Antonio Carlucci, l’Espresso 15/2/2013, 15 febbraio 2013
GUANTANAMO FOREVER
[Obama aveva promesso di chiuderlo. Invece ha chiuso l’ufficio che doveva cancellare la prigione per terroristi di al Qaeda. Dove i diritti umani continuano a essere violati[
Nell’aula riservata al pubblico, poche persone presenti tra cui alcuni parenti di vittime dell’attentato alle Torri Gemelle, lo schermo è improvvisamente diventato nero e l’audio è scomparso. Lo stesso è avvenuto nella sala riservata alla stampa a Fort Meade, in Maryland, una postazione creata dall’esercito degli Stati Uniti per consentire ai media di seguire i processi ai terroristi dell’11 settembre, e a Fort Hamilton, a Brooklyn, luogo destinato ai familiari di chi non è uscito vivo dall’inferno delle Twin Towers per seguire l’udienze che si stanno svolgendo a Camp Justice, a Guantanamo, base americana sull’isola di Cuba trasformata in super prigione per i sospetti di terrorismo qaedista.
Né il presidente della corte, il colonnello dell’esercito James Pohl, né il censore ufficiale addetto a coprire notizie sensibili che non possono uscire da una corte militare come è quella che opera a Guantanamo, si sono accorti che una manina misteriosa aveva tagliato audio e video per il pubblico nel pieno della udienza preliminare contro Khalid Sheik Mohammed, indicato come il regista dell’attentato del settembre 2001. In quel momento stava parlando David Nevin, avvocato civile (la maggior parte dei difensori degli accusati di terrorismo sono ufficiali delle forze armate americane), per chiedere alla corte di discutere la necessità di preservare tutti i luoghi segreti del mondo utilizzati dalla Cia per detenere, interrogare e torturare terroristi come Khaled. Secondo il legale, visto che il suo cliente rischia la pena di morte, è necessario verificare gli effetti che hanno avuto su di lui le torture prima di arrivare nell’isola prigione e dunque capirne il nesso con la pena da comminare. Sapere come erano quei luoghi e il tipo di ospitalità made in Cia può essere un punto a favore degli imputati, è stata la tesi dell’avvocato Nevin.
Tutto questo è avvenuto martedì 29 gennaio 2013, esattamente quattro anni e sette giorni dopo che il presidente Barack Obama, fresco di giuramento e di Casa Bianca (l’inauguration day fu il 20 gennaio 2009), firmò l’"Executive Order" con il quale annunciava che nel giro di un anno tutti i detenuti presenti a Guantanamo avrebbero lasciato la base navale per altre destinazioni. Significava mantenere una delle promesse più a effetto della campagna elettorale appena vinta: smantellare e poi chiudere una struttura che era contro il diritto americano e contro quello internazionale, oltre a violare la Convenzione di Ginevra, avendo creato la figura dei nemici combattenti ai quali tutto era negato, dai ricorsi contro la detenzione fino al processo, e perfino le visite della Croce Rossa internazionale. Come il ritiro dall’Iraq e la denuncia della tortura, la chiusura di Guantanamo era un gesto che metteva fine all’era Bush in modo aperto e dava alla nuova amministrazione la patente di rispetto del diritto. Obama sostenne con forza quella promessa, fino alla firma dell’executive order. Pur sapendo che gli americani favorevoli erano il 51 per cento, mentre il 47 per cento considerava necessario mantenere Guantanamo come era.
Quella promessa, pur ufficializzata in un ordine presidenziale, è però evaporata, sciolta come neve al sole dalla melina della burocrazia del Dipartimento della Giustizia e del Pentagono, dal lavoro dietro le quinte della Central Intelligence Agency e dalla opposizione aperta dei repubblicani e di una fetta dei democratici che hanno impedito la chiusura del centro di detenzione. Ci sono riusciti rifiutandosi di votare in Parlamento i finanziamenti per trasferire i detenuti di Guantanamo nelle prigioni ad alta sicurezza degli Stati Uniti, per allestire le strutture di detenzione e per finanziare i processi.
