Marco Del Corona, Corriere della Sera 13/02/2013, 13 febbraio 2013
MA IL PAESE SI APRE: SOAP OPERA STRANIERE E JEANS CLANDESTINI
Ottanta centimetri sono pochi per provare jeans attillati fatti in Cina o un vestito rischiosamente copiato da riviste sudcoreane. Ma nei mercati della Corea del Nord ci si arrangia: se lo spazio concesso al banchetto di ciascun venditore si limita appunto a meno di un metro, e se diventa necessario far provare ai clienti la merce per evitare aggiustamenti successivi o rimborsi, i mercanti si consorziano. Mettono insieme tre o quattro dei loro banchetti e ricavano un piccolo ma essenziale camerino. Dove, al riparo da occhi indiscreti, i capi possono essere fatti indossare. Angustie del proto-capitalismo nordcoreano. Esplorazioni avventurose di un’economia di mercato di là da venire, almeno per come lo racconta il tam tam dei transfughi captato a sud del 38° parallelo e rilanciato dai siti specializzati sulla Repubblica Democratica Popolare.
I modelli realizzati clandestinamente o quasi e proposti a concittadini che li vogliono verificare assomiglia a una metafora di quello che forse — forse... — la Corea del Nord sta cominciando a saggiare. Perché la Corea del Nord del suo terzo test atomico non è la Corea della prima Bomba, 2006. Il Paese di Kim Jong-un cambia. Sotto la cappa di un controllo statale asfissiante, i margini di manovra individuali si allargano. In parte è il regime ad aprire le maglie: più auto a disposizione dei funzionari per le strade di Pyongyang, edifici recenti (con dispendio di vetri e pietra lucida), più luci e negozi, ad accentuare il ruolo della capitale come vetrina della nazione. Ma anche un sottobosco di rudimentali imprenditori che prende corpo oltre le cerchie esclusive delle famiglie più vicine alla leadership e delle élite diplomatico-militari.
Si consolidano i traffici con la Cina, protetti da mazzette e percentuali sui guadagni. Mediatori possono trasferire merci da un capo all’altro del Paese, sebbene a costi superiori al valore degli oggetti stessi. Filtrano informazioni sul mondo là fuori. Si diffondono i cellulari, una volta riservati agli ultraprivilegiati o fatti entrare dalla Cina segretamente (per chiamare all’estero dalle zone al confine, dove le reti mobili di Pechino sconfinano). Secondo dati fatti propri dall’Economist sarebbero un milione e mezzo i telefonini in Nord Corea, e 2 milioni i pc, ormai accessibili a chi possegga valuta.
I problemi alimentari restano (i ventenni sudcoreani sono 6 centimetri più alti dei coetanei del Nord), ma ci si ingegna per procurarsi lettori dvd portatili e divorare soap opera girate a Seul. Persino la decadentissima corruzione del K-Pop scavalca il confine, e chi può si paga insegnanti di ballo. Se il regime tiene grazie alla Cina, lo sguardo va al Sud, ai fratelli separati: «Più cresce la dipendenza da Pechino, più cresce il risentimento», chiosa Stephanie Kleine-Ahlbrandt dell’International Crisis Group. Le visite del numero uno di Google, Eric Schmidt, e di John Daniszewski, vicepresidente dell’Associated Press (che ha una sede a Pyongyang) fanno riconoscere all’agenzia sudcoreana Yonhap che il regime sta affrontando il problema della sua scarsa presentabilità internazionale. Si desidera sempre di più, dall’aspirina (considerata un toccasana universale) ai preservativi (legati a una prostituzione praticata per disperazione), mentre in campagna è tutto un altro universo, e ci si riscalda con il «carbone artificiale»: segatura, steli di mais, altro. È lì che si stima che i prigionieri nei campi di lavoro siano 200 mila. Ed è la Corea del Nord che non è ancora cambiata.
Marco Del Corona