Emanuela Audisio, la Repubblica 15/2/2013, 15 febbraio 2013
LA CADUTA DELL’EROE
IMEDICI a un anno gli hanno amputato il corpo, lui a 27 si è amputato il futuro. Da Blade Runner a Blade Killer. Di Oscar potevi dire tutto tranne che avesse una natura violenta o che si lasciasse andare all’istinto.
AL CONTRARIO ti sorprendeva con il sorriso, con la calma, con la mano sulla spalla. Pure se la vita con lui era stata carogna, se lo sport spesso gli aveva detto no, aveva reagito con equilibrio. Non con la rabbia assassina di chi urla il suo dolore. Se Mike Tyson a Las Vegas ti accoglieva a casa con l’aria del leone che deve essere mansueto, ma che non vede l’ora di staccarti la testa, Oscar nella sua nuova villa a due piani ti faceva entrare in cucina, girare attorno ai fornelli, e magari si metteva a tagliare verdure. Non era un posto malfamato, anzi molto residenziale e protetto: con guardia e posto di blocco. Dovevi firmare in entrata e in uscita. In Sudafrica sulla sicurezza non si scherza: le casalinghe hanno i dobermann e le mamme ai semafori rossi tirano
fuori i manganelli.
Casa di Oscar non pareva quella di un killer. C’erano i suoi amici che restavano spesso a dormire, perché lo spazio era tanto, quattrocento metri quadrati, due piani, salotto con divano lungo, poi i suoi cani, Enzo e Silo, e c’era la sensazione di avere a che fare con un ragazzo che non avrebbe mai calpestato le formiche. Ma che non si tirava indietro davanti a una prova fisica. Oscar t’invitava: andiamo a fare una nuotata in piscina? Si toglieva le gambe (protesi) e si buttava. Poi ti domandava: che fai stasera? andiamo a ballare? Ti portava in discoteca e ti faceva fare anche bella figura. Non beveva, soprattutto se si stava allenando, anche perché aveva tendenza ad ingrassare. Attorno aveva sempre nuove ragazze, negli ultimi tempi molte modelle. Sapeva sedurti, era affabile. Se t’incontrava all’università di Pretoria, non metteva mai la sua macchina nel parcheggio riservato all’handicap. Educato, se ti avvicinavi al suo tavolo al ristorante, si alzava, ti dava la mano, ti chiedeva come stavi, quando la maggior parte dei campioni nemmeno ti ritiene degno di un saluto. Per questo era diventato un simbolo. Per la sua disponibilità (pure troppa). Correva e accorreva dove c’era da aiutare gli altri, dove magari la sua presenza portava luce a attenzione a chi vive ai margini.
Non disdegnava contratti e pubblicità. Non faceva il puro, né il santo, andava dove gli garantivano ospitalità e qualità, spesso era in Italia. Non si risparmiava e diceva: «Se non sai sorridere a uno sconosciuto, anche se hai vinto tutto, non vali niente». Non se la tirava con la sua disgrazia tanto che quando aveva cominciato a frequentare una palestra di fitness nemmeno l’aveva detto al coach Jannie Brooks che era un doppio amputato. «Veniva ad allenarsi con la tuta, faceva le stesse cose degli altri, non cercava scuse per saltare gli esercizi. Solo una volta quando lo esortai ad andare più giù sulle gambe, lui mi rispose che non ce la faceva e mi fece vedere le protesi». A San Pietroburgo d’inverno con più di mezzo metro di neve Oscar in jeans giocava con i ragazzi a tirarsi palline e quelli che non lo conoscevano gli chiedevano: mai non hai freddo alle gambe? Se la gente accanto a lui iniziava ad alzare il tono della voce, con fare pietoso, lui scherzava: «Non sono sordo, solo amputato ». Davanti alle proibizioni: tu questo non lo puoi fare, non si era messo a inveire contro la federazione internazionale, ma aveva cercato un modo legale e dialettico per far cambiare idea ai suoi oppositori. E anche quando ai mondiali di Daegu i dirigenti sudafricani lo avevano escluso dalla finale della staffetta 4x400, lui si era detto «dispiaciuto e rattristato». Non era stato lì a elencare sacrifici e privazioni, né aveva agitato i moncherini. Sapeva incassare i no dallo sport. Conosceva le mancanze. Era stato costretto a gattonare per molto tempo. E a 15 anni aveva perso anche la mamma perché all’ospedale non sapevano di una sua allergia (choc anafilattico). Quella madre che gli aveva consigliato di non piangere e che ogni mattina diceva a Oscar di mettersi le gambe e al fratello le scarpe.
A Londra 2012 il più lungo applauso dello stadio era stato per lui. Perché la sua corsa e rincorsa l’avevano portato fino a lì: a giocare con il mondo e non nel retrobottega. Oscar Pistorius a nome di tutti i disabili non chiedeva sconti, solo le stesse possibilità degli altri. Gli davi fiducia, era solare, non pensavi avesse dentro una bestia da domare. Con Monzon, Tyson, O. J. Simpson avvertivi una prepotenza, un codice sbagliato di virilità. Avevano gesti da macho: Tyson davanti a tutti si tirò giù le mutande, per far vedere il contenuto al suo avversario. E se la moto non partiva lui la prendeva a calci. Monzon ti guardava con il ghigno dell’indio che ha appena scuoiato la preda, O. J. Simpson con l’arroganza del superatleta che ritiene che tutto gli spetti. Oscar no, non aveva modi da assassino. Come tutti i sudafricani era andato a caccia e aveva armi, ma non ostentava nessuna voglia di grilletto. Vederlo uscire oggi a capo chino, con il visto nascosto dal cappuccio della felpa, come un presunto colpevole, fa male. Ti chiedi: ma io chi ho conosciuto? chi ho frequentato? con chi ho passeggiato a Pretoria? Quattro colpi di pistola sono un po’ troppi come legittima difesa. Soprattutto perché prima è stato portato via il cadavere di una ragazza di 30 anni, che si era anche spesa contro la violenza alle donne. Nessuno sapeva di comportamenti scorretti di Oscar, di eccessiva gelosia, anche se ora la polizia dice che c’erano stati altri precedenti, altre liti finite male, due anni fa la rissa con una giovane (ubriaca) era stata catalogata come incidente.
È uno sport che ormai si decapita da sé. Con simboli spesso marci: fuori belli, dentro brutti. Con campioni che riescono a fare del bene anche dando il cattivo esempio. Lance Armstrong, 7 Tour vinti con il doping, un imbroglione in un mondo del ciclismo ad alta densità di ladri. Ma uno strepitoso donatore di soldi e di speranze ai malati di tumore. Armstrong ha barato nelle sport, ma ha fatto una cosa giusta per la lotta al cancro. Oscar Pistorius ha aperto i cancelli del cielo agli storpi, combattendo per il rispetto delle regole, è per «Time» tra le cento persone più influenti del mondo, ma oggi è accusato di aver freddato la fidanzata. Chissà forse il disamore è molto peggio del no che ti può dire lo sport. E genera mostri. Quello che rende tutto così amaro è che il ragazzo, amputato da bambino, il portabandiera del nuovo Sudafrica, abbia privato una ragazza della sua vita e abbia firmato una doppia condanna. Né più atleta, né più simbolo. Solo un Otello dalla pelle diversa.