Francesca Sironi, l’Espresso 15/2/2013, 15 febbraio 2013
CASE DA MATTI– [
Rinchiusi in residenze costose e inutili per la cura. Così si condannano i malati. Ma abbiamo scoperto un’altra Italia. Dove si guarisce ]
La normalità è poter dire: «Sono a casa». Non rischiare più di essere internati in un manicomio, di diventare un numero, ma rimanere persone, con la propria autonomia. Essere inquilini in case speciali, ma uguali a tutte le altre. È questa la svolta nella vita di tanti italiani con gravi problemi psichici che fino a trent’anni fa sarebbero stati trattati come dei matti e rinchiusi in un ospedale o lasciati in mezzo a una strada. Oggi, in 30 mila, vivono in appartamenti o piccole comunità, grazie alla riforma voluta da Franco Basaglia nel ’78. Con la sua battaglia, diventata una delle leggi più famose del nostro ordinamento, Basaglia fece chiudere i manicomi. Fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 più di 100 mila persone superarono i cancelli degli ospedali psichiatrici per non mettervi più piede. Allora, in tutta Italia, si iniziò a parlare di case e di abitare, anziché di pazzi da contenere. Sono passati 35 anni, e la battaglia non è ancora finita. Si rinnova ogni giorno, contro le strutture che continuano ad avere le sbarre alle finestre, contro le proposte di revisione della legge 180 che puntualmente, ad ogni legislatura, arrivano in Parlamento; contro gli enormi interessi economici che si nascondono dietro molte residenze per i malati. E infine contro la diffidenza verso la malattia mentale. Eppure, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il 27 per cento degli abitanti dell’Unione europea ha avuto a che fare, almeno una volta nella vita, con un grave problema di salute mentale. Significa che un quarto della popolazione (e sono percentuali che tornano, identiche, in Italia), sa cosa significa soffrire di disagio psichico. Ma ciononostante il "matto" fa paura. Ancora. E serpeggia sempre viva l’idea che è meglio tenerlo chiuso. In trent’anni però si è aperta anche la strada per esperienze innovative, che credono nella dignità dei malati e nella possibilità di guarire. E che resistono, nonostante i tagli alla sanità. Abbiamo scandagliato l’Italia, da Trento alla Sicilia, per vedere se la legge 180 può cominciare finalmente a dirsi applicata. E abbiamo scoperto molte gemme. Che dimostrano che si può fare.
MAI PIÙ SOLI
Mara ha ventisette anni e decine di braccialetti borchiati alle braccia: «Ero in mezzo a una strada», racconta alla piccola platea di un convegno all’ospedale Sacco di Milano: «Ho lasciato la mia famiglia pensando di farcela da sola, ma mi sono spaccata». Dopo quattro anni in una comunità psichiatrica, ora abita in un appartamento, seguita dagli educatori: «È bello convivere. Torni a casa e ci sono gli altri. Ti danno forza. Perché alla fine da sola non resisti». È stata lei, sette anni fa, a presentarsi al centro di salute mentale, per chiedere aiuto.
«Quando una persona si rivolge al centro», spiega Tecla Pozzan, dirigente psicologa all’ospedale di Verona, «tracciamo un profilo e stabiliamo insieme un percorso. Se è necessario, cerchiamo un posto dove possa abitare, per un breve periodo oppure per mesi». Sono circa 1.700 le strutture che offrono questa possibilità in Italia, seguendo modelli diversi. Si va dalle comunità ad alta assistenza, con infermieri presenti anche di notte, agli appartamenti seguiti poche ore al giorno, dove vivono al massimo cinque o sei persone. In gergo si chiamano percorsi di "residenzialità leggera". L’obiettivo è far sì che i pazienti vi risiedano solo di passaggio, anche se spesso diventano una scelta di vita: «La prospettiva», spiega Marta Vigorelli, coautrice del libro "Comunità Terapeutiche", appena uscito per Raffaele Cortina, «non è tanto la guarigione quanto il recupero delle proprie risorse. Le comunità intensive restano. Ma gli appartamenti più piccoli e meno controllati devono esserci, come punto d’arrivo». Che la struttura sia pubblica o privata, protetta o leggera, il riferimento medico e terapeutico rimane nei centri di salute mentale: perché, spiega Michele Tansella, ordinario di psichiatria all’università di Verona, «ogni paziente deve sempre essere seguito dai medici del dipartimento». Ovvero il malato non si dimentica in un luogo separato dal mondo, com’era il manicomio, ma è seguito e protetto da una rete di persone, primi fra tutti i medici ma anche i familiari, le associazioni, i vicini.
Il problema, dicono però i familiari, è che quando ci si rivolge al Centro di salute mentale del proprio comune non si sa mai a cosa si va incontro. «Ogni regione fa a modo suo. I modelli sono poco uniformi e la disponibilità non è mai la stessa», commenta Giovanni de Girolamo, direttore scientifico dell’Istituto di ricerca sanitaria di Brescia. Eppure non dovrebbe andare così. Non in Italia, spiega Tansella, che lavora come esperto di salute mentale per l’Organizzazione mondiale della sanità: «Ogni struttura risponde alle esigenze del servizio pubblico. Noi non possiamo abbandonare le persone». Che andrebbero seguite, ovunque, con gli stessi standard di qualità. Ma così non è.
