Ilaria Maria Sala, La Stampa 12/2/2013, 12 febbraio 2013
MILITARI E VOLONTARI COSÌ LA CINA ADDESTRA GLI “HACKER ROSSI”
[Xiao Qiang]
Di nuovo viene lanciato l’allarme per l’hacking dalla Cina, vista ormai da più parti come il «Paese più pericoloso», come ha detto il direttore di Google, Eric Schmidt, pochi giorni fa. Abbiamo chiesto a Xiao Qiang, direttore del progetto China Digital Times, a Berkeley, di parlarci degli hacker cinesi:
Chi sono gli hacker cinesi?
«Ci sono due grandi categorie da contraddistinguere. Una è quella di cui si parla forse di più, che costituisce un tipo di hacking favorito da sponsorizzazione governativa e militare. Su questo, per ovvi motivi, le informazioni sono un po’ più difficili da ottenere, anche se la loro azione è visibile. Poi ci sono invece gli altri hacker, quelli che possiamo definire come i “patrioti”: persone che decidono in modo indipendente di dedicarsi a danneggiare siti esteri, in particolare, o di dissidenti, o di intercettare le informazioni altrui, che si tratti di quotidiani stranieri o giornalisti che per questi lavorano o gruppi in esilio che vogliono combattere. Questi, si chiamano “hacker rossi”, hong ke in cinese».
Come agiscono questi «hacker rossi»?.
«Una persona di mia conoscenza è stato per un certo periodo un hacker rosso: un giovane informatico brillante, motivato dal “patriottismo” e dall’emozione dell’hacking. Di solito questo tipo di hackers, contrariamente a quelli governativi, non ha nessun incentivo a mantenersi discreto, per questo si può capire qualcosa di loro andando su uno dei loro tanti website, che danno un’idea della loro ideologia e delle loro attività: come quelli di chinahacker.com, iper-nazionalisti, una comunità di hackers che lavora sia dentro che fuori dalla Cina ma che ha come loro principale obiettivo quello di portare avanti azioni che danneggiano chi determinano essere i “nemici della Cina”».
Quali sono i loro obiettivi?
«Principalmente colpiscono il Giappone, gli Usa e Taiwan. Non tutti restano in questo campo per sempre, e spesso attirano l’attenzione del governo: quello che conoscevo io, per esempio, dopo diversi anni ha lasciato, ed ha aperto una piccola azienda informatica, legittima. Poi, è stato avvicinato dal governo, affinché tramite la sua azienda fornisse computer gratuiti alle Ong. Di sicuro è un modo per controllarle, non è neutro che sia un ex hacker a essere incaricato di queste attività da parte del governo, in modo indiretto. Ma è un’evoluzione naturale: spesso queste persone dopo un periodo da freelance lavorano per il governo, anche se non tutti sono così espliciti nelle loro attività».
E gli hacker «istituzionali»i?
«Lo Stato sponsorizza l’hacking in modo estremamente aggressivo, e lo indirizza verso ogni tipo di obiettivo possibile. La strategia è ad ampio raggio. Non si tratta necessariamente di persone che sono in Cina in modo fisico, possono lavorare anche dall’esterno, anche se per la maggior parte sono per l’appunto cinesi, e in ogni caso sponsorizzati dal governo cinese».
Pechino non teme ricadute negative a livello internazionale?
«Abbiamo visto anche la Corea del Sud essere presa di mira in modo concertato da attacchi che probabilmente hanno origine in Cina. In certi casi, lo sforzo è per portare avanti hacking cancellando il proprio percorso, e dare l’impressione che queste azioni originino altrove, spesso da Taiwan, per screditare e confondere le acque».