Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 14 Giovedì calendario

UN BUGIARDO DA OSCAR

[Intervista a Dante Ferretti] –
Il 26 febbraio compie 70 anni quel ragazzino che, con gli occhi sgranati dalla curiosità, trascorreva le giornate nel buio dei cinema di Macerata. Incantato dalle immagini che correvano sui grandi schermi dello Sferisterio o del Cairoli. Fuori i compagni giocavano a pallone nei cortili, lui sedeva silenzioso in platea. Poi nella sua carriera ha costruito set per Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Tim Burton, Martin Scorsese e tanti altri. L’ispirazione per le scenografie di Hugo Cabret viene proprio dalla Torre dell’orologio della sua città, rimasta nella memoria di un fanciullo.
Partiamo da quando era bambino: è vero che rubava i soldi nelle tasche di suo padre per andare al cinema?
E a lei chi l’ha raccontato?
Segreto professionale... Lo faceva o no? Io sono nato a Macerata e in una città così piccola l’unica cosa bella è che c’erano quattro cinema e altre quattro sale delle parrocchie. 11 primo film che ho visto, a 6 anni, fu I ragazzi della via Paal, nella sacrestia di una chiesa vicino a casa mia. Da quel momento il cinema divenne una fissazione, volevo sempre andarci.
E quindi?
Al pomeriggio, finita la scuola, dicevo a mio padre che andavo a studiare in casa di amici. In realtà gli rubavo... diciamo che mi appropriavo dei soldi che teneva in tasca e correvo a vedere i film. Se mi piacevano, li guardavo anche due volte o tre consecutive, oppure mi infilavo in una sala al primo spettacolo e in un’altra al secondo.
Quali erano i suoi generi preferiti?
Western, film in costume e, ovviamente, quelli di Totò.
Quindi aveva già deciso allora che avrebbe fatto lo scenografo?
Io studiavo all’istituto d’arte e un giorno decisi che volevo fare il cinema. Mio padre rimase sbigottito e mi chiese con un risolino se volevo diventare attore, però a me piacevano le costruzioni e le scene, anche se non sapevo neppure come si chiamasse questo lavoro. Ricordo che un giorno uno scultore abbastanza famoso di Macerata, Umberto Peschi, mi spiegò che dovevo diventare scenografo. Pensai: ecco quello che voglio fare da grande.
E suo padre come la prese?
Gli dissi che volevo frequentare l’Accademia di belle arti a Roma per studiare scenografia. Pensava fossi matto, anche perché lui sognava che portassi avanti la piccola fabbrica di mobili di famiglia. Comunque, visto che venivo sempre rimandato a ottobre in quattro o cinque materie, mi propose un patto: «Se alla maturità vieni promosso a giugno senza problemi, ti mando a Roma». Pensava che non ce l’avrei mai fatta. Mi misi a studiare l’ultimo mese e mezzo e passai l’esame con i migliori voti di tutta la scuola. Vinsi addirittura una borsa di studio del Pio sodalizio dei piceni. Nessuno ci credeva, pensavano che i professori si fossero sbagliati.
Si racconta che cominciò trasformando il porto di Ancona in un set di film di pirati.
La cosa buffa è che i primi film che girai nel 1961 furono appunto nelle Marche, dopo che avevo tribolato tanto per andarmene. Erano due pellicole di serie B dirette da Domenico Paolella che aveva deciso di ricostruire i Caraibi nel Cenerò: Le prigioniere dell’isola del diavolo e Gli avventurieri dell’oceano.
Un buon lavoro?
Evidentemente... Il produttore mi presentò Luigi Scaccianoce, che era un grande scenografo, e diventai suo assistente. Con lui ho lavorato per otto anni, da La parmigiana di Antonio Pietrangeli a Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini ed Edipo re di Pier Paolo Pasolini. L’ultimo film da aiuto scenografo è stato Satyricon di Federico Fellini, nel 1969.
Dopo cosa accadde?
Avevo appena finito Satyricon a Ponza, suonò il telefono, era Pasolini: «Ferretti, d sarebbe da fare un film in Turchia ma bisogna partire subito per la Cappadocia. Ho già il biglietto». E così con Medea sono stato promosso da aiuto a scenografo.
Quindi è arrivato rincontro con Fellini.
Non subito. Ricordo che l’ho incontrato a Cinecittà. Mi propose di fare un film con lui, ma dovevo lavorare in coppia con Danilo Donati, che con Fellini vinse l’Oscar per Casanova. Lo ringraziai ma gli risposi: «No, perché le cose fatte bene saranno merito di Donati e quelle fatte male colpa mia». E conclusi: «Chiamami tea 10 anni».