DUE ITALIE
Laura armeggia in cucina: «Chi vuole un caffé?», grida verso le scale. Il portacenere è pieno di mozziconi: sono tutti fumatori incalliti. Vivono insieme, in quindici, in un caseggiato alla periferia di Milano, al capolinea di un bus. La struttura che li ospita è una comunità riabilitativa a media assistenza: gli operatori sono presenti 12 ore al giorno e durante la settimana si alternano per le attività terapeutiche. Qui la porta è aperta e le stanze sono tappezzate di poster. «L’unica cosa che dobbiamo chiudere a chiave è il frigorifero», dice un’infermiera, guardando il lucchetto che tiene assicurati gli scaffali dalla fame nervosa dei pazienti. In Lombardia gli appartamenti per pazienti psichiatrici, gestiti dal pubblico o dal privato sociale, sono già più di 170. Ospitano al massimo cinque persone e costano al servizio regionale 45 euro al giorno, mentre gli ospiti contribuiscono per il vitto e l’alloggio. E, a quanto pare, funzionano: una ricerca commissionata dalla Regione nel 2011 ha dimostrato che metà dei pazienti inseriti in residenzialità leggera tornerà a vivere da sola, in affitto oppure in un alloggio popolare.
Purtroppo non va così ovunque: «Conosco comunità con porte chiuse, controllo esasperato dei movimenti, regole severe», racconta Gisella Trincas, presidente dell’Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale: «Ogni giorno ricevo messaggi da familiari disperati. Non sanno a chi rivolgersi. Perché i parenti di una persona che soffre devono vivere nel 2013 quello che ho dovuto passare io quarant’anni fa?».
E la psichiatria le dà ragione. «La letteratura scientifica ci insegna che le strutture iper-protette sono dannose», dice Marco D’Alema, presidente dell’Associazione italiana Residenze per la salute mentale: «Lo dico anche per esperienza». Lo psichiatra racconta che nel Lazio infatti, dal 2004, tutte le comunità devono prevedere per forza assistenza continuata sulle 24 ore. Un controsenso, rispetto ai successi che si erano registrati adottando sistemi più flessibili: «Per via di questa legge abbiamo chiuso diverse case-famiglia», ricorda D’Alema: «Sostituendole con comunità che costano di più e funzionano meno: i pazienti hanno perso autonomia».
Il rischio è che le comunità assomiglino più a dei piccoli ospedali che a delle case: «Il contrario di quello che vorremmo», aggiunge Gisella Trincas. Ma «molti valutano i servizi sulla base del numero di posti letto, pensando che l’eccellenza sia averne di più», spiega lo psichiatra genovese Luigi Ferranini, segretario nazionale della Società Italiana di Psichiatria «Ma non è così: meglio il domicilio delle strutture-contenitore». Che però rendono di più.
Come dimostra il braccio di ferro in corso in Sicilia. Racconta Raffaele Barone, dirigente medico all’Asl di Catania: «Siamo riusciti a far approvare un piano regionale che punta all’assistenza domiciliare. Ma alcune comunità private si oppongono: in ballo ci sono interessi troppo forti». Il business infatti è ricco, se portato avanti senza scrupoli: i rimborsi degli enti pubblici per le strutture accreditate vanno da 120 a 250 euro per persona, al giorno. Il risultato è che ancora oggi, in Sicilia, ci sono solo 10 appartamenti protetti contro più di 200 comunità. Alcune con più di 30 persone.
COINQUILINI SPECIALI
Com’è lontana Trento, dove il dipartimento di salute mentale ha creato una piccola agenzia immobiliare che fa incontrare i pazienti che potrebbero vivere insieme, permettendo loro di scegliersi. Lorenza, ad esempio, abita da un anno con una ragazza cinese. Entrambe hanno alle spalle anni di terapia. Adesso sono due coinquiline rodate: «Ci diamo una mano a vicenda», racconta Loredana, parlando lentamente: «Facciamo la spesa, le commissioni, cerchiamo di rendere la casa più ridente». Si guarda le mani. «Mi piace perché lei mi chiede sempre: "Dove vai?", "A che ora torni"? Ho qualcuno che pensa a me, adesso». Per chi si è sentito isolato a causa della malattia, non è poco. A Cagliari l’Asl si è inventata qualcosa di più: degli alloggi in cui i ragazzi con disagio vivono insieme agli universitari fuori sede. Una strategia "win-win" direbbero gli economisti: gli studenti risolvono il problema della casa e i pazienti imparano a gestire i rapporti personali. «La sperimentazione sta andando meglio del previsto», racconta Augusto Contu, dirigente medico del capoluogo, ideatore del progetto: «Studenti e pazienti sono rimasti in contatto anche dopo che si è concluso l’anno insieme. E abbiamo nuove richieste».
A frenare l’onda lunga basagliana, però, oltre al business, resta che i "matti" sono ancora un problema, per molti: «La diffidenza e la paura nei confronti della malattia mentale sono così alte», racconta Tecla Pozzan, «che anche se garantiamo noi, come ospedale, il pagamento dell’affitto, molti proprietari ci dicono di no. Non vogliono avere dei "pazzi" come inquilini. Nel 2013, è assurdo». «In un momento di crisi nessuno vuole altra insicurezza», commenta Luigi Ferranini: «E così rinasce la volontà di allontanare i "diversi"». Una tendenza da fermare. Anche perché, come ricordano i ragazzi dell’ex manicomio Paolo Pini di Milano: «Da vicino nessuno è normale».