stagione che precedette la dittatura militare, e diventato protagonista di Z, l’orgia del potere, è ironico e insieme amaro: «Noi greci abbiamo visto di tutto, ma ora è arrivato il momento più difficile. Bisogna avere coraggio di resistere e andare avanti». Vassilikos, amico di Alekos Panagulis, il ribelle protagonista della resistenza greca di cui Oriana Fallaci si innamorò, ha un fardello carico di storie, di emozioni, di aneddoti intriganti. Come quando, seduto a un caffè davanti al Pantheon di Roma, pochi giorni dopo il colpo di Stato dei colonnelli, lesse su Le Monde che Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e altri intellettuali francesi avevano intimato ai golpisti di liberare subito il grande Vassilikos. «Firmano un “giù le mani da Vassilis” ma io sono libero, e mi trovo a Roma», rispose divertito lo scrittore, telefonando a Parigi. Era successo che Sartre e i suoi amici avevano pronto un appello-standard da pubblicare, con un elenco di sottoscrittori che non dovevano essere neppure consultati. Bastava la prestigiosa garanzia dell’autore del Muro. Vera o presunta che fosse.
Vassilis, al quale l’esperienza e le cicatrici della vita non hanno soffocato il senso dell’umorismo, si concede qualche sana risata. E allora ti spiega come ha scoperto che alcuni suoi amici, che spendevano allegramente, adesso cominciano a dar valore a una moneta da due euro, mentre prima non consideravano pesante la banconota da 50. E magari, se è in vena, ti racconta quando il suo amico Panagulis fu rinchiuso in una camera d’albergo di Roma dalla gelosissima Oriana. Una sera, stanco della “dorata prigione”, Alekos scappò arrotolando le lenzuola, trasformandole in una fune, e calandosi dalla finestra.
Altri tempi, ovviamente. Allora, Theodorakis portava Zorba in giro per il mondo, Irene Papas faceva sognare gli innamorati del Mediterraneo, e la sinistra greca seguiva – affascinata – l’ascesa irresistibile di Andreas Papandreou, genio disinvolto e populista: che, pubblicamente, attaccava gli Usa e chiedeva lo smantellamento delle basi navali americane, ma sotto sotto aveva solidi rapporti con la sinistra del Partito democratico statunitense. Furono gli anni della Atene da bere, e tutto sembrava possibile. Più che discutere sulle infrastrutture da costruire, si pensava ai ricchi e robusti pacchetti-Delors, che da Bruxelles scendevano dolcemente sulla Grecia. Jacques Delors, convinto filellenico, era molto generoso con Atene.
Tanto denaro produsse una serie di scandali, che lo stesso Vassilikos ha raccontato in un altro libro, K. K è l’iniziale di Koskotas, e George Koskotas era il presidente della Banca di Creta, gran finanziatore del Pasok con sistemi assai disinvolti, quasi sindoniani. Sistemi che portarono alla crisi di governo e a una serie di vicende politiche assai complesse, che alla fine si diluirono con la morte del patriarca socialista, e l’inizio dell’era che porta il nome di Costas Simitis, professore borghese del Pasok, che ha condotto la Grecia nell’euro e ha promosso l’illusoria maturazione del Paese.
Le Olimpiadi, la rivincita dei conservatori, e infine la crisi devastante che non si è ancora conclusa. Il voto dello scorso giugno ha fotografato un Paese dove tanti elettori di sinistra, temendo l’uscita dall’euro predicata dai massimalisti di Syriza, hanno deciso di turarsi il naso, come diceva Indro Montanelli, e di votare per Antonis Samaras, leader del centro-destra di Nuova Democrazia. Samaras governa con due riottosi ma necessari partner: il dimagritissimo Pasok, in crisi di identità, e la sinistra radical-democratica di Dim-ar.
Di capitali stranieri, in Grecia, ne arrivano pochi. Tuttavia il porto è finito in mani cinesi e per certi versi sta tornando a funzionare. C’è però al Pireo un problema insormontabile: gli armatori. Sono tanti, ricchi, potentissimi, ma non pagano un euro di tasse. Sollecitati dal fisco, più volte hanno minacciato di andarsene all’estero e di cercare bandiere di comodo. La Grecia, che fa concorrenza agli Usa, ha una flotta di 7.000 navi, di cui almeno 3.500 transoceaniche. Nessun governo di Atene ha osato pretendere almeno un modesto tributo. E nessun governo ha osato compiere i passi necessari per accendere l’orgoglio e le responsabilità nazionali dei padroni del mare.

La scommessa di Ulisse a Milano. Occorre coraggio, e nella storia recente pochi lo hanno avuto. L’esempio del coraggio è arrivato, quasi prosaicamente, dal teatro. Coraggio ha avuto un italiano, il direttore del Piccolo Teatro di Milano Sergio Escobar. Il Piccolo ha infatti sottoscritto un impegnativo contratto con il Teatro di Atene per la produzione dell’Odissea con la regia di Robert Wilson. Ma coraggio vero è stato firmare l’impegno durante la fase più acuta della crisi, quando pareva che la Grecia fosse ormai un malato allo stadio terminale, e che solo un miracolo avrebbe potuto salvarla.
Ben pochi erano disposti a contrastare le previsioni catastrofiche dei soloni della finanza internazionale, che l’anno scorso a Davos – come ha scritto Federico Fubini sul Corriere – immaginavano un 2013 con la Grecia fuori dall’Ue e con l’euro sbriciolato. Scommettere sulla cultura – seppur cultura vera – era davvero un azzardo. Però, con ostinazione, Escobar e i suoi partner greci ce l’hanno fatta. Oggi, in attesa che l’Odissea approdi a Milano, il Teatro di Atene ha fatto il pieno di presenze: giovani, meno giovani, studenti, intellettuali, insegnanti, casalinghe e pensionati hanno sempre riempito le sale e i palchi, per applaudire il lungo viaggio di Ulisse. Un viaggio tribolato e pericoloso, che sembra la perfetta metafora di quel che la Grecia e molti Paesi europei stanno vivendo: alcuni consapevolmente, altri no.