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 2013  febbraio 14 Giovedì calendario

E ORA SEMBRA FINALMENTE LIBERO DA UN PESO


CHE bello il papa che non è più papa: «Cari fratelli e sorelle, come sapete ho deciso… ». Nell’immensa Basilica i prelati che gli fanno corona sembrano quelli di Manara e di Fellini e nella penombra, che è la scenografia naturale del cattolicesimo, c’è il vescovo smilzo e di colore e c’è l’obeso e pallido tedesco. Ma c’è pure la nomenklatura, i cardinali che Moretti faceva giocare a palla a volo, non solo Bernard Law, rimosso dalla diocesi di Boston per avere insabbiato casi di abusi sessuali. Ci sono anche Ruini e Bagnasco e tutto il clero romano e c’è ovviamente il segretario di Stato Tarcisio Bertone con la sua faccia allungata e inquietante che vagamente ricorda l’avvocato Ghedini e fa pensare ai sotterranei di Gide, allo Ior e agli scandali insabbiati, ma anche al prossimo conclave, alla flanella preparatoria e alle alchimie delle elezioni.
Il papa li bastona apertamente, ed è per la prima volta. Dipende infatti da loro «il volto della Chiesa e come questo volto venga,
a volte, deturpato».

«PENSO in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale». È vero che il papa è stanco, ma soprattutto è stanco di loro, non di dottrina e di teologia, ma degli uomini del suo governo. C’era dunque anche una rabbia troppo controllata nell’aria “dimessa” che aveva prima delle dimissioni, una rabbia soffocata per il gioco degli eccessi, anche estetici, dentro la Chiesa di San Pietro che oggi è in tripudio nonostante le ceneri sulla testa, nonostante l’appello della quaresima che è un appello all’elemosina, alla preghiera e al digiuno, in tripudio perché la fragilità del papa è diventa la sua forza: «Anche ai nostri giorni, molti sono pronti a stracciarsi le vesti di fronte a scandali e ingiustizie, ma pochi sembrano disponibili ad agire …».
Che bello il papa che non è più papa: «Continuate a pregare per me, per la chiesa e per il futuro papa ». E’ più nazionalpopolare di Sanremo lo spettacolo del lungo addio di Ratzinger, ed è addirittura magico vedere il papa prigioniero del papa, circondato da tutti questi santi vescovi trottoloni in veste nera cinta di rosso, e dai pellegrini, moltissimi e bellissimi, che erano previsti in 3500 e sono invece dodicimila, tutti in agguato e con uno strano solletico nell’incavo delle reni. Molti sono giovani, ci sono tanti preti e suore, donne in costume croato e grassone bavaresi, bimbi con il cappellino giallo, il gruppo dei carabinieri dell’Umbria, plotoni di malati inglesi, tedeschi e spagnoli. Oggi si capisce benissimo che la Chiesa cattolica è una multinazionale, una holding. Ed è suggestivo pensare che anche per questo il papa si è dimesso, perché la religione di un ultraottantenne rimette la grotta di Betlemme al posto dello Ior. Mi dice una signora francese, Madame Anne Marie: «La mitica profondità degli anni, la
senectus
di Cicerone è amore per il bambino sulla paglia». Mentre il Papa cosparge di cenere tutte le teste che gli si chinano davanti, calvi e biondi, canuti capelloni, con questa signora francese, elegante e anziana pellegrina, provo a pronunziare la parola tabù: «làcheté, viltà». Dice: «Sono i cardinali più reazionari che, sotto sotto, stanno dicendo in giro che non si scende dalla croce. Invece la fragilità è forza». Forza? «Certo, non ha visto? Erano anni che non camminava senza bastone. E’ come se Atlante si fosse liberato del peso del mondo e non avanzasse più ingobbito e sfinito».
Alle 13 alla pizzeria Polese mi metto a sedere con un gruppo di polacchi. C’è una donnona pallida che si chiama Apolonia, tre bambini e un signore con le guance rosse, di professione dermatologo, che si chiama Bernardyn Kwiatkowskiche: «Oggi il Papa è come il Muro di Berlino, e noi siamo qui per portare a casa ciascuno il suo pezzetto» e può bastare anche uno sguardo, «un’impressione della retina su quelle mani che si aprono, il sorriso di vecchio bambino, gli occhi fissi, la dolce figura cristologica in ascensione che non sembra avere storia laica».
E nel pomeriggio anche la messa del Papa non è più una messa quaresimale ma uno spettacolo pop benché i paramenti viola rendano la funzione faticosa. E però ci sono il rosso e l’oro: «Esta no es una iglesia, parece el Teatro Real de Madrid» mormora uno spagnolo. Alle 15 c’era già la fila: si entra in processione per assistere alla celebrazione planetaria
della malinconica forza della fragilità.
