Alberto Arbasino, Corriere della Sera 13/02/2013, 13 febbraio 2013
ALL’OMBRA DELLE SIRENE DI SARTORIO LONTANO DALLE MOVIDE DELLA MODA
Passeggiando per Milano, si hanno varie occasioni di riflettere sui discussi rapporti fra i pensatori e la Cultura. Soprattutto, vagando per illustri sale e sale spesso gratuite e deserte, fra Brera e l’Ambrosiana e altre istituzioni celeberrime. Così, benché via Sant’Andrea si trovi al centro del Quadrilatero della Moda, ben pochi turisti intellettuali o modisti si incontrano nelle sale di Palazzo Morando per visitare la ricca mostra sui «Giochi da salotto e da osteria». Arte povera? Indubbiamente poverissima! Tra Cinquecento e Ottocento: carte, cartine, cartelle, tarocchi, mappe e tavolieri, dadi, estrazioni, azzardi, percorsi... E via con le Tombole, il Gioco dell’Oca, il Lotto Reale, il Faraone, il Barone, la Bassetta, la Cavagnola, il Biribissi, il Domino... Opuscoli, bandi, matrici, attrezzi, tecniche didattiche e giochetti per «istruire divertendo».
A livelli non più popolari ma eccelsi, di Corte, ecco a Brera – ancora per le cure dell’emerita Sandrina Bandera – non più «il caso e la fortuna» come una dozzina d’anni fa, per l’esposizione famosa sui Tarocchi di Bonifacio Bembo nella cultura cortese tardogotica. E negli stupendi mazzi Brambilla e Visconti di Modrone e Colleoni-Baglioni: implacabilmente divisi tra Brera e Bergamo e Dallas e la Morgan Library di New York (come si ha spesso l’occasione di rammentare). Stavolta, «Il segreto dei segreti»: a proposito dei Tarocchi Sola Busca (dai nomi dei proprietari più recenti), e «la cultura ermetico-alchemica tra Marche e Veneto alla fine del Quattrocento».
Quante finezze si ammirano e si imparano, qui, accanto alle meravigliose carte da giuoco. Tutta una iconografia alchemica ed ermetica, nel nome di Ermete Trismegisto (cioè tre volte grandissimo), a cura del retore umanista Ludovico Lazzarelli, da San Severino Marche, fino all’artista Nicola di Maestro Antonio, fiorentino ma bulinatore e illuminatore di questo mazzo a Venezia, verso la fine del Quattrocento. Sotto gli influssi della bottega padovana dello Squarcione, dei testi ermetici acquisiti da Cosimo il Vecchio a Firenze e tradotti da Marsilio Ficino «per raggiungere un più alto livello di conoscenza», insomma l’Unità del Tutto. In nome dei più illustri Antichi.
Ancora da Bonifacio Bembo, o dalla sua scuola, giungono esposte alla Pinacoteca Ambrosiana sette «tavolette da soffitto» (dunque un po’ ricurve), deliziose anche perché tipiche della Moda milanese alla Corte sforzesca. Queste arrivano da un baule abbandonato dal vecchio artista Ludovico Pogliaghi nella sua villa varesina ai primi del Novecento. E sono incantevoli, per la freschezza delle acconciature e delle zazzerette, degli incarnati e degli sguardi lombardi. Ah, che chic. Altro che quadrilateri delle Mode Pronte.
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Non tanta gente – non c’è movida – anche nelle grandiose e centralissime Gallerie di Piazza Scala. Dove si andava una volta per chiacchierare col vecchio Raffaele Mattioli: con quella sua aria profonda e misterica in saloni rigorosamente vuoti, scrivanie assolutamente deserte, come un sentore di tavoloni gremiti in tutti gli ambienti attigui, e la sola civetteria di qualche asinello di coccio o gesso abruzzese su un davanzale. E talvolta lo si trovava a Roma, faceva un lunch solitario nei pressi del Collegio Romano. Mai conversando su Gramsci o Sraffa.
