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 2013  febbraio 14 Giovedì calendario

PERCHE’ LO SCRITTORE PROCESSA LA GIUSTIZIA - C’è

qualcosa che trascende la verità giudiziaria e che la letteratura può cogliere. È la zona d’ombra della comprensione umana, emotiva, sentimentale, poetica. E questo accade proprio perché, come dice Claudio Magris, la letteratura non ha l’ambizione di giudicare: tanto meno secondo le formalizzazioni del diritto. Anche quando mette in scena le dinamiche processuali, si avventura piuttosto verso territori oscuri che l’iter giudiziario non può conoscere. Mettere insieme i due universi, dunque, può risultare produttivo per i giuristi e per i letterati: ed è ciò che si propone un corposo volume uscito da poco, Giustizia e letteratura, a cura di Gabrio Forte, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti (Vita e Pensiero, pp. 680, 35), che raccoglie numerosi interventi nati per un ciclo di seminari interdisciplinari tenuti da giuristi e critici nell’Università Cattolica di Milano. È un lungo percorso che tocca opere letterarie delle diverse epoche, coinvolgendo i temi della colpa e dell’innocenza, del perdono e del pregiudizio, della pena, del castigo, della vendetta, dell’onore e dell’offesa… Temi cruciali dell’esistenza individuale e collettiva che la letteratura frequenta abitualmente sin dalle origini antiche. Ecco qualche esempio.
Opposte e speculari sono, secondo Arturo Cattaneo, le storie del Mercante di Venezia, che racconta del patto non rispettato tra l’usuraio ebreo e il mercante Antonio, e di Otello, dramma della gelosia e soprattutto dell’amore impossibile tra un uomo di colore e una donna bianca. Ambedue fondate sul pregiudizio razziale. Continuo e strisciante quello di cui è vittima Shylock. Improvviso e deflagrante quello che colpisce Otello e che si esplica nella notte del processo penale. Inizialmente dalla parte della ragione (il prestito non gli è stato restituito), Shylock uscirà umiliato dal processo, depauperato dei suoi beni, finiti in mani cristiane, in nome della «misericordia» e a scorno della «giustizia». Usando l’allitterazione tra justice e Jew come una clava, Shakespeare demolisce l’edificio della giustizia. Per evitare la morte, Shylock sarà costretto a chiedere in ginocchio la misericordia che avrebbe dovuto offrire spontaneamente: «Vi prego, concedetemi il permesso di andarmene», implorerà. Il suo processo presenta, secondo Cattaneo, «una triste analogia, se non una prefigurazione, dei processi, formali o sommari, agli ebrei sotto il nazismo e il fascismo, o nella Russia zarista e stalinista». L’acquiescenza dell’usuraio ebreo somiglia a quella di Winston in 1984 dopo le torture fisiche subite dalla polizia del Grande Fratello.
Otello diventa un assassino in quanto vittima di un pregiudizio razziale che ha fatto suo: Iago gli fa credere di essere fuori posto in un mondo di bianchi e per questo Desdemona l’avrebbe tradito. La follia omicida si scatena immediatamente, e dopo aver subito un processo da Brabanzio, padre della sposa, per un presunto plagio o rapimento sarà lui a istruirne un altro ai danni dell’amata, sua salvatrice nel primo caso, fino a ucciderla. Otello diventa così «il più nero dei diavoli», mentre al bianco Iago, l’autentico malvagio, Shakespeare regala 57 volte l’aggettivo onesto. Dove sta, dunque, la colpa? Kundera diceva che il mondo basato su una sola Verità (che è anche necessariamente quello della legge) e il mondo ambiguo e relativo del romanzo sono fatti di due materie diversissime, perché lo spirito del romanzo è fondato sul dubbio e sull’interrogativo, non sulle risposte definitive.
Bisogna guardare a Dostoevskij, come suggerisce Adriano Dell’Asta, per affrontare, fino alle estreme conseguenze l’interrogativo sulla colpa nelle sue diverse facce. I due personaggi principali di Delitto e castigo, l’ex studente di legge Raskol’nikov (in russo: scismatico) e il giudice istruttore Porfirij, rappresentano la legge e la trasgressione, eppure quest’ultimo, pur facendo alla fine trionfare il diritto, riconosce le ragioni della trasgressione e si interroga sulle sciocche formalità e sui limiti della legge: «Avete proprio ragione quando vi fate beffe con tanto acume di tutte le forme giuridiche, eh! eh! Questi nostri metodi (…) sono proprio ridicoli e, magari, anche inutili…». Ma c’è di più, Porfirij, da magistrato, rivendica un’interpretazione dei casi umani che potrebbe avvicinarsi a quella dei letterati o dei poeti: «il caso generale, cioè quello al quale si conformano tutte le forme e norme giuridiche e in base al quale esse sono state previste per poi finire nei libri, non esiste affatto, per il semplice motivo che ogni azione, per esempio ogni delitto, appena accade nella realtà, subito diventa un caso del tutto particolare; e, talvolta, un caso privo di ogni analogia con qualsiasi altro precedente». È pur vero, d’altronde, che il protagonista, omicida due volte (ha ucciso una vecchia usuraia e la sorella minore, Lizaveta) pur essendo un trasgressore, finisce per piegarsi alla legge, non in nome di quest’ultima: sarà la prostituta Sonja, che gli legge il Vangelo, a fargli conoscere la fede in Dio e la potenza della Resurrezione. Interviene qui l’opposizione tra razionalità e irrazionalità: e di quest’ultima, come fa notare Alessandro Provera, Raskol’nikov è un rappresentante illustre, il cui motore vitale è il crimine e l’offesa. Ma l’offesa e il crimine possono trovare un riscatto non nella giustizia umana ma solo nella visione di Dio, ricucendo lo scisma interiore del protagonista.