La piazza San Pietro resterà così per mesi, assediata dall’astuzia delle telecamere e dall’ingenuità dei devoti, dalla irresistibile voglia di Storia o dalla scanzonata gioia di vedere l’effetto che fa. Il mondo insomma, a partire da oggi, occuperà sempre di più Roma finché non sarà eletto il nuovo replicante di Pietro. E questa messa, che per un laico senza fede può essere suggestiva ma noiosa, oggi ha per tutti una speciale profondità simbolica. Trascinato sul fercolo rosso come su un risciò, il papa che non è più papa sollecita infatti nuovi e forti coinvolgimenti collettivi. Mi spiega un prete americano, un professore di Teologia che non vuole il nome sul giornale: « La Messa di oggi pomeriggio, nonostante le intenzioni, il Gloria al posto dell’Alleluja e i colori della quaresima, come in un gioco di prestigio ha anteposto alla dura fede penitenziale del
Memento Homo quia pulvis es et in pulvere reverteris
la fede candida e infantile del vecchio teologo che fu molto vecchio quando era giovane e che adesso da vecchio cerca la fede dolce dei bambini».
Altro che digiuno. Il lungo addio del Papa è come una festa di fine millennio, la festa come ‘phainon e photo’, avvenimento e luce, una specie di miracolo, e infatti in piazza e qui tra le navate dove risuonano gli «ora pro nobis» e i «miserere nobis» non c’è la caduta di Dio e persino le suore sono sorridenti e felici. Nei bar dove si si rifugiano i pellegrini, al ‘don Chisciotte’ per esempio, discutono dell’anello: «Che ne sarà dell’anello?» E «come si vestirà?» domanda un ragazzo spagnolo. Gli risponde un prete umbro, don Portino: «Smetterà di vestirsi da papa, forse nel convento di clausura potrà indossare una tunica penitenziale, adornato di umiltà come i pellegrini in viaggio versi i santuari». Secondo Mario, che beve acqua minerale con la cannuccia, «si vestirà come un pensionato regale, un buon vivente regale». Sintetizza il cameriere: «Porello, lo consegneranno alle guardie svizzere, come
er cavallo d’un carretto
». Ogni tanto la discussione si fa seria: «Ci si può dimettere dall’infallibilità?». Una ragazza domanda: «E chi manterrà l’ex papa?». Il cameriere si affaccia sulla strada e, con l’indice sentenzioso, mi indica la basilica: «A entrà li dentro, senti un’oppressione. Al suo posto,
io cercavo de scappà
». Dentro continuano a discutere: «Qual è il significato nel diritto canonico della data 28 febbraio alle ore 20?». Se nella Basilica si esibisce un mondo parallelo al mondo, fatto di incenso, di nirvana, di paradiso, di una cerimonia che ogni tanto prende il ritmo della danza, fuori i romani aggrediscono le esegesi bibliche, discutono sul tempo e sullo spazio di Dio. E soprattutto si scoprono tutti vaticanisti accalorati davanti all’edicola di corso Vittorio perché quando si tratta di seppellire, eleggere o anche sospendere un Papa, Roma ritorna paese, quartiere dei devoti e cittadella degli intrighi, delle curiosità e degli spioncini, la città degli acquarelli e dei pellegrini stanchi e sporchi, affollata come vuole la letteratura. Mai come in questi momenti Roma diventa Roma.
Mi sento smarrito in mezzo a tutti questi devoti che applaudono, agitano bandiere, fotografano, allungano il collo, gridano, e forse sono cambiati i loro occhi o forse è cambiato lui, «grazie per la vostra simpatia» dice, ma chissà cose vorrebbe dire se fosse già libero di dire, libero di parlare a questo mondo che è arrivato con i torpedoni, con i treni speciali, trasportando madonne giganti e piccoli oggetti da fare benedire anche se qui l’acqua benedetta non è l’olio sul fuoco della superstizione dell’Italia profonda, della terra del rimorso che si rifugia nel santino, nella tonaca, e trasforma anche la croce in un amuleto. Oggi le icone sono reliquie, finestre del cielo aperte sul mondo. E persino le preghiere vogliono rubare al Papa il segreto della sua doppia identità.
Quando, per dire, si è messo a sedere sulla sedia bianca nella sala Nervi il Papa ha allargato le braccia e poi si è segnato. Alle spalle aveva la grande (e brutta) scultura in bronzo della Resurrezione di Pericle
Fazzini, e ha mormorato «sia lodato …». Ecco, in quel momento, tracciando forse un’assenza più che una presenza, più salutando gli astanti che confermando un crisma, il Papa ha trasmesso un brivido, come quel fulmine che il giorno dell’annunzio delle dimissioni ha colpito la cupola di San Pietro separandola dal Cielo e allo stesso tempo rischiarando le tenebre.
Chi poteva immaginare che sarebbe stato proprio il papa a rilanciare il maltrattato teatro di Pirandello che forse vedrebbe in questa nuova e tormentata
doppiezza del vecchio Ratzinger (che non è più papa ma resterà papa quando non sarà più papa) Sua Santità Gengé, il protagonista di ‘Uno nessuno e centomila’: «In Me sono due persone, un Gran Me e un piccolo me. Questi due signori sono in guerra tra loro, l’uno è spesso all’altro sommamente antipatico». Ma certo Pirandello era anche innamorato della sfida dell’uomo a Dio «il doloroso segreto di Dio è che gli uomini sono liberi» scriveva Sartre, piccole anime astiose ma libere.