E così avvenne?
Sì, stavo girando con Elio Petri Todo modo e d siamo incrociati sotto un lampione a Cinecittà. Quella volta, stranamente, era solo e mi disse: «Dantino, ciao, sono passati 10 anni e bisogna che lavori con me». Dopo qualche mese partimmo con La città delle donne. Prova d’orchestra e poi altri quattro film fino a La voce della luna.
Fermiamoci un attimo. Cosa prova a compiere 70 anni?
Guardi che forse sbaglia persona, io ne compio 50. Con chi vuole parlare?
Dante Ferretti, nato a Macerata il 26 febbraio 1843, vincitore di tre premi Oscar.
Mi sembra di essere ancora un ragazzetto. Mi sento felliniano, nel senso che mi piace tutto quello che è finto, che adoro le bugie. Fellini ogni giorno mi chiedeva: «Dante, cosa hai sognato l’altra notte?». E io: «Niente». Poi alla quarta o quinta volta ho cominciato a inventarmi sogni, gli raccontavo le cose che sapevo gli piacevano e che vedevo nei suoi film. Sapeva che gii rifilavo un sacco di fesserie ma si divertiva molto. Poi un giorno mi stoppò: «Dante, sei quasi più bugiardo di me, questo mica si può fare». Sua moglie, Giulietta Masina, sosteneva che diventava rosso solo quando diceva la verità.
Che cos’è la scenografia?
La prima risposta che mi viene in mente è materializzare i sogni e le visioni dei registi.
Facciamo un gioco, io faccio i nomi dei registi e lei mi dice cosa ne pensa. Pasolini?
Con Pasolini ho girato otto film. Le sue inquadrature cominciano sempre con un grandangolo. Era come un Chaplin pittore: per Il Vangelo secondo Matteo, Mantegna; per I racconti di Canterbury, la pittura inglese e francese e Paolo Uccello; per Le mille e una notte, i miniaturisti arabi e persiani. Non amava gli interni, non gli piaceva lavorare in teatro. Ricostruivo fuori e facevo molti interventi per riportare l’ambiente all’epoca scelta. Girava con una raffinatissima semplicità, eliminando tutti gli orpelli.
Che cosa ricorda del 2 novembre 1975, il giorno in cui venne ucciso?
Seppi della sua morte da Petri, con il quale andai all’obitorio. Dopo mi chiamò Sergio Cittì che, d’accordo con l’avvocato Nino Marazzita, mi chiese di recarmi sul luogo del delitto a Ostia e di disegnare una pianta del posto e di prendere dei rilievi.
Per lei la pittura è fonte d’ispirazione?
Quella del Novecento. E soprattutto gli sbagli: commettere errori fa sì che te cose che uno ricostruisce siano più vere, la perfezione sa di falsità. Mai copiare la realtà, bisogna reinventarla per renderla più credibile e vitale.
Continuiamo con il gioco Fellini?
Un grande, il mio maestro e il mio mentore. Non c’è molto da aggiungere, anzi d sarebbe troppo: lui, Pasolini e Martin Scorsese sono i tre che mi hanno dato di più.
Franco Zeffirelli?
Con lui ho fatto solo Amleto. Siamo andati d’accordissimo, ma quando parlo dei registi con cui ho lavorato mi dimentico di fare il suo nome. Forse abbiamo personalità diverse.
Terry Gilliam?
Grazie a lui e alle Avventure del Barone di Münchausen mi hanno chiamato negli Stati Uniti. Una specie di Fellini del Minnesota, anche se tutti credono sia inglese, un genio pazzo e visionario e un buon amico. La scenografia di quel film è il tripudio della fantasia assoluta.
Tim Burton?
Quando mi comunicò che per Sweeney Todd voleva ricreare la Londra vittoriana al computer, lo convinsi a darmi un po’ dei soldi che avrebbe usato per la tecnologia per costruire una scenografia, per così dire, artigianale. Johnny Depp e Helena Bonham Carter vennero a ringraziarmi per questo.
Che cosa si aspettano gli attori da uno scenografo?
In certi casi l’ambiente è protagonista quanto gli attori. Gli attori americani hanno il problema di dover entrare totalmente nel film che interpretano e devono sentirsi al posto giusto. Daniel Day-Lewis mi scrisse dopo Gangs of New York: mi ringraziava di aver saputo riprodurre interi quartieri e un pezzo di porto con le navi. Il tutto a Cinecittà.
Come fa a convivere con computer e diavolerie tecnologiche?
