Alessandro Piperno, IL 8/2/2013, 8 febbraio 2013
LA TRUCE POESIA DEL CAPITALISMO CI SALVER
Borghese: ha senso oggigiorno un sostantivo così generico e ampolloso? Ciondolando per certi quartieri residenziali di Roma o di Milano – roccaforti verdeggianti dell’high class metropolitana – parrebbe di sì. C’è silenzio, discrezione, decoro, una relativa pulizia, un senso di sobria prosperità. Qualcosa che fa pensare più agli anni Cinquanta – a Gadda e alle sue città – che al ventunesimo secolo.
Peccato che tanta confortevole immobilità sia una mistificazione. Molte delle famiglie che abitano questi quartieri vivono una condizione non troppo dissimile da quella in cui languiva l’aristocrazia agraria un paio di secoli fa. La pompa, il rispetto delle tradizioni, la rivendicazione di un privilegio scricchiolante sono il simulacro di un clamoroso auto-inganno. Quasi nessuno dei proprietari di queste dimore lussuose, infatti, sarebbe in grado di comprarne una analoga ai propri figli (per non parlare della ristrutturazione). Così, un’intera generazione viene declassata. Ragazzi invecchiati, vissuti nella rassicurante chimera di poter aspirare a un menage non meno florido di quello dei genitori e dei nonni, si trovano a dover fronteggiare un tipo di frustrazione del tutto inedita, a cui nessuno ha osato prepararli.
Come vivono la crisi i figli di papà?
Trascinati nel vortice di una specie di contro-boom, un American Dream alla rovescia, si guardano attorno smarriti, poveri piccoli. Qualcosa è successo, ma non sanno bene cosa. Fanno come il mirabile personaggio di È ricca, la sposo e l’ammazzo, interpretato da un gigantesco Walter Matthau, che fa un’ultima visita a tutte le sartorie e a tutti i ristoranti stellati nei quali non potrà più permettersi di entrare, sussurrando tra sé e sé: «Sono povero… sono povero…».
Forse è giusto che le trasmissioni televisive di approfondimento politico non si occupino di questa classe decadente, non sprechino tempo nella realizzazione di un servizio appositamente dedicato. Forse è giusto che nessuna tra le agende politiche in circolazione si faccia carico di tanta sciagura e di tanta insipienza. Dopotutto si tratta di una minoranza ininfluente, e antipatica. Sartre l’avrebbe definita addirittura «parassitaria» e, pensando alla diffusione ipertrofica di certe professioni liberali negli ultimi decenni, forse non aveva tutti i torti. Certo è che nessuno di questi ex sardanapali – frequentateti indefessi di circoli canottieri – morirà di fame. Dovranno ridimensionarsi, tutto qui. Meno vacanze, ragazzi, meno vestiti di marca, scordatevi le fuoriserie, proprio come Walter Matthau. Nulla di tragico. Nulla che giustifichi un suicidio né un crimine. Nulla che possa spingervi a scendere in piazza: una disperazione non abbastanza truce da giustificare la trivialità.
Insomma nessuno se li fila, ed è giusto così. Anzi, mi fa quasi piacere, visto che essi rappresentano il fulcro della mia ispirazione. Il che mi rende piuttosto geloso. So come vivono e cosa pensano, perché sono uno di loro. O, almeno, con un po’ più di sfortuna, avrei potuto esserlo. So quanto siano delusi e terrorizzati. Ed è proprio di questa delusione e di questo terrore che vorrei scrivere nei prossimi anni. Già, mi piacerebbe affidare a uno di questi ragazzi malinvecchiati il ruolo di protagonista nel mio prossimo libro. Che ci posso fare se tutto questo sfacelo mi eccita? Penso agli ultimi giorni di vita di Thomas Buddenbrook: la cupa dolente incredulità con cui guarda la piega storta presa dagli eventi.
A proposito di decadenza, poco prima di Natale, per via dell’uscita dell’edizione greca di un mio libro, sono andato ad Atene. L’ultima volta c’ero stato con la mia classe delle medie. Per un sacco di tempo non me ne ero più interessato. Per ritrovarmi, molti anni dopo, di fronte alla tv ad ammirare la sedicente rinascita ellenica, durante le Olimpiadi. Di recente, come tutti d’altronde, ho letto un sacco di cronache sconfortanti sulla catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Non sapendo cosa aspettarmi, mi sono preparato al peggio. Ma evidentemente non abbastanza.
