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 2013  gennaio 31 Giovedì calendario

CARI INTELLETTUALI, NON SARETE MICA INVIDIOSI?

[Fabio Volo]

LA PRIMA volta che Fabio Volo dice le parole «il club dei giusti» siamo in macchina, stiamo cercando un posto dove fare l’intervista, io mi sto raccomandando di non ripetere le stesse cose sentite mille volte sulla sua giovinezza da fornaio e la sua vita di quarantenne finalmente fidanzato. Lui sta finendo di scolarsi un litro di roba verde centrifugata (la sera prima ha bevuto «due bicchieri di vino», dice col tono devastato con cui si descrive la più brava delle notti), e si mette a parlare di Philip Roth, che è un po’ il sogno di ogni intervistatrice, è già un titolo sulla Milano del Ventunesimo secolo: parlare di Roth con Volo girando in Cinquecento per la cerchia dei Bastioni.
Dice che preferisce Romain Gary perché Roth, appunto, fa parte del «club dei giusti», e io sospiro che è tutto chiaro: da grande vuol essere un nome spendibile nella lista degli invitati a Vieni via con me. Lui tenta una gamma di prevedibili cautele diplomatiche, da «Con Fazio ho un buon rapporto» a «Io a Che tempo che fa ci vado», ma sa anche lui che c’è una cerchia più stretta, e di quella cerchia più stretta non farà mai parte: i posti per gente che scriva cose che piacciano al grande pubblico femminile lì sono limitatissimi, e l’ultimo se l’è preso Baricco. Lo sa e non fa neanche troppa fatica ad ammetterlo: ci vuole poco più di un ora, e mezzo caffè americano.
La Cinquecento è affittata, Volo aveva preso una casa a Milano vicino a Radio Deejay, poi ha smesso di fare Il Volo del mattino, cosa sia successo con Linus non si è ben capito; a domanda dice, col tono cauto da situazioni diplomaticamente scottanti, «Non volevo che diventasse uno di quei rapporti in cui il marito ha il suo viaggio e la moglie è costretta a seguirlo», e nella metafora Linus è il marito.
Comunque, ora la macchina gli serve per andare ogni giorno in uno studio fuori Milano a registrare Volo in diretta, il programma di RaiTre che sta per finire e probabilmente non ricomincerà: «Ci vogliono due anni, devi educare il pubblico a mangiare un’altra cosa, spiegargli cosa stai facendo, mi cambiano il direttore dopo un anno, a quello prima gli avevo fatto tutto il discorso, l’avevo convinto, questo non l’ho neanche visto».
Quindi andrà (a New York, ma questo gli ho proibito di dirlo, perché "Volo a New York" è diventato quasi più cliché di "Volo panettiere") a scrivere un nuovo libro, e intanto ha in uscita (il 7 febbraio) un film. Del quale saremmo qui per parlare. Nella telefonata che mi aveva fatto per darci appuntamento aveva annunciato: «Non risponderò a domande che non riguardino il film», e aveva scandito motti da Smemoranda come «Non sono mai stato un ragazzo semplice, ma neanche complicato: complesso». Alla fine dell’intervista si ricorderà di quella frasetta e il nostro ultimo brandello di conversazione sarà: «Ho cominciato proprio male, vero?».
Stavo pensando di titolare Fabio Volo pensa d’essere Meryl Streep.
«Che si chiama Studio illegale l’ho detto?»
Lo sapevo già, ma non ne abbiamo detto niente, qualcosa di ’sto film devo pur scriverlo. «Faccio l’avvocato. Gli fa schifo quel mondo, quindi molla tutto».
Una metafora della vita di Fabio Volo.
«Ma a me il mio mondo piace».
Sono molto fiera di questa conversazione: non abbiamo mai detto né "fornaio" né "fidanzata". «Tra l’altro non so se ti ho detto che la mia fidanzata fa la panettiera. Mi raccomando, scrivi una cosa che mia mamma possa leggere. Mettici "bravo ragazzo", poi va bene tutto, anche "banale", tanto lei non sa cosa significhi».
Il fatto che i genitori non siano degli intellettuali c’entra col club dei giusti, e con l’aver cominciato a leggere tardi e sentire quindi di dover recuperare in eterno.
«Posso anche leggere tutti i libri del mondo, ma non arriverò mai a somigliare a loro, non ce l’ho dentro, nelle cellule che mi hanno formato. Posso anche diventare molto più ricco di loro, ma lo vedi quello che era ricco da piccolo e quello che lo è diventato: io i boccoli biondi non ce li ho. Mio figlio non mi vedrà leggere solo Quattroruote come vedevo io mio padre, però io ho avuto tutta una struttura emotiva, sono stato amato, tutte delle fortune che però non fanno figo, perché bisogna aver avuto un’adolescenza oscura, come La solitudine dei numeri primi, sennò non sei cool. Ma perché tu, che invece hai avuto una formazione fortunata, non crei un ponte per arrivare a quelle persone? Perché