Di fronte all’offensiva dei contrari, la Casa Bianca ha difeso la promessa di chiudere Guantanamo in modo tiepido, debole e contraddittorio, anche perché c’era la necessità di privilegiare altri punti del programma a partire della riforma delle assicurazioni sanitarie. E lunedì 28 gennaio, è arrivata la conferma definitiva che Guantanamo continuerà a essere il penitenziario e il tribunale per i presunti terroristi di Al Qaeda (oggi ne sono presenti 166, mentre nel periodo di maggiore affollamento erano 779): David Fried, un diplomatico che aveva ricevuto l’incarico di inviato speciale per la chiusura di Guantanamo, non è stato rimpiazzato alla guida della commissione creata nel 2009 e il suo ruolo è passato nelle mani dei consiglieri legali del Dipartimento di Stato (il suo lavoro concreto era quello di convincere i diversi governi a riprendersi indietro i detenuti: 87 sono in attesa di essere rilasciati se saranno accolti in altre nazioni).
Era assolutamente chiaro che Obama aveva rinunciato a uno dei punti che qualificavano la sua presidenza dal punto di vista dei diritti umani alla fine di marzo del 2011, quando il ministro della Giustizia Eric H. Holder junior annunciò che il caso di Khalid Sheik Mohammed sarebbe ritornato sotto la competenze del Pentagono. Quella decisione era la dimostrazione più chiara di una serie di errori commessi nella gestione del progetto chiusura Guantanamo. Il perno dell’azione politica dell’amministrazione Obama fu dall’inizio quello di spostare la competenza giuridica dei processi ai militanti di Al Qaeda dalle corti militari a quelle civili. L’imputato più importante era proprio Khalid in quanto accusato di essere stato il coordinatore dell’azione contro le Torri Gemelle.
Per questa ragione fu annunciato con la fanfara che Khalid e altri quattro sarebbero stati trasferiti in territorio americano e che il processo si sarebbe tenuto a Manhattan, a poche centinaia di metri da dove sorgevano le Torri. Fu subito rivolta contro questa scelta, a cominciare dal sindaco Michael Bloomberg che si fece interprete del rifiuto popolare dicendo che era impensabile bloccare la città per mesi per un processo di terrorismo. Questa gaffe di tipo logistico fu cavalcata da chi in realtà non voleva la chiusura di Guantanamo e l’amministrazione Obama fu così naïve da non andare a cercare soluzioni diverse che potessero garantire il processo davanti a una corte civile, la sicurezza collettiva e la chiusura della prigione d’oltremare: per esempio, l’allestimento di un tribunale in un’ala di uno dei penitenziari di massima sicurezza che si trovano a poche decine di chilometri da New York, come Sing Sing.
Eppure, il presidente e il ministro della giustizia avevano dalla loro parte non solo una linea politica che aveva convinto la maggioranza degli americani, ma anche molte sentenze che avevano giudicato la prigione di Guantanamo fuori dalle regole del diritto fin da quando, nel 2002, i primi 20 detenuti erano arrivati nella base militare ed erano stati confinati in un’area super sorvegliata denominata X-Ray. A giugno del 2006, quando alla Casa Bianca c’era ancora George W Bush, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva deliberato con una maggioranza di 5 voti contro 3 che le commissioni militari incaricate di giudicare i detenuti per terrorismo violavano sia le leggi Usa sia la Convenzione di Ginevra. E due anni dopo, a giugno del 2008, di nuovo la Suprema Corte (5 a favore, 4 contrari) deliberò che i prigionieri di Guantanamo avevano il diritto di rivolgersi alle corti federali per contestare attraverso l’habeas corpus la loro detenzione.
Il tempo è trascorso inutilmente, le promesse sono state spazzate via da un realismo politico molto grossolano e Guantanamo continua a funzionare. Non esiste più Camp X-Ray, mangiato dalla salsedine e dal sole tropicale, mentre funziona Camp Justice per i detenuti considerati al livello più alto di pericolosità, un’area dove non possono neanche mettere piede gli avvocati difensori. E le corti militari, pudicamente ribattezzate commissioni, hanno ripreso il loro lavoro. Ma neanche questa istituzione può operare in autonomia, visto che una manina misteriosa riesce a censurare indisturbata le udienze. Il colonnello-presidente della corte James Pohl ha fatto una indagine per capire chi ha tagliato la trasmissione, ma si è poi rifiutato di rivelarlo in aula. In compenso ha emesso un’ordinanza che ordina al governo federale di eliminare questo filtro che solo poche persone sanno dove si trova e da chi è gestito. Un risultato microscopico rispetto alla grande promessa di Obama di ripristinare per intero il diritto.