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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

IL RITIRO TRA LIBRI E GIARDINI NELL’EX CONVENTO DI CLAUSURA


Alle spalle della Basilica di San Pietro, vicino alla Fontana dell’Aquilone e a quell’orto dove vengono coltivati frutta e verdura, tutto biologico, comprese le arance usate per quella marmellata che Benedetto XVI ama spalmare ogni mattina sulle fette biscottate. È un indizio la nuova casa del Papa che ieri ha annunciato il gran rifiuto. Un indizio, uno dei tanti in verità, di come la sua scelta venga da lontano, di come tutto fosse già deciso da tempo. Di come l’annuncio che sembra aver sorpreso il mondo intero fosse non solo nell’aria ma addirittura già pianificato fin nelle sue piccole e quotidiane conseguenze.
Mattoncini marroni, fasce di marmo bianco, una scalinata d’accesso di nove gradini, il palazzetto è la sede del Mater ecclesiae, il monastero che ha ospitato per anni otto suore di clausura, ciascuna di una nazionalità diversa. Oggi le suore non ci sono più. I lavori di ristrutturazione del monastero sono partiti ai primi di novembre. «Quando saranno finiti il Papa si trasferirà lì» ha detto ieri il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Potrebbe essere tutto pronto già a fine marzo. Tutt’altro che un fulmine a ciel sereno, dunque. Perché persino in Vaticano ristrutturare casa (anzi un palazzo intero) non è certo uno scherzo.
In attesa delle fine dei lavori Ratzinger vivrà a Castelgandolfo, nella residenza estiva dei Papi. Ma poi si trasferirà qui, con i suoi gatti, il suo pianoforte. Soprattutto con i suoi libri. Nel monastero c’è già una biblioteca ma il nuovo progetto prevede la sua riorganizzazione per avere più spazio e più volumi a disposizione. Una modifica che aiuterà Ratzinger a tornare alla sua prima e vera passione, la lettura e lo studio.
L’edificio è di quattro piani: al secondo e al terzo ci sono 12 celle monastiche, mentre al piano terreno e nel seminterrato sono organizzati gli ambienti comunitari: mensa, dispensa, cucina, infermeria e archivio. La parte nuova è su due livelli per un totale di 450 metri quadri. Qui ci sono la Cappella e il Coro riservato alle claustrali, mentre al piano terra sono sistemate la portineria e il parlatorio. Non ci sono grandi decorazioni: giusto le vetrate artistiche e un bel crocifisso donato da Francesco Messina, scultore siciliano del secolo scorso.
Non è solo un’oasi di pace il Mater ecclesiae. Ma anche un simbolo: ospita il convento di clausura dal 13 maggio del 1994, quando Giovanni Paolo II decise di portare qui, nel cuore del Vaticano, quella che definì una «centrale di silenzio, di penitenza e di preghiera». Una data non casuale, il 13 maggio: l’anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima e, soprattutto, dell’attentato in piazza san Pietro, quei due colpi di pistola sparati da Ali Agca con tante zone grigie ancora da chiarire. Da allora, ogni cinque anni, si sono alternati diversi ordini di clausura. Le ultime prima dei lavori di ristrutturazione sono state le visitandine, prima ancora le benedettine che Ratzinger conosceva bene perché spesso frequentava il loro monastero di Rosano, in Toscana.
Non è una sorpresa che il Papa abbia scelto proprio questo pezzetto di Vaticano per il suo esilio. Spesso veniva qui per passeggiare in solitudine, lontano dagli sfarzi della Basilica, del Palazzo Apostolico e anche dei Musei che sono lì dietro. Al suo orto, poi, ha sempre dedicato un’attenzione particolare: quei 500 metri quadrati sono sempre stati curati proprio dalle suore di clausura, oltre che dai 27 giardinieri che hanno il loro quartiere generale proprio nella «casina» lì a fianco. Nessun fertilizzante chimico, solo letame per produrre, oltre alle arance e ai limoni delle marmellate, soprattutto zucche, zucchine, melanzane. «Le mura leonine creano un microclima favorevole a rendono i frutti dell’orto del Papa davvero speciali», spiegò qualche tempo fa la badessa, madre Sofia Cichetti. Le mura sono lì a pochi passi, fatte tirare su nell’848 da Leone IV per difendere il Vaticano dai saraceni. Ma il sacco di Roma c’era già stato due anni prima.

Lorenzo Salvia
lsalvia@corriere.it