Gigi Riva, l’Espresso 15/2/2013, 15 febbraio 2013
Sembra Cina, ma è TURCHIA [Dieci anni di crescita impetuosa. E ora un piano per attirare le aziende
Sembra Cina, ma è TURCHIA [Dieci anni di crescita impetuosa. E ora un piano per attirare le aziende. Così il Paese vuole entrare nel club delle dieci potenze mondiali] Se nella società dell’immagine lo sport è la continuazione della politica e dell’economia con altri mezzi, allora può essere preso a paradigma del poderoso progresso della Turchia. Nel mega store del Galatasaray, colori giallorossi come la Roma, aperto sulla Istiklal Caddesi, la via dello shopping di Istanbul, vanno a ruba le maglie di Wesley Sneijder, il campione dall’ingaggio che l’Inter dei Moratti non si poteva più permettere, ma Unal Aysal, il presidente con una fortuna stimata da "Forbes" in 800 milioni di euro, sì. L’Italia non è un competitor terribile di questi tempi, d’accordo, ma accanto alla divisa dell’olandese c’è quella dell’altro nuovo acquisto Didier Drogba, strappato allo Shanghai in un’ideale sfida tra Paesi ormai emersi in cui la Cina alle porte di casa nostra ha sconfitto la Cina propriamente detta. Il ramo basket del Galatasaray è stato autore, nei giorni scorsi, di un altro scippo clamoroso a Cantù, fiore della nostra pallacanestro, prendendosi il miglior giocatore, Manuchar Markoishvili, mentre qualche mese fa l’allenatore della nazionale Simone Pianigiani, già coach anche di Siena ridimensionata nel budget dai guai del Monte dei Paschi, si è seduto sulla panchina del Fenerbahce. Come già la Russia, il Brasile e la Cina, tre lettere dell’acronimo Bric che andrebbe aggiornato, la Turchia vuole adesso anche le sue Olimpiadi e Istanbul parte favorita nella scelta che sarà fatta il 7 settembre per quelle del 2020. I Giochi sarebbero l’ultimo colpo di reni per completare il "grande progetto" e raggiungere l’obiettivo che Recep Tayyip Erdogan, il premier, ha definito «Vision 2023»: entrare, nell’anno del centenario della fondazione della Repubblica, nel club delle dieci potenze economiche mondiali, dove il decimo posto è la soglia minima, ché non si pongono limiti alla provvidenza di Allah e siccome l’ambizione di un Paese in tumultuosa crescita è un additivo formidabile, già si strizza l’occhio all’ottavo posto (oggi occupa il sedicesimo). Ankara è la capitale, ma Istanbul, di cui Erdogan è stato sindaco negli anni Novanta, è il motore che deve far marciare a grande velocità la macchina. E come i presidenti francesi che vogliono lasciare il loro contributo alla grandeur, il premier vuole essere ricordato per le opere faraoniche che accompagneranno una rinascita già definita neo-ottomana. Solo due anni fa aveva bollato come «magnifica e folle» l’idea di un canale artificiale tra il mar di Marmara e il mar Nero, lungo 45 chilometri, largo 150 metri e profondo 25 per dirottare il traffico di petroliere, tanker e cargo (oggi sul Bosforo in mezzo alla metropoli passano 143 milioni di tonnellate di gas e petrolio e tre milioni di tonnellate di prodotti chimici all’anno) per restituire ai cittadini uno specchio d’acqua dove fare gli sport acquatici. Adesso siamo in vista delle gare d’appalto: «Sarà il canale del secolo, senza paragoni con Panama o Suez». Poi il terzo aeroporto per cento milioni di passeggeri e la trasformazione di piazza Taksim, il centro, mentre un terzo delle case, fatiscenti, saranno demolite e ricostruite. Ma quel che sta più a cuore, al leader di un partito che si ispira ai valori islamici, è la monumentale moschea sulla collina di Camlica, una delle poche aree verdi rimaste, 15 mila metri quadrati e un enorme parcheggio per i fedeli, visibile da ogni angolo e coi minareti più alti del mondo. E questo dopo che è stata appena inaugurata, il luglio scorso, un’altra moschea intitolata all’architetto Mimar Sinan, autore di tutte le migliori costruzioni di epoca ottomana, nella città che conta già il maggior numero di edifici sacri di quel tipo del pianeta. Una nuova legge, voluta dal vice primo ministro Bekir Bozdag, astro nascente del partito, teologo per formazione, vuole che ci siano luoghi di culto in università, centri commerciali e teatri, in un impeto religioso che la fetta laica della popolazione fatica a digerire, visto che la libertà di culto spesso sconfina in un’islamizzazione strisciante e talvolta forzata. Nei