Adesso, tra via Manzoni e via Morone, si spalancano spazi vastissimi in palazzi bancari e patrizi: infilate di sale e scale e gabinetti e soffitti delle Cetre o dei Cammei e Grifoni e Monocromi e Vasi, di Ulisse o Prometeo. E dentro, come a Venezia, mirabili bassorilievi del Canova, in gesso, con efebi danzanti o dame troiane intensamente plissettate; dipinti dell’Hayez che mediante la Storia e il Melodramma tendono al Sublime; esterni e interni del Duomo, magnifiche e strazianti visioni dei Navigli, con precisione romantica e neoclassica. Comincia poi il tardo Ottocento, con paesaggi lacustri prevedibili e solite scenette di vitarella populistica. Grandi o intime scene risorgimentali, battaglie, Palestro, Cernaia. Scapigliatura diffusa, accanto a un revival salottiero del Settecento. Ma dal Divisionismo si passa alle ragazze Liberty di G.A. Sartorio (tipo fregio di Montecitorio) e alle entusiasmanti periferie industriali di Boccioni, che salgono, montano, si levano.
Dalla parte del Novecento, evidentemente uno per uno non fa male o non giova a nessuno. Ci sono tutti gli amici: Perilli, Schifano, Guttuso, Novelli, Fioroni, Manzoni, Dangelo, Scialoja, Pistoletto, Baj... Anche a casa ce ne sono diversi. Ma soprattutto Fontana ha qui una sua stanza intera.
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«Qua la chiave! E... un’altra chiave!... Non ne avea la chiave, né contava pranzar»... E pensare che nelle drammaturgie più aggiornate, gli oggetti più ricercati – tipo appunto le chiavi – si trovano certamente nel cesso…
Il lungo «Panico» di Luca Ronconi al Piccolo Teatro potrebbe risolversi in qualche «spavento, sgomento, raccapriccio, terror panico» analogo ai «pizzica, stuzzica, pungi, spilluzzica» di Verdi e Boito nel Falstaff scaligero?
O la ricerca della chiave di una cassetta bancaria, da parte di una mammona esuberante e una figlia butch e un figliolo frocetto non si adatterebbe piuttosto a una recitazione «immedesimata» e naturalistica tipo Adani o Pagnan ma con travestiti come la Teresa e la Mabilia e la Chetta degli indimenticabili Legnanesi?
O al contrario, per questo Spregelburd, va meglio una immedesimazione naturalistica degli interpreti, nelle acconciature e nelle calzature e negli abiti, con una recitazione tutta «alienata» di mossette e attuzzi vocali e strumentali? E magari una durata di solo un paio d’ore, in tutto, e non quasi il doppio come per Wagner?
Come cambiano i trends, però, da quando Montale biasimava «gli intellettuali d’oggi che si vergognano di Puccini e preferiscono il "Falstaff" al "Trovatore" (ma in cuor loro amano solo la musica negra)».
Alla Scala, cosa direbbe adesso Montale di questo «Falstaff» (benissimo concertato e diretto da Daniel Harding), straniato nella più ricca pubblicità hollywoodiana degli anni Cinquanta, e non già nella povera e affamata provincia inglese o italiana di quegli anni?
Viene un dubbio, così. Più Boito si affanna a ricercare vocaboli «d’epoca» antiquati e desueti – epa, offa, ciarle, vagoli, impegola, signoria – e più la regìa di Robert Carsen fa cinguettare le sue allegre e facoltose comari di Windsor, vestite come Ann Sheridan o Ida Lupino in un tea-room di lusso. Senza tesseramento per i pasticcini. O per il tè: che ovviamente ai tempi di Shakespeare non si usava. Così come non era ancora arrivato il tacchino per il lunch «dalle due alle tre». Né liuti né gran querce, però, quindi. Infinite moine e smancerie, sopra e sotto i tavoli e le tovaglie.
Così, funziona meglio il costruttivismo tutto ruote dentate nel magnifico spettacolo di Peter Stein per il «Naso» di Shostakovic all’Opera di Roma: addirittura più bello del «Naso» stesso.
Ma resta un interrogativo: come si risolve scenicamente, a partire dalla «prima» a Leningrado, il problema di un naso che se realistico non si vede dal pubblico, ma se (come qui) è un panzone, allora il senza-naso non se lo può rimettere? Ci si rifà al nasone di Cyrano de Bergerac?
Alberto Arbasino