Gianluca Di Feo, l’Espresso 1/2/2013, 1 febbraio 2013
ORFANI DI GUERRA
La ricetta per salvare Finmeccanica l’ha fornita sette mesi fa l’ex numero due del Pentagono, William Lynn: «Dobbiamo mettere insieme le cose e gestirle da un solo quartiere generale, con una sola lista di priorità e un’unica voce con i nostri clienti». Proprio l’ingaggio di Lynn, ex vicesegretario alla Difesa e figura di peso nei circoli militari di Washington passato alla guida delle attività statunitensi del gruppo, era stato il colpo più importante messo a segno da Giuseppe Orsi nel tentativo di ristrutturare un colosso in prognosi riservata. Un’operazione difficile, se non impossibile.
L’arresto di Orsi e del numero uno di Agusta Bruno Spagnolini (per i dettagli vedere il nostro sito Espressonline) rischiano ora di dare il colpo di grazia a Finmeccanica, che sta velocemente passando da simbolo della migliore tecnologia made in Italy a paradigma dell’inaffidabilità del nostro paese. Le mediazioni che nascondono tangenti sono una «filosofia aziendale» estremamente diffusa nell’export bellico e spesso la magistratura anche in altri paesi riesce a smascherarle. Ma, come sottolineano i report internazionali, l’inchiesta che ha travolto il vertice del gruppo italiano nasce dalle rivelazioni di un manager legato al vecchio gruppo dirigente: l’indagine si è nutrita delle faide interne alla società e delle loro caratterizzazioni politiche, cosa che all’estero in questo settore non accade mai. L’atto d’accusa del giudice di Busto Arsizio offre un campionario di pratiche (il tentativo di pilotare media e procure, il sospetto di pagamenti alla Lega subito dopo la nomina di Orsi) figlie della peggiore tradizione delle Partecipazioni statali, quella che si sperava fosse stata cancellata dalle retate di Tangentopoli.
Adesso, come ha laconicamente dichiarato il premier Monti, Finmeccanica «ha un problema di governance». Le lotte intestine all’azienda e l’intreccio perverso di rapporti con i partiti, finora hanno eliminato tutti i candidati interni al vertice, tranne Alessandro Pansa a cui dovrebbe essere affidata la gestione dell’emergenza. Negli ultimi undici anni Pansa è stato il responsabile della finanza e ha architettato le operazioni per sostenere la campagna di acquisizioni dell’epoca di Pier Francesco Guarguaglini, compreso l’indigesto boccone dell’americana Drs costata ben 5,2 miliardi di dollari nel 2008, poco prima del crollo di Wall Street. Un ruolo strategico, ma meno esposto al contagio della lottizzazione e degli intrallazzi romani. La forza di Pansa però è anche il suo limite: molti analisti credono che a Finmeccanica serva una figura con una grande conoscenza industriale, doti indiscusse di riorganizzatore e l’autorevolezza internazionale per rianimare la credibilità del gruppo.
È probabile che le scelte verranno prese dal futuro governo. Una delle ipotesi è quella di individuare un "presidente di garanzia", che tranquillizzi gli interlocutori esteri e trasmetta un’immagine di legalità. Un incarico che in passato non sarebbe dispiaciuto a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e attuale sottosegretario con delega ai servizi segreti, né all’ammiraglio Giampaolo Di Paola, oggi ministro della Difesa dopo essere stato alla guida delle forze armate e responsabile militare dell’intera Nato.
Il primo nodo da affrontare sarà la vendita o meno dei settori trasporti ed energia, che Orsi voleva cedere per concentrare la holding su elettronica e difesa incontrando resistenze nell’azienda e nel governo. Sul fronte della ristrutturazione, invece, difficilmente i nuovi vertici potranno prendere una rotta diversa.
