Emanuele Trevi, Corriere della Sera 12/2/2013, 12 febbraio 2013
«AUTOFICTION», CONFESSIONI DI UN GENERE
Il Diario d’inverno di Paul Auster è un libro così sbagliato, così noioso e così gratuito che la sua lettura finisce per risultare almeno istruttiva. Ottenendo un effetto di sconcertante monotonia, l’autore si rivolge a se stesso dalla prima all’ultima pagina, dandoci l’impressione di uno che parli alla propria immagine riflessa in uno specchio. Intendiamoci: a sessantasei anni, l’autore de La Musica del caso e della Trilogia di New York ha ben diritto di trattarsi come il proprio confessore o il proprio analista, ricapitolando e catalogando qualunque cosa gli venga in mente, dalle prime fidanzate alla forma delle case in cui è vissuto. Ma a che scopo farne un libro così simile a un catalogo, e dunque irrimediabilmente privo di forma? Forse quella che Auster ci ha involontariamente consegnato è una sottile allegoria sui rischi della difficile arte del parlare di sé. Proprio lui che, trent’anni fa, con la Invenzione della solitudine, aveva fornito il più efficace e imitato modello contemporaneo di una narrazione capace di mescolare il romanzo, la confessione personale, la divagazione saggistica.
È vero, il termine «autofiction» esisteva già dal 1977, e il diritto di primogenitura spetta a uno scrittore francese, Serge Doubrovsky, autore di Fils, titolo ambiguo in bilico tra «figlio» e i «fili» dalla cui tessitura viene fuori il testo. Ma in Francia è soprattutto l’esempio di Roland Barthes che, alla fine degli anni Settanta, si propone nei termini di un’esemplarità rivelatrice e contagiosa. La soggettività messa in campo da Barthes nei suoi ultimi libri, dai Frammenti di un discorso amoroso alla Camera chiara, è un formidabile strumento di conoscenza. Sarà pure qualcosa di «odioso», l’Io, come lo definiva Pascal nel suo più celebre frammento. Ma è anche capace, con tutti i suoi sussulti e le sue rimozioni, di fornire una paradossale credibilità a un mondo sempre più popolato da feticci e simulacri, nel quale il valore di scambio e la propaganda corrodono senza tregua i vetusti bastioni della politica e dell’economia.
Leggendo un libro come il Limonov di Emmanuel Carrère, ci si rende facilmente conto di come un uso accorto e artisticamente consapevole dell’autobiografia possa svolgere egregiamente le funzioni di un filo d’Arianna. Anche quando il labirinto è oscuro e tortuoso come quello della storia della Russia negli ultimi trent’anni. Gli inserti autobiografici di Carrère non sono gratuite digressioni, ma una serie di messe a fuoco attraverso le quali una materia magmatica e i disagi emotivi che provoca trovano il modo di farsi comprendere e raccontare. Non solo nel Limonov, ma in altri libri di Carrère come L’avversario, la lezione di Barthes è ancora meno evidente di quella di un altro grande inventore di codici narrativi, Truman Capote.
Ma al di là dei modelli e delle genealogie, rimane sempre vero che, come quel signore di Molière che faceva della prosa senza saperlo, innumerevoli sono le «autofiction» di tutti i tempi e di tutte le culture, inconsapevoli di essere tali. Il più grande paradosso della storia letteraria è che si inventa solo ciò che è stato già inventato, come se la «prima volta», invece che un evento irripetibile, fosse qualcosa che si ripresenta nel tempo, al ritmo di cicli imperscrutabili. Auster lo ammetteva fin dal titolo del suo memorabile esperimento: inventare la solitudine non è forse qualcosa di molto simile all’inventare la proverbiale acqua calda? Eppure l’opera fece scuola, e un’intera generazione di scrittori, cresciuta nel Grande Nulla degli anni Ottanta, ne fece un vangelo portatile, un utilissimo manuale d’avviamento ai laboriosi piaceri del narcisismo. Difficile sarebbe indicare uno scrittore americano oggi tra i quaranta e i cinquanta che non abbia pescato qualcosa nell’Invenzione della solitudine, dal Rick Moody del Velo nero al Jonathan Franzen di Zona disagio, per citare due fra gli esempi migliori. Ma le influenze più significative sono quelle che si esercitano non sui più giovani, ma sui più vecchi. E lo splendido Patrimonio di Philip Roth, uscito nel 1991, osservato in controluce, sembrerebbe proprio rivelare qualche traccia consistente del libro d’esordio di Auster.
