Salvatore Bragantini, Corriere della Sera 14/02/2013, 14 febbraio 2013
LA METAMORFOSI DELLE POPOLARI E LE INFORMAZIONI AL MERCATO
Perché il mercato dei capitali torni a svolgere la propria funzione, di efficace distributore di risorse finanziarie scarse, bisogna che esso riceva tutte le informazioni di cui ha bisogno. Come spesso accade, qui si contrappongono due esigenze, una delle quali nettamente sovrasta l’altra: la legittima aspirazione al guadagno degli operatori — che preferirebbero un’informazione rarefatta — deve rispettare le leggi, cui è affidata la tutela dell’interesse generale.
Tali considerazioni si attagliano alle notizie di questi giorni, dalle quali è emerso che la Banca Popolare di Milano (Bpm), oggi banca popolare cooperativa in cui vige il voto capitario (si vota per testa, non per numero di azioni), diventerà società per azioni, anche se pare che lo farà con interessanti modalità innovative, volte ad ammorbidire le resistenze alla metamorfosi. Sarà una rivoluzione per la Bpm, in passato dominata dai dipendenti soci organizzati in forme abnormi basate su patti non comunicati e pertanto illegali, tanto da aver portato la Banca d’Italia ad uno scontro sulla rimozione dei vertici operativi e la Consob a comminare aspre sanzioni.
È ben nota la querelle sulle grandi banche rette dal voto capitario: ci si chiede se esse possano essere quotate sui mercati dei capitali, che sono retti invece dal principio che ogni azione ha diritto a un voto. Il sistema delle Popolari, forte e ben radicato sul territorio, ha sempre respinto gli argomenti di chi, dalla Banca d’Italia in giù, chiedeva, se non di abolire il voto capitario, almeno di temperarne gli eccessi, che spesso portano all’autoreferenzialità dei vertici e alla loro conseguente inamovibilità. Ci sono presidenti «popolari» che erano già lì quando (agosto 1971) il presidente Usa Richard Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro in oro.
Dal morbo dell’inamovibilità non era però afflitta la Bpm, una banca che ogni tre anni si mangiava un presidente; per salire al potere bisognava ingraziarsi la potente associazione degli «Amici» di Bpm, solo per essere poi scalzato da un altro che aveva loro fatto promesse ancor più accattivanti.
In questo scenario, sotto la pressione della Banca d’Italia per un maxi aumento di capitale e per il totale azzeramento dei vertici (implicati in vicende di spessore criminale), partì nell’autunno del 2011 una lotta fra due fondi di private equity — Investindustrial e Sator — per il controllo degli organi decisori della Bpm, che nel frattempo s’era data il sistema duale di governo, basato su un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione. Alla fine vinse Investindustrial, che dopo l’aumento di capitale ha il controllo effettivo dei due organi sociali, oggi con l’8,6% del capitale di Bpm; un importo di poco inferiore (l’8,2%) fa capo ad altro fondo, Capital Investment Trust.
Chi vedeva la vicenda da fuori non poteva che domandarsi, con chi scrive («Bpm, il non detto nella governance tra "Amici" e Bonomi», Corriere, 3 novembre 2011), cosa mai inducesse fondi di private equity a investire somme ingenti in società dove vige il voto capitario: «Cosa garantisce però Investindustrial... che al termine del triennio la sua squadra sarà confermata nel consiglio di gestione? Se ciò non avvenisse i 150 o 200 milioni che avrà investito in Bpm sarebbero ad altissimo rischio; un rischio che nessun gestore avveduto vorrebbe correre... È quindi ovvio chiedere al vincitore — è stata Investindustrial ma poteva essere Sator — cosa giustifica questo rischio». Ci si domandava quindi se ci fossero accordi non comunicati al mercato, concludendo: «C’è qualcosa di importante che ignoriamo? Parrebbe di sì, ma non si sa né cos’è, né perché la ignoriamo: soprattutto perché la ignorano i sottoscrittori dell’aumento di capitale in atto, molti dei quali non si sono ancora riavuti dal simpatico prestito obbligazionario convertendo, che gli è stato fatto ingurgitare a forza, come accade alle oche di Strasburgo».
I successivi sviluppi potevano far pensare che tali sospetti fossero eccessivi e quindi nulla sarebbe avvenuto: a quanto pare, infatti, il risanamento di Bpm procede bene e ciò dovrebbe rassicurare i fondi detentori del 17% circa della banca sulla conferma del vertice. Inoltre il vento non spira a favore dei liberisti, tanto meno essi sono ben visti nel campo bancario. In questi tempi di ferro non c’è in giro nessuno che spinga per trasformare in società per azioni le grandi banche quotate. Ciò rende tanto più singolare questo esito, la trasformazione di Bpm in Spa. L’arcano è difficilmente spiegabile, a meno che alcuni dei vari attori coinvolti in questa vicenda — Bpm, sindacati, organizzatori e principali sottoscrittori dell’aumento di capitale, autorità di vigilanza — fossero al corrente, o addirittura parte, di accordi nascosti agli altri. L’aver intravisto a suo tempo il rischio che ciò avvenisse induce ora a riproporre, con maggior forza, la domanda.
Salvatore Bragantini