Negli anni di Guarguaglini la holding è cresciuta in fretta, allargandosi nel mondo senza nemmeno riorganizzarsi in casa: l’acquisto dell’americana Drs, un conglomerato eterogeneo di piccole-medie aziende rese ricche dalla guerra in Iraq, ha reso ancora più complessa una struttura già poco razionale. Dopo il siluramento di Guarguaglini, il gruppo ha iniziato una lunga marcia, partita però con grande ritardo. Quando nel dicembre 2011 Orsi è stato scelto come timoniere, poteva vantare di avere realizzato l’unica integrazione: quella tra Agusta e la britannica Westland, dando vita a un gigante degli elicotteri capace di competere in qualunque mercato. Da meno di un anno si è cercato di fare lo stesso nell’elettronica, unendo sotto il marchio Selex Es gli impianti italiani e britannici, fulcro di una rete di aziende che danno lavoro a 17.900 persone e garantiscono la fetta più larga delle entrate, con 3,5 miliardi di ricavi annuali. Sotto la guida di Allan Cook, si cerca di mantenere la leadership nei radar più avanzati e recuperare il tempo perso nella cybersicurezza e nei sistemi di automazione civili. Una rincorsa che riguarda anche i droni, con troppi progetti portati avanti finora da sigle diverse.
In campo aeronautico, il gruppo si trova ormai soffocato da quello che nello scorso decennio era il suo alleato più importante: la Lockheed. Tutti i progetti varati insieme durante la presidenza Bush si sono trasformati in terreni di scontro, a partire dal nuovo elicottero per la Casa Bianca. L’accordo per commercializzare il biturbina da trasporto Alenia C27 J, adottato dall’Us Army e diventato vittima dei tagli di Obama, si è tramutato in sfida aperta con l’immortale Lockheed C130 Hercules. Tanto che poche ore prima dell’arresto di Orsi, Finmeccanica ha sostanzialmente chiuso la filiale americana di Alenia, sacrificando la poltrona del Ceo Alan Calegari e di 60 manager. Meno di un mese fa, Alenia aveva annunciato di volere partecipare alla gara più importante dell’aeronautica statunitense: l’acquisto di un nuovo jet da addestramento. L’Aermacchi M346 è uno dei migliori velivoli esistenti al mondo ed è stato adottato pure dall’aviazione israeliana. Il suo rivale sarà però il supersonico T50, joint venture coreana sempre della Lockheed. Ed è quasi paradossale notare come invece la scelta di puntare sul cacciabombardiere F35 imponga ad Alenia di essere partner di Lockheed nel più costoso contratto della Difesa italiana. A Finmeccanica l’F35 non è mai piaciuto: il suo ruolo è in pratica solo quello di produrne parti e assemblare gli esemplari per l’Aeronautica. L’unica speranza di renderlo un successo è riuscire a realizzare nel nuovo impianto di Cameri i jet destinati a altri paesi: Orsi guardava alla Turchia, che però adesso mostra dubbi sul costosissimo programma. Ed esamina con scetticismo alle promesse degli italiani, dopo il flop degli aerei da pattugliamento navale acquistati da Ankara e che Finmeccanica non è riuscita a consegnare. Tra scandali ed errori, le porte degli ultimi eldorado per i mercanti di armi made in Italy si stanno chiudendo una dietro l’altra. Prima il Brasile, dove alla rottura per l’esilio del terrorista Cesare Battisti si sono aggiunte le indagini napoletane sugli accordi per pagare tangenti. Ora l’India, dove l’inchiesta che ha portato all’arresto di Orsi rischia di fare svanire contratti miliardari per radar e aerei. Ma intercettazioni e rogatorie mettono a rischio i business avviati in altre nazioni con le casse piene di petroldollari, come l’Algeria e gli Emirati Arabi. Vincere gare nei paesi occidentali invece è sempre più difficile. Tutti stanno tagliando i bilanci della Difesa, la competizione è sempre più dura e Finmeccanica non rappresenta un paese forte. Come ha spiegato Loren Thompson del think tank Lexington Institute, commentando la vicenda degli aerei C27J "ripudiati" dal Pentagono: «Finmeccanica aveva la macchina migliore per i requisiti e ottime entrature alla Casa Bianca, ma non ha peso politico». Forse perché l’unico interesse della politica italiana non è stato quello di garantire un futuro all’ultimo colosso tecnologico nazionale ma solo quello di spartirsi poltrone e finanziamenti.