Maurizio Chierici, il Fatto Quotidiano 14/2/2013, 14 febbraio 2013
SALVIAMO VIA SOLFERINO
Spero che i giornalisti del Corriere riescano a difendere il palazzo di via Solferino: gli editori lo mettono sul mercato come un casa popolare. Largo tanto, lungo tanto. Trasferire uno dei simboli di Milano nelle periferie nebbiose della Rizzoli è come trapiantare alla Bovisa la Madonnina che illumina il Duomo. Come comunicatori gli editori non sono granché. Lanciano il sasso mentre stanno cercando chi compra, non importa lo scompiglio che inquieta la città. Corriere che diventerà albergo o grande magazzino, trasformazione che immalinconirà nel grigiore di un posto qualsiasi le abitudini sociali e culturali del cuore di Milano. Cambierà la vita di un quartiere che gli è cresciuto attorno: studi di fotografi, le stanze della moda, caffè, ristoranti, librerie, antiquari che si allungano fino a Brera dove comincia la bohème. Cambieranno le frequentazioni: gente di passaggio. Non più curiosi con la voglia di mescolarsi alle chiacchiere di artisti e intellettuali da sempre raccolti attorno alla macchina delle notizie più famosa d’Italia. Pier Paolo Pasolini portava i suoi “scritti corsari “ che aggredivano i palazzi del potere nel palazzo del giornale dove Piero Ottone (direttore fino all’arrivo della P2) si illudeva di dialogare con lettori lontani dalla volgarità del populismo. Illusione strapazzata.
Il Corriere della Sera abita in via Solferino dal 1904, sei anni dopo i cannoni di Bava Beccaris. Per protesta Luigi Albertini si dimette dal giornale che stava per lasciare le poche stanze della redazione, proprietà famiglia Crespi, per la sede che gli architetti e Luca Beltrami e Luca Repossi costruirono ispirandosi al liberty del Time.
Albertini ritorna e conferma l’ispirazione: il suo Corriere propone la stessa eleganza sussurrata fino all’arrivo del fascismo. Sui quei tavoli è stata scritta la storia d’Italia, nel bene e nel male. Appesi alle scale che introducono alle redazioni, i ritratti di collaboratori e inviati speciali: Verga, Grazia Deledda, Croce, Pirandello, D’Annunzio, Malaparte, Montale, Umberto Eco, Sciascia, Biagi, Montanelli, Guido Piovene, Dino Buzzati, e narratori e testimoni.
Prima che il terrorismo chiudesse le porte si passava per l’aperitivo che il vicedirettore Barbiellini Amidei teneva in fresco. Gli artisti si allungavano da Brera fino alla porta di Giovanni Testori. Giornale aperto, un salotto per tutti. Montale si disperava sul marciapiede per il taxi sempre in ritardo. Quando la tipografia non era scappata a Gorgonzola e le rotative giravano oltre il cortile, il Corriere era un paese, 1.500 persone nel cuore di Milano. Via vai che non finiva nella notte.
I passi dei corridoi erano anche altri: politici, imprenditori. Negli anni P2 arrivava Silvio Berlusconi con in tasca gli articoli concordati con Gelli. La pressione dei poteri ombra e dei poteri politici diventava soffocante. Ha ragione Vittorio Feltri quando attribuisce la crisi che minaccia lo sfratto a imprenditori legati a partiti per interessi di bottega. Lui è informato come nessuno. Negli anni del Craxi presidente scatenato contro Alberto Cavallari al quale Per-tini aveva affidato il giornale da ripulire dall’eredità P2; giornale che apriva le porte a ogni partito dell’arco costituzionale, compreso il Pci di Berlinguer, Feltri era portavoce della rivolta craxiana nelle assemblee che infuocavano la redazione.
I GIORNALISTI del Corriere resistono perché sono giornalisti normali. Hanno incrociato le braccia quando negli anni di Cavallari mani socialiste ed estremiste sventolavano bandiere rosse sul tetto del palazzo oggi in liquidazione. “Non lavoriamo sotto nessuna bandiera”. E i manifesti delle maggioranze silenziose invitavano i lettori a boicottare il giornale. Sfilate, urla e sassi, sotto le finestre. Insomma, palazzo di odi e amori, di equilibri e soprattutto desideri di chi voleva esserne padrone. Adesso è in vendita, chi ha i soldi prende la chiave. E Milano perde uno dei monumenti che i turisti visitano con attese pazienti. Le agenzie consigliano di attraversare almeno una volta le sue stanze per capire la storia di Milano e dell’Italia. Spiegazioni nel salone Albertini appena la riunione di redazione libera il tavolone con lampade che abbassano la luce sui computer. Non è la stessa luce di un secolo fa, ma il piacere della scoperta, l’improvvisa familiarità coi protagonisti appesi alle pareti compiacciono i diari internet di chi vuol “toccare” il giornale che apre al mattino. Tutto finito? Speriamo che i giornalisti vengano ascoltati.