L’importante è non esagerare con la tecnologia, soprattutto nel caso dei set digitali. Bisogna guardare avanti senza dimenticare quello che c’è indietro.
Jean-Jacques Annaud?
Con lui abbiamo ricostruito l’abbazia del Nome della rosa su una collina a Prima Porta a Roma. Quando finimmo di girare il film, ricevetti la telefonata di un ente per la conservazione dei beni culturali che mi chiedeva dove fosse quel convento perché non riuscivano a individuarlo. Risposi che se fossero andati in fretta sulla via Tiberina avrebbero potuto vederlo prima che lo smontassero.
È vero che, prima di farci otto film assieme, ha detto no due volte a Martin Scorsese?
Mi aveva chiamato per L’ultima tentazione di Cristo ma ero impegnato, poi mi ha ricontattato ma stavo preparando a Los Angeles un film che poi non si è neppure prodotto. Alla terza ho capito che se rifiutavo sarebbe stata l’ultima: abbiamo sfrato L’età dell’innocenza nel 1993.
E che tipo è Scorsese?
Mi da sempre una grande fiducia, per un paio di giorni mi fa vedere tantissimi film, quasi uno per ogni inquadratura, e mi spiega cosa vuole. Poi però mi lascia assoluta libertà. Martin è un’enciclopedia del cinema, sa tutto: per ideare le scenografie di Sbatter Island abbiamo visto assieme 12 film. Scorsese è un costruttore di immagini ineguagliabile.
È vero che l’ha convinto a girare a Roma grazie alla cucina italiana?
L’ho portato al ristorante a Roma. Avevo chiamato personalmente il cuoco per raccomandarmi che il pranzo fosse qualcosa d’indimenticabile. Mentre mangiavamo continuavo a ripetergli: «Senti che buono, ma dove puoi trovare qualcosa di simile?». Mi ha dato retta.
Lei dice di avere una «megalomania maximalista»...
Mi piace fare le cose grandi e le grandi cose, nel lavoro sono più che megalomane. Quando disegnai i bozzetti per le scenografie di Gangs of New York, erano talmente grandi che Scorsese dovette liberare due uffici per farceli stare. Ma nella vita direi che sono una persona molto basso profilo.
Il film più difficile da condurre in porto?
Le avventure del Barone di Münchausen: c’erano pochi soldi e molto da ricostruire, tanto che l’ho mandato avanti io per settimane dopo che il produttore era sparito. Ho mentito a tutti a Cinecittà, però ce l’abbiamo fatta.
Nel suo lavoro ha da sempre una complice, sua moglie Francesca Lo Schiavo.
Anche lei ha preso tre Oscar, in famiglia abbiamo sei statuette più un’altra cinquantina di premi. Sono trent’anni che lavoriamo assieme. Fu sua l’idea di fare coppia anche sul set.
Era diffidente?
Avevo i dubbi di tutti. Ma era l’unico modo per poter stare insieme e non separarci per lunghi periodi. Oggi i risultati parlano da soli, tutti i miei successi appartengono anche a lei.
I vostri figli vi hanno seguito?
Melissa no, si occupa di marketing. Edoardo per ora fa l’aiuto regista, ha studiato regia alla New York University.
Ha rimpianti?
Mi è sempre piaciuto Ridley Scott e una volta siamo andati vicini a girare un film insieme.
Hollywood le ha dato fama internazionale. Le piacerebbe tornare al cinema italiano?
Le garantisco che è difficile, e pure sbagliato, resistere alle opportunità offerte da registi come Scorsese e alle possibilità che mette a disposizione il cinema americano. Questo non vuoi dire che non ami il mio Paese.
E allora lavorerà ancora in Italia?
In Italia non si producono quasi più film, Cinecittà è sempre più vuota, come potrei lavorarci? Comunque sto facendo altre cose come il parco a tema Cinecittà World a Roma; a Torino, con l’architetto Aimaro Oreglia d’Isola, stiamo ristrutturando il Museo egizio. E poi c’è Expo 2015: devo «vestire» di significati il Cardo e il Decumano, i due viali principali dell’Expo, e trasformarli in un percorso che conquisti e coinvolga il visitatore. È come lavorare contemporaneamente a tanti kolossal.
Terrà una mostra personale al Moma di New York...
Si inaugura il 23 settembre: ci saranno bozzetti, scenografie, l’orologio di Hugo Cabret, la testa del cavallo del Barone di Münchausen, un pezzo di aereo di TheAviator. Ci sto pensando in questi giorni a cosa esporre, se passate da New York venite a vederla: magari vi piace.