Non c’è necessariamente scisma tra letteratura e giustizia, e il giurista Gabrio Forti, leggendo un capolavoro mai abbastanza conosciuto come I turbamenti del giovane Törless di Robert Musil, arriva ad auspicare che la grande letteratura possa guidare il magistrato verso un «umanesimo penale» suggerito da ciò che lo stesso Musil definisce una «serena fraternità con il divenire». Le torture perpetrate dal protagonista e da due coetanei aguzzini ai danni del compagno di collegio Basini chiamano in causa la responsabilità e il principio di colpevolezza come caposaldo del diritto penale. Ma anche, e sempre, la dialettica tra razionalità e irrazionalità. Il varco che a un certo punto si apre in Törless e che lo spinge a lasciare il collegio e a riprendere il controllo della propria vita renderà il giovane cadetto «giudice di se stesso». Un linguaggio più ricco (quello della letteratura) «è il solo che spesso permette di riconoscere i propri limiti ed errori, di prestare rispetto alle persone…».
«Gadda non parla mai della giustizia in maniera diretta, eppure è presentissima in tutta la sua opera attraverso la sua complessa macchina, i luoghi, gli apparati, gli uomini, i carabinieri per esempio». Piero Geli, soffermandosi sul Pasticciaccio (non per nulla un giallo incompiuto), fa notare come l’Ingegnere, uomo d’ordine attratto irresistibilmente dal disordine del mondo fino a cercare di riprodurlo sulla pagina, ama Manzoni senza credere nella giustizia di Dio. Il delitto rimane così programmaticamente insoluto, e le vittime e i carnefici sono equiparati, «incolpevoli nella misura in cui sono agiti, fosse solo dalla loro stupidità». È il narcisismo il vero motore di questa stupidità, che paga un alto tributo alla follia collettiva. Gadda è un conservatore sui generis, non crede nella proprietà privata ma in quella pubblica, e nel generale sfacelo leva le sue invettive contro il telegrafo-letamaio ma anche contro «l’aula di assise-fogna». L’impossibilità di giungere ad una spiegazione del male, aggiunge Provera, «sottrae il crimine a una visione positivistica in cui tutto ciò che è umano è spiegabile scientificamente». Ogni delitto è risultato di scelte né razionali né motivate: «una depressione ciclonica in cui convergono caoticamente più causali». In questa chiave, è inevitabile che l’iter giudiziario, con le sue rigide categorie, finisca per apparire come uno schema piuttosto riduttivo.
C’è una evidente ambiguità nel trattamento che gli scrittori riservano alla giustizia: mentre sembrano aspirarvi rivelano di non crederci. Ne Il giudice e il suo boia Friedrich Dürrenmatt mette in scena un commissario senza scrupoli morali, Bärlach, che manovra occultamente un assassino per eliminare un imprendibile criminale; ne Il sospetto lo stesso Bärlach provocherà la morte di uno scrittore dopo averlo mandato allo sbaraglio per incastrare un ex medico dei lager. Lo scrittore svizzero, come fa notare Roberto Cazzola, lavora sul filo sottile della «responsabilità», o meglio della «corresponsabilità». Scriverà, a proposito dei suoi «gialli»: «Non è colpa di nessuno, nessuno l’ha voluto, nessuno che c’entri (…). Siamo, collettivamente, troppo colpevoli, troppo immersi collettivamente nei peccati dei padri e dei padri dei padri». C’è chi collabora attivamente e chi passivamente, ma nessuno si può dichiarare escluso: è la stessa corresponsabilità che vigeva all’epoca del nazismo. Oggi, segnala quasi profeticamente Dürrenmatt, nell’epoca della dittatura tecnocratica e della minaccia atomica, nessuno è responsabile dei rischi, nessuno vuole l’apocalisse, ma «tutti "funzionano" come ingranaggi deresponsabilizzati». L’impeccabile funzionare della macchina era ciò cui aspirava Eichmann: e quel funzionare richiedeva la complicità silenziosa dei più. Nella postfazione a una sua pièce teatrale, Mitmacher, lo scrittore elvetico osservava: «Siamo tutti complici, semplicemente perché esistiamo: compromessi con il mondo (…) in quanto appartenenti a uno stato (…), membri di una comunità». Il commissario Bärlach, che gioca di sponda facendo cadere un innocente pur di arrivare a stanare il criminale, ribalta il senso di giustizia. Per Dürrenmatt, qui come altrove, colpa e innocenza si confondono e finiscono per essere indimostrabili.
Paolo Di Stefano