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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

Notizie tratte da: Adam Gopnik, In principio era la tavola, Guanda 2012, pp. 352, 22 euro.(vedi anche biblioteca in scheda e libro in gocce in scheda 2249424)«Chiunque abbia tre o quattro “pistoles” in tasca può immediatamente, infallibilmente e semplicemente ottenere su richiesta tutti i piaceri a cui il gusto è suscettibile» (Jean Anthelme Brillat-Savarin nel 1825) [pag

Notizie tratte da: Adam Gopnik, In principio era la tavola, Guanda 2012, pp. 352, 22 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda
e libro in gocce in scheda 2249424)

«Chiunque abbia tre o quattro “pistoles” in tasca può immediatamente, infallibilmente e semplicemente ottenere su richiesta tutti i piaceri a cui il gusto è suscettibile» (Jean Anthelme Brillat-Savarin nel 1825) [pag. 22]

Restaurant: prima di essere un posto dove andare, era una cosa da mangiare. Il termine, apparso intorno al 1750, era il nuovo nome del bouillon, il brodo di pollo o di manzo.

Table d’hôte: il posto in cui si andava se si voleva mangiar fuori, a Parigi, nella prima metà del Settecento. Una tavolata pubblica (ma le donne erano escluse) dove si prendeva quello che veniva servito. Quelli a cui non piaceva, soprattutto per la compagnia occasionale con cui si doveva condividere il tavolo, presero a dire che mangiando lì poi stavano male. Apparvero così locali che offrivano un brodo salutare preparato in pignatte pulite: il restaurant. Il piatto diede il nome al locale, che poco dopo cominciò a offrire una gamma più ampia di cibi, sempre con l’intenzione che fossero salutari.

Mathurin Roze de Chantoiseau, che si presentò come il primo restaurateur. Aveva iniziato come finanziere, con un piano per alleggerire il debito francese (lasciare che i commercianti dei beni di lusso battessero moneta). Poi aveva allestito il primo almanacco di artigiani, inventori e commercianti di lusso. Nel suo ristorante, in rue Saint-Honoré, e negli altri simili «potevi entrare quando volevi e mangiare quel che volevi, scegliendo da una lista di piatti limitata ma ragionevolmente ampia, sederti al tuo tavolo con gli amici, e dire a te stesso che lo facevi per la salute». Con il pretesto della salute anche le donne adesso potevano andare al ristorante. [30]

«Qui ognuno mangia solo…» (Diderot a proposito del ristorante di Roze).

«Polenta bretone, crema di riso al profumo di fiori d’arancio, semolino, uova fresche… frutta di stagione, conserve dei fabbricanti più famosi, burro e formaggi freschi» (il cibo promesso da Jean-François Vacossin, il secondo ristoratore di Francia). La chiamavano nouvelle cuisine, in genere si riconosceva che era più semplice di prima. [32]

L’ordine dei vini – mosso, bianco fermo, rosso, rosso robusto – e l’idea che dabbano adattarsi ai piatti, un’invenzione novecentesca. [33]

La divisione del pasto in tre portate, una tradizione che risale al sedicesimo secolo.

Il dolce in coda al pasto: anche le scimmie finiscono con le banane. [33]

La nascita, al Palais Royal di Parigi, del moderno negozio di strada. Fu il proprietario del palazzo, Filippo duca d’Orléans, uno degli uomini più ricchi d’Europa, a dare in affitto ai mercanti i quattro grandi porticati, dove aprirono negozi di modiste, sartorie, librerie, molti nuovi locali dove mangiare e bere. Era il periodo precedente la Rivoluzione. [34]

I ristoranti guardati con sospetto dai giacobini del Terrore. La Rivoluzione, nei suoi momenti più radicali, incoraggiava le tables d’hôte dove ci si sedeva in lunghe tavolate. «Lo champagne è il veleno del popolo» (Robespierre, rifiutando un invito a cena). [35]

Il Palais Royal, «quel capannone impudico, sfrontato, risonante di voci e di una folle allegria» (Balzac). Nel 1805 sotto i suoi portici c’erano quindici ristoranti e venti caffè.