È impressionante come una crisi economica capillare e diffusa possa stravolgere il paesaggio urbano. Sono parecchie le cose di Atene che mi hanno colpito: il numero strabiliante, quasi fiabesco, di taxi senza clienti. «Fino a un paio di anni fa», ha detto il mio editore, «non trovavi un taxi a pagarlo oro. Guarda ora che roba: non c’è ateniese che non abbia almeno un parente che fa il tassista». È stato sempre lui a farmi notare le mute di cani randagi per strada. «Mica nascono randagi. Li hanno abbandonati perché non sapevano più come nutrirli». «Se continua così», si è sbrigato ad aggiungere melodrammatico, «saranno loro a nutrire noi». Per non dire della falange di tossici nella zona intorno al gigantesco museo archeologico, non troppo distante dall’Istituto italiano di cultura. Un giornalista che mi ha intervistato ha tenuto a farmi sapere che fino all’anno scorso percepiva uno stipendio di tremila e cinquecento euro: ora se la deve cavare con la metà della metà. Me lo ha detto a brutto muso, come se il suo impoverimento dipendesse da me.
Ma devo dire che il colpo più spettacolare, almeno da un punto di vista scenico, è stato lo struscio per le vie più eleganti di Atene un sabato pomeriggio di dicembre. Le insegne dei negozi erano le stesse esibite da qualsiasi altra via di qualsiasi altra metropoli. Gli stessi marchi globali Ma in quel contesto facevano tutt’altro effetto. Era come trovarsi in uno di quei film apocalittici in cui viene mostrato, non senza morbosità, ciò che resta dei nostri comfort dopo una glaciazione. Negozi vuoti: di merci e di clienti, alcuni persino di commessi. Un mucchio di saracinesche abbassate. Ho alzato la testa al cielo e ho visto l’Acropoli. Per un attimo ho percepito una perturbante contiguità tra quei ruderi millenari e la necropoli commerciale in cui ero immerso.
Vedere Atene ridotta così non ha fatto che confermare in me la diffidenza nei confronti di chi è incapace di percepire la truce poesia del capitalismo. Forse una delle ragioni per cui il capitalismo l’ha spuntata su qualsiasi altro sistema economico è la capacità di celebrare se stesso attraverso una spavalda ostentazione di grandiosità. Il capitalismo è magniloquente. Deve esserlo per forza se vuole sedurti. La Parigi di Baudelaire e di Balzac, la Pietroburgo di Nabokov, la New York di Edith Wharton e Scott Fitzgerald... Di questo sto parlando.
Poi un giorno, appena rientrato in Italia, camminando per le vie del centro della mia città, a ridosso delle vacanze di Natale, ho percepito un analogo (sebbene decisamente meno spettacolare) senso di dismissione. Un negozio di vestiti molto famoso fino all’anno scorso preso d’assedio durante lo shopping natalizio da orde di figli di papa era semivuoto. Il proprietario, vedendomi, mi ha sussurrato all’orecchio che per i vecchi clienti facevano già generosi sconti. Ed ecco che d’un tratto quel negozio tutto ottone e parquet, di cui avevo percepito la magia sin dai primi anni della mia adolescenza, neanche fosse una bottega di Bruno Schulz, mi è parso sotto un’altra luce: destituito di ogni charme. Già, vedere quei pochi clienti muoversi circospetti tra merci così proditoriamente scontate è stato avvilente come la visita in carcere a una regina deposta. i
Ricordo che pochi giorni dopo gli attentati alle Torri Gemelle rimasi abbastanza perplesso dall’invito a consumare il più possibile, rivolto al popolo americano dal presidente George W. Bush. La cosa mi sembrò stonata, se non addirittura sacrilega. Ma come? Tutta quella gente morta, e in un modo così spaventoso, e tu affermi impunemente che non c’è gesto più patriottico che fare shopping?
Ma ecco che ora, a distanza di tanto tempo, mi sembra di capire. La melanconia di un negozio vuoto, d’un ristorante senza avventori, d’un cinema privo di spettatori, di scaffali pieni di libri invenduti... Ho ripensato alla truce poesia del capitalismo. Forse solo quella potrà salvarci.