Giovanni Valentini, la Repubblica 15/2/2013, 15 febbraio 2013
L’OMBRA DEL CAVALIERE SU LA7 IN VENDITA
È DIVENTATA ormai una corsa contro il tempo la controversa operazione finanziaria per vendere La7. E anche contro le prossime elezioni e la prospettiva di una svolta politica. Ma, soprattutto, contro il pluralismo dell’informazione.
ECONTRO la libera concorrenza, come avviene purtroppo in Italia da trent’anni a questa parte, sotto la dominazione del regime televisivo. Su richiesta di un quinto dei consiglieri, è stato convocato in tutta fretta per lunedì prossimo, 18 febbraio, il Cda di Telecom che controlla la rete tv, rilanciata nelle ultime stagioni dall’arrivo di “anchorman” come Mentana e Santoro o di “anchorwoman” come Lilli Gruber. Il “sinedrio” della capogruppo dovrà decidere se vendere La 7, a quale prezzo ed eventualmente a chi. Ma la partita s’incrocia inevitabilmente con gli interessi economici e politici di alcuni “poteri forti”, dietro i quali si staglia l’ombra inconfondibile di Berlusconi e Mediaset, suo colosso di famiglia.
In realtà, l’oggetto della complessa e oscura trattativa è Telecom Italia Media, la scatola finanziaria che, oltre all’emittente tv, detiene anche le infrastrutture tecniche per trasmettere: tre multiplex, cioè “fasci” di frequenze digitali, in concessione dallo Stato per vent’anni. Una risorsa demaniale scarsa, un bene pubblico che appartiene a tutti i cittadini. E sono proprio questi “mux”, come vengono chiamati in gergo, il pezzo pregiato in palio. Tanto più che, in base a una direttiva europea sulla cosiddetta “neutralità tecnologica”, a partire dal 2016 si potrà chiedere il cambio della loro destinazione d’uso e quindi utilizzarli anche per altre funzioni, dalla telefonia mobile alla banda larga o ultralarga.
Si tratta, dunque, di due cespiti distinti che hanno ovviamente un valore diverso. La 7, nonostante che sia stata rilanciata dalla recente “campagna acquisti” e anzi proprio per questo, ha accumulato finora circa 250 milioni di debiti e prevede di perderne ancora un centinaio nel 2013, con un plotone di circa 500 dipendenti a carico. Tutto ciò a fronte di 175 milioni di raccolta pubblicitaria all’anno, pari a una quota del 4,49% (dati Nielsen), per un’audience di 419 mila telespettatori e uno share del 3,72 nel giorno medio, valori che salgono a 1,36 milioni e al 4,84% in prima serata (elaborazioni Studio Frasi su dati Auditel).
Con la loro capacità trasmissiva, invece, i tre “mux” vengono sfruttati “in affitto” anche da una serie di altri operatori, da Discovery a Mtv, da Sport Italia al Gruppo De Agostini. Valgono almeno 120 milioni l’uno. Producono un rispettabile fatturato di 75 milioni all’anno e, ammortamenti a parte, un ragguardevole Mol (margine operativo lordo) di 43. Un bell’affare per Telecom, insomma, che invece sembra impaziente di sbarazzarsene.
Per questo “pacchetto”, a cui si sono dichiarati interessati anche altri pretendenti come Diego Della Valle ed Europa 7 di Francesco Di Stefano, al momento sul tavolo del Cda Telecom si confrontano due offerte d’acquisto. Una presentata da Cairo Communication, l’editore torinese già assistente di Berlusconi e pubblicitario di scuola Publitalia. L’altra del fondo Clessidra che fa capo all’ex amministratore di Fininvest, Claudio Sposito. Anche se entrambi provengono per così dire dalla stessa “scuderia”, le loro proposte appaiono tecnicamente differenziate e sembrano fatte apposta per restringere l’alternativa fra l’una o l’altra, in modo da neutralizzare la concorrenza a Mediaset.
In considerazione dei debiti accumulati finora da TI Media (260 milioni, principalmente per La 7) e delle perdite previste di altri 100 per quest’anno, la proposta di Cairo per la sola rete televisiva contempla addirittura una consistente “dote” che la parte venditrice dovrebbe versare all’acquirente, oltre ad accollarsi il passivo. Un’operazione che alla società guidata da Franco Bernabè costerebbe molto cara, ma che avrebbe almeno il vantaggio di alleggerirla di un’attività in perdita e di preservare invece le infrastrutture di trasmissione.
Al contrario, l’offerta (si fa per dire) di Clessidra si potrebbe riassumere così, in termini da supermercato: mi regali i tre “mux” e mi prendo La 7. Il fondo di Sposito, di cui la famiglia Berlusconi è il principale o uno dei principali investitori, propone l’equivalente di un obolo e chiede di essere sgravato dai debiti. In sostanza, il valore negativo de La 7 verrebbe largamente coperto da quello dei multiplex.
Una volta conclusa eventualmente l’operazione, in ossequio alla separazione fra operatori di rete e fornitori di contenuti prevista dalla legge, Clessidra gestirebbe il ricco affare dei “mux” e affiderebbe l’emittente tv a Marco Bassetti, già consulente del Biscione; marito e socio di Stefania Craxi; ex titolare di Endemol, una delle maggiori società di produzioni tv, fornitrice di Mediaset. Mani più che sicure, insomma. Ammesso poi che, in futuro, Bassetti non incontri troppe difficoltà, non abbassi il tono e il livello della rete o non decida addirittura di metterla in liquidazione.
Qui, però, torna in gioco lo spettro del conflitto di interessi. Fra i consiglieri di amministrazione della Telecom, chiamati a valutare le due proposte, si trova Gaetano Micciché in rappresentanza di Banca Intesa, advisor finanziario del Fondo Clessidra. Un altro componente è Renato Pagliaro, espresso da Mediobanca, partecipata da Fininvest con Ennio Doris (Mediolanum) e Piersilvio Berlusconi nel Cda. Poi i due consiglieri indicati da Generali, su cui Mediobanca ha un peso determinante: Gabriele Galateri e Tarak Ben Ammar, quest’ultimo produttore cinematografico tunisino, ex consigliere di Mediaset e socio di Berlusconi che possiede, attraverso una controllata Fininvest, il 22% della sua “Quinta Communications”. E infine, Elio Catania, insediato dal Pdl al vertice delle aziende municiplizzate di Milano.
Su questo assortito quintetto, favorevole alla cessione de La 7 al Fondo Clessidra, incombe il rischio — possibile ed eventuale — di un’azione di responsabilità da parte degli altri soci e dei piccoli azionisti. Per disfarsi di una rete televisiva in perdita, è proprio necessario vendere sotto costo un “asset” di pregio come i tre multiplex che, oltretutto, appartengono al “core business” di Telecom e possono valere ancor più in futuro? E se poi l’Antitrust, in forza delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale nel 1994 (bocciatura della legge Mammì) e nel 2002 (limite di due reti a testa) contro la concentrazione tv, dovesse stabilire che l’affitto pluriennale delle frequenze da parte di uno stesso soggetto (Mediaset) equivale di fatto a un controllo? Sono interrogativi pesanti che al prossimo Cda della Telecom dovrebbero almeno sconsigliare questa fretta sospetta di decidere.