nuovi programmi scolastici sono stati inseriti corsi aggiuntivi sulla vita del profeta Maometto e sul Corano, mentre in un numero sempre maggiore di scuole si separano i maschi dalle femmine. Quanto all’alcol, secondo uno studio dell’università Bahçesehit di Istanbul i consumatori abituali sono un quarto dei turchi contro un terzo di solo dieci anni fa. In alcuni villaggi dell’Anatolia profonda è ormai impossibile avere una birra e in alcuni quartieri asiatici persino di Istanbul si applica la Sharia. Non passa giorno senza che il richiamo incombente della religione metta a rischio conquiste che sembravano acquisite nella Turchia laica del suo fondatore Ataturk. Parlamentari dell’Akp di Erdogan (partito per la giustizia e lo sviluppo) chiedono norme più restrittive sull’aborto. Fatma Sahin, l’unica donna ministro, per la Famiglia e le politiche sociali, vorrebbe che anche le deputate e le dipendenti pubbliche possano portare il velo (ora è vietato). Persino le nuove divise delle hostess della Turkish Airlines hanno suscitato clamore perché "troppo caste", con gonne ampiamente sotto il ginocchio e stile ottomano anche nei tessuti. Non va meglio per la libertà di stampa se Reporters sans frontières denuncia, stando solo agli ultimi mesi, 72 arresti di cronisti a dicembre e 11 a gennaio, la televisione è stata multata per una puntata dei Simpson giudicata «blasfema» e i vignettisti sono sotto costante rischio-prigione se toccano argomenti scomodi come sesso, alcol e Islam. Gli indubbi successi economici, che trascinano l’orgoglio nazionale, permettono tuttavia a Erdogan di resistere alle critiche e di mantenere il consenso. Il suo obiettivo, per il 2014, è quello di occupare la poltrona di capo dello Stato, dove ora sta seduto l’amico Abdullah Gul (peraltro ancora più alto di lui nei sondaggi), beninteso dopo aver cambiato la Costituzione e aver dato più poteri al presidente. Vuole completare il lavoro, sia nella rivoluzione dei costumi in senso islamico sia nell’economia: le due facce della sua politica. Nei dieci anni in cui è al potere, il reddito medio pro capite è passato da 3.500 a 10.500 dollari. Il tasso di disoccupazione è sceso al 9 per cento dopo aver toccato il 14 nel 2009 l’anno in cui si è sentita più forte la crisi globale. Nello stesso 2009 c’è stato l’unico segno meno del Pil (4,7). Poi l’impetuosa risalita: più 9,2 nel 2010, più 8,5 nel 2011 e più 3,2 nel 2012. La produzione industriale ha fatto segnare l’anno scorso un incremento di oltre il 13 per cento: ritmi cinesi. Le note negative arrivano dall’inflazione (8,9 per cento) e dal disavanzo nella bilancia commerciale: la Turchia importa assai più di quanto riesce ad esportare (217 miliardi di dollari contro 140). Soprattutto ha bisogno di materie prime di cui è priva. E non a caso ha scelto di essere un hub energetico visto che dal suo territorio passeranno tutti gli oleodotti che porteranno gas e petrolio dai giacimenti dell’Est (Russia ed ex Repubbliche sovietiche) ai rubinetti dell’Ovest. La quota dei Paesi dell’Ue nell’interscambio turco è scesa dal 46 al 40 per cento: frutto, oltre che della crisi nella Vecchia Europa, anche della scelta di privilegiare nuovi mercati come quello africano dove Ankara conta 34 ambasciate, due terzi delle quali aperte nell’arco degli ultimi tre anni. E conseguenza del troppo tergiversare di Bruxelles sull’ingresso della Turchia nell’Unione europea, annosa questione che si trascina da troppo tempo senza sostanziali progressi e che ha indotto Erdogan a lanciare una sorta di ultimatum: «Diteci se ci volete o meno, siamo stanchi di aspettare». Minacciando anche l’adesione, in alternativa, al patto di Shanghai con Russia e Cina. Il disamore verso l’Europa si riflette nei sondaggi: la volevano nel 2004 più del 70 per cento, oggi meno della metà. L’Italia è il quarto partner commerciale e sono 970 le aziende italiane che hanno delocalizzato in Turchia (quasi tutte nell’area di Istanbul, ultima arrivata la Ferrero). Si prevede ne arriveranno molte altre dopo l’ultima iniziativa del governo che, per sviluppare le zone arretrate dell’Anatolia, ha diviso il Paese in sei aree. Più sono disagiate e più ci sono agevolazioni per gli imprenditori, incentivi fiscali e tassazione al 16 per cento. La Cina alle porte di casa è troppo piena di minareti, ma vuole continuare a correre.