Piatti in un ristorante parigino del primo Ottocento, equivalente a un attuale “tre stelle”: sauté di filetti di allodola, aspic di filetto di beccaccia con latte di mandorla e gallette, pollo al burro di gamberi ecc. [37]

Ultimo decennio del Settecento, i nuovi ristoranti abbandonano il servizio in stile francese (o banquet) a favore di quello che gli stessi francesi chiamano servizio alla russa. Invece di una gran quantità di piatti deposti sulla tavola con i domestici che li servono, le portate arrivano una dopo l’altra. [39]

La legge del 1789 che legalizzava la vendita di caffè, vini e liquori nello stesso locale (una delle prime promulgate dall’Assemblea nazionale dopo la Rivoluzione). È nato così il moderno café. Prima della Rivoluzione solo determinate corporazioni potevano fare il pane, altre i prodotti di pasticceria, altre ancora vendere tè e caffè. La Rivoluzione liberalizzò tutto. [42]

Intorno al 1900 a Parigi c’erano trentamila caffè. A Londra erano meno di seimila. [42]

Il caffè, un tempo bevanda esclusiva della prima colazione, entra nell’uso generale «dopo cena come tonico inebriante» (Brillat-Savarin). [46]

Brillat-Savarin, amante del cibo francese, esule del periodo napoleonico e post napoleonico, scrisse nel 1825 il primo grande libro sul gusto e sulle ragioni della sua importanza (Fisiologia del gusto). La sua tesi, in breve: la tavola è il luogo in cui un bisogno diventa una voglia. Prendiamo le pulsioni e le addomestichiamo trasformandole in gusti. [53]

Nel 1803 esce l’Almanach des Gourmands, rivista con degustazioni olfattive, articoli sul cibo e una guida ai ristoranti. L’ha inventata Grimod de La Reynière. [57]

«Le tre cose da evitare a tavola sono “un po’ di vino che ho comprato giù in drogheria”, una cena “giusto per pochi amici” e i musicisti dilettanti» (Grimod de La Reynière).

È possibile far bollire qualche osso e delle verdure in una pentola piena d’acqua e tenere da parte il liquido. Si aggiunge qualcos’altro e si ottiene un piatto che ha il sapore sia di quello che si è messo a sobbollire sia di qualcos’altro che si è aggiunto. L’uso dei brodi è ciò che distingue la cucina francese da tutte le altre. [63]

Le prime ricette nel diciassettesimo e diciottesimo secolo: sono scritte in un linguaggio compresso, che permette solo a qualcuno già esperto di seguire i passaggi più azzardati. Il vero libro di cucina appare nel diciannovesimo secolo. [78]

Quando mangiamo peperoncini, il cervello va in sovrapproduzione di oppiacei per compensare il bruciore alla lingua. Se non lo facesse, il chili o il curry sarebbero letteralmente immangiabili. [113]

I cicli del gusto. Un secolo fa il gusto per i cibi fuori stagione ed esotici definiva il mangiatore sofisticato. Oggi si definisce un buongustaio illuminato proprio colui che rifiuta l’esotico e il fuori stagione. [114]

Il silfio, la spezia leggendaria che i greci usavano abitualmente come noi la noce moscata. È sparito nel primo secolo dopo Cristo e da allora non s’è più visto. [144]

Alain Passard, proprietario e chef del ristorante L’Arpège a Parigi, dal 1996 tre stelle Michelin. Da alcuni anni il suo menu elettivo, con rare eccezioni, è interamente vegetariano. Le verdure provengono dall’orto biologico del parco di un castello che ha acquistato come nuda proprietà dalle parti di Le Mans, duecento chilometri circa a sudovest di Parigi. Il Tgv, che passa lì vicino, aiuta. «Possiamo raccogliere la verdura alle sette del mattino, averla in cucina per cominciare a preparare il pranzo alle dieci e mezzo, e in tavola a mezzogiorno». [161]

David Graves, che fa l’apicoltore sui tetti di New York. Si occupa di cinquanta arnie e colonie sparse per la città. [192]

«La domanda di proteine sostenibili è la domanda di questo secolo. In qualche modo dovremo produrre proteine sufficienti ad alimentare la popolazione, e dovremo farlo in contesti urbani, perché i costi dei trasporti diventeranno proibitivi» (Martin Schreibman, biologo. Ha collaborato al lancio di un progetto per creare un sistema chiuso di allevamento ittico a New York). [197]

La tilapia, il pesce servito all’Ultima Cena. Uno dei pesci più facili da allevare: vive nelle acque temperate, non è carnivoro, non dà i problemi di alimentazione che si hanno con il salmone, per esempio.

La Red Hook Community Farm, fattoria urbana di poco più di un ettaro a Brooklyn. Rifornisce di rucola e cavolo verza molti locali della zona. «Cerchiamo di fare tutto in modo biologico. Il nostro compost deriva quasi esclusivamente da letame proveniente dallo zoo del Bronx. Usiamo il letame degli erbivori, come le zebre o gli elefanti».