non t’interessa abbiano la tua conoscenza? Perché quelli che disprezzi sono quelli di cui hai bisogno per sentirti figo: "Non mi capite perché non siete all’altezza". C’è questo desiderio di ridimensionarmi, perché io faccio i numeri. Loro mi dicono chi sono io, io non posso dire chi sono loro. Se lo dico, sono invidioso, la volpe e l’uva e quella roba lì. Però chi è il progressista che diventa fascista dicendo cosa va letto e cosa non va letto? Perché chi si scandalizza davanti a Fahrenheit 451 poi è il primo che decide che libri bruciare? E chi stabilisce il confine? Il club dei giusti. Ma il club dei giusti se lo sono fatto tra di loro, si chiudono in una stanza e decidono: al rogo i libri da Baricco in giù. Però magari arriva uno che dice "Io ho letto i russi e a me Baricco fa pietà". È lo stesso discorso del rottamatore Renzi: chi stabilisce l’anno? Magari c’è un ventenne che usa il computer meglio di lui per cui Renzi è un vecchio che va rottamaio. Ti sto annoiando?».
L’accenno alla volpe e all’uva viene dall’inizio della conversazione, quando lui ha giurato che no, tra i suoi obiettivi non c’è il venire integrato nel tempio della sinistra intelligente: io avevo chiesto se non fosse un caso di volpe e uva, lui aveva risposto: «Mah, sai: la mia uva è tutto».
In realtà non ha l’aria di struggersi per l’uva altrui, piuttosto sembra consapevole che le misure contano: «Cinquantatre milioni di copie», ripete estasiato rievocando la propria intervista a E. L. James, l’autrice di Cinquanta sfumature di grigio. E a quel punto smette di fare il figlio della classe operaia che ne ha fatta di strada ma ancora deve dimostrare tutto a tutti, e dice la verità: «In Italia il punto non è quel che scrivi: è quanto vendi. Ci sono dei libri che in confronto i miei sono Dostoesvskji, ma nessuno gli rompe il cazzo perché vendono il giusto: 5.000, 3.000. Il punto è che io sono quello che vende di più in Italia, anche più di Cinquanta sfumature di grigio. Arriva in Italia Harry Potter e io sono quello che era Vasco Rossi una volta: che i Rolling Stones gli chiedono "Vieni a fare il gruppo-spalla", e lui dice: no, in Italia siete voi che dovete fare il gruppo-spalla a me».
Il faro di Volo nell’evoluzione da cretino ufficiale a intellettuale allegro è Lorenzo Jovanotti, un altro che racconta spesso di aver iniziato a leggere tardi (come se le lacune di gioventù non potessero mai venire compensate): «Lui era messo molto peggio di me: vent’anni fa, al concerto di Vasco Rossi a Torino, cantavano "Chi non salta Jovanotti è", adesso quelli che cantavano così sono tutti in fila a comprare i biglietti per il concerto di Lorenzo a San Siro. Lui ormai è a posto». Volo ancora no. Spera in una soluzione all’italiana: «Magari una sera a cena, d’estate in Toscana, ci sarà un critico e io sarò amico di un amico di un suo amico, e penserà: quello lì è simpatico, domani scrivo che è bravo». Nel frattempo si esercita a imitare Manlio Sgalambro: «Una volta l’ho sentito dire "Comunicare è da insetti: esprimersi ci riguarda"».
Prima di andare a incontrare Volo ho chiesto di lui a gente che lo conosce, e l’indicazione più interessante (e inquietante) che ho ricevuto è stata: «Non mi viene in mente nulla che non sappiano tutti: persona e personaggio coincidono». D’altra parte è uno che nella vita sta in scena, da tanti di quegli anni da aver perfezionato il metodo. È impossibile capire se ci sia o ci faccia. Quanto del suo essere Chance Giardiniere, il personaggio che dice le verità ovvie ma indicibili, sia posato.
«Non posso permettermi di dirlo, ma non ce la faccio più a leggere Philip Rotti. Non puoi scrivere un libro all’anno sull’esserti scopato una sedicenne, e siccome sei un professore ebreo fa figo, ma se lo fa un meccanico è un pervertito. E poi, una volta, vuoi scrivere che dopo hai vomitato, ti fai schifo, ti sei un po’ sporcato? No: lui torna a casa e, nella sua poltrona di pelle, con la sua giacca di velluto addosso, sfoglia un vecchio saggio».
È impossibile capire se ci sia del metodo, nella vascorossizzazione di chi non esiterebbe a chiedere a Roth di fargli da gruppo-spalla: «Il vuoto culturale che riempio io l’hanno creato quelli che hanno preferito raccontarsela tra di loro e fare il club dei giusti. Il mondo della cultura è come l’hip hop: finché vendi cinque dischi sei un figo, se vai in classifica ti sei venduto al sistema. In Italia il libro è una sorta di totem, una roba anacronistica. Io scrivo i libri, e li vendo. Io non mi sento uno scrittore: io sono uno scrittore».