E in Italia? In quei tempi ancora privi di web, i libri e le notizie, almeno nel campo delle mode letterarie più raffinate, viaggiavano con una loro nobile lentezza. E fu così che la versione italiana dell’Invenzione della solitudine apparve solo nel 1993, firmata dal fedele e bravissimo Massimo Bocchiola, che in seguito avrebbe tradotto tutti i libri di Auster. Faceva parte dell’effimero ma raffinatissimo catalogo della milanese Anabasi, e non scalò certo le classifiche, com’era invece accaduto, un paio d’anni prima, ad American Psycho di Bret Easton Ellis. Ma se ne parlava, eccome se ne parlava. E passava di mano in mano, tra tanti apprendisti stregoni di quell’epoca ormai lontana. Certi libri erano dotati di una viralità che oggi possiedono solo i file di youtube. Erano capaci, come per magia, di creare un clima anche a prescindere dalla loro effettiva lettura.
Ma qual era il motivo di tanta sorpresa, chiedevano gli scettici — autobiografie e romanzi in prima persona, dove il protagonista corrispondeva tutto sommato all’autore, non si erano sempre scritti? Non era quello il punto nevralgico dell’«autofiction». Auster metteva in scena un soggetto che aveva ben poco a che vedere con un Casanova o un Hemingway. La sua premessa, il suo trampolino narrativo, era semmai una vita privata uguale a tutte le altre: la morte di un padre, un divorzio, la nascita di un figlio. Questa identità occupava il centro della ribalta senza possedere nessun requisito romanzesco. L’esistenza umana, semmai, è la cosa più priva di trama che esista nell’universo. I desideri e i bisogni la costringono nei circoli viziosi della ripetizione, e il potere assoluto del caso finisce per svuotarla di ogni senso apparente, di ogni direzione. Le catastrofi e le catarsi si susseguono senza nessuna logica, ammesso che si verifichino. E dunque, in quanto esseri umani normali, dotati di una vita quotidiana che non conosce alternative praticabili, noi, a rigore, non possiamo raccontare nulla di noi stessi. Se non il fatto che, in determinate condizioni della sensibilità, proprio in quella vita che è il contrario di ogni narrazione possibile, sembra proprio irrompere una storia. Che è una fata morgana, un angelo sterminatore, una potente allucinazione rivelatrice. Ed ecco allora l’Io dello scrittore che coglie la palla al balzo, si trasforma nell’unità di misura del caos del mondo, nel suo supremo criterio di verità. Quanto più procede armato di nome e cognome, e di tutti gli indizi capaci di renderlo concreto e riconoscibile, tanto più, in realtà, abbandona se stesso e i suoi lettori alla più arbitraria delle finzioni: l’illusione suprema di poter navigare nel mare dei fenomeni, di stringere fra le dita il bandolo della matassa, il filo d’oro di un destino.
Credo che nessuno, in Italia, sia stato finora capace di eseguire il trucco con l’ironia, la sapienza linguistica, l’intelligenza e la necessaria dose di cinismo profuse da Walter Siti in libri come Troppi paradisi e Il contagio. Se i discorsi sui generi e le loro fortune finiscono sempre per risultare generici e un po’ stucchevoli, ci sono sempre i singoli libri a riscattarli. Rimane però il dubbio che l’«autofiction», considerata al massimo delle sue possibilità artistiche, sia più una scommessa e un esperimento temporaneo che la chiave di volta di un’intera opera. A inventare troppo spesso la propria solitudine, tenendola in mano come un teschio di Amleto, si rischia di imitarsi e alla fine, inevitabilmente, di annoiarsi.