Gli studi che mettono in discussione i vantaggi ecologici del cibo a chilometri zero. L’agnello allevato nei pascoli traboccanti di trifoglio della Nuova Zelanda e trasportato via mare in Gran Bretagna per 18.000 chilometri produce emissioni di anidride carbonica pari a circa 700 chilogrammi per tonnellata, contro gli oltre 2.800 chilogrammi dell’agnello britannico, in parte perché i pascoli britannici, più poveri, costringono gli allevatori a ricorrere ad altro mangime. [203]

Lo psicologo cognitivo francese Frédéric Brochet scoprì che aggiungendo un colorante alimentare rosso a un vino bianco, nemmeno esperti bevitori erano in grado di distinguerlo dal vino rosso. Ci basiamo su ciò che vediamo e leggiamo per creare un contesto a ciò che crediamo di gustare e di fiutare. [223]

Amnesia olfattiva. Il naso ha la memoria più breve di tutti gli altri organi sensoriali. «Pensa a un motivo familiare, diciamo Yesterday. Pensa a un dipinto familiare, diciamo La Gioconda. Ora pensa al profumo di un sandwich al tonno. Mentre gli altri ricordi sensoriali sono forti e netti, l’odore del sandwich al tonno è generico e vago» (Rachel Herz, psicologa alla Brown University). [224]

L’affannosa ricerca di Bernard Loiseau, chef a tre stelle, di un modo per trasformare il cavolfiore da scoraggiante vegetale a raggiante contorno, caramellandolo. Loiseau si è tolto la vita vedendo che il cavolfiore caramellato aveva lasciato freddi i suoi critici. [248]

La tradizione protestante di far sentire in colpa la gente perché mangia bene – espressa nella moda delle diete, nei terrori sulla salute – è stata compensata dalla tradizione protestante di far sentire in colpa la gente perché non mangia bene, espressa nelle lezioni di cucina, nei libri di ricette e nello sviluppo di una colossale industria della letteratura gastronomica destinata alla cucina casalinga. [257]

Il mangiare, insieme al vedere, fornisce le metafore di giudizio più universali. Dolce e amaro, per esempio. Metafore così basilari che si insinuano nella nostra intera esperienza, al punto di non vederele nemmeno più come metafore. [258]

Gli scimpanzè amano i dolci e morirebbero per averli: è uno dei fattori che li induce a cercare da mangiare in territori estremamente vasti, al di fuori della foresta.

Lo zucchero, per secoli una spezia rara e preziosa, un extra costoso usato per dare al cibo gusto e colore. Il prezzo precipitò, per non salire mai più, verso la fine del diciassettesimo secolo. Fu lo sviluppo del sistema delle piantagioni nelle Indie occidentali a trasformarlo in presenza comune sulla tavola.

«Dolce», uno degli aggettivi preferiti da Shakespeare. Solo nei sonetti compare 72 volte. [311]

In Francia l’improvviso calo del prezzo dello zucchero segnò la nascita del pasticciere, l’avvento del dessert così come lo conosciamo oggi.

Per i primatologi mangiamo lo zucchero perché i nostri geni lo reclamano. Per gli antropologi lo zucchero è soprattutto un simbolo culturale: mangiamo il maggior numero possibile di dolci per emulare i ricchi, che di norma hanno modo di mangiarne di più. [315]

«Abbiamo cominciato prendendo cose dal mondo del dolce e trasferendole in quello del salato: un sorbetto o un gelato salati. Uno dei primi gelati salati è stato un gelato al parmigiano, nel 1994» (Ferran Adrià, fondatore del ristorante spagnolo elBulli). [320]

Regola della triplice azione. Prendi qualcosa da mangiare, fagli qualcosa, fagli ancora qualcosa, ma per l’amor di Dio dopo non fare nient’altro, a meno che tu non sia sicuro che ne valga davvero la pena.

Regola del quattro più tre. Quasi ogni cosa (salmone, petto di pollo, tranci di pesce, bistecche di manzo, funghi, pane tostato) è più buona se la fai saltare per quattro minuti da un lato, a fuoco altissimo, e poi per tre dall’altro, a fuoco un po’ più basso.

Regola del forno. Dietro lo sportello del forno non esiste un’aurea mediocrità: che il forno sia caldissimo o quasi tiepido, mai una via di mezzo. [341]