Jean Daniel, la Repubblica 12/2/2013, 12 febbraio 2013
LO SGUARDO DI CAMUS
Sulle alture intorno a Tangeri un tempo c’era una scogliera detta del «kif», perché il locale, alquanto rudimentale, che vi sorgeva sopra forniva da fumare questa cannabis un po’ grossolana. Quello che sorprende, su questa collina che sovrasta l’oceano, è vedere dei banchi accatastati gli uni sugli altri, come se ci si trovasse di fronte a una scena teatrale o dentro una scuola. Lo spettacolo è l’acqua a perdita d’occhio, di qua l’oceano, più a est il mare. Su questa scogliera i giovani sognano. Io credevo che lo facessero soltanto i vecchi. Hanno il desiderio di perdersi in questa distesa indistinta, dove nulla interrompe lo sguardo. Stanno là, pietrificati e felici, come ne ho visti spessissimo, come mi sono visto talvolta, di fronte al deserto.
Un giorno Camus ha invitato un uomo giovanissimo a passare da lui alla
Nouvelle Revue Française.
Mi ha scelto senza conoscermi veramente, sembrava smanioso di parlare. Tornava dal deserto algerino. Non ricordavo di aver mai conosciuto un
uomo tanto raggiante. Sembrava innamorato. E in effetti era posseduto dal suo viaggio. Usava termini religiosi. Era stato visitato e ne tornava accompagnato. Quanto l’ho amato quel giorno! Quanto sono stato felice che mi confidasse quella grazia! Ma Camus ha terminato il racconto di quella trance con un aneddoto. Passando da Algeri era andato a rivedere la baia delle sue felicità, dall’alto di quello che si chiamava il balcone Saint-Raphaël. Lì aveva incontrato un algerino molto modesto, un uomo di mezz’età, dal viso grave, dolce e segnato, e che notandolo, dopo aver terminato la sua meditazione di fronte alla calma degli Dei, gli aveva detto: «Tu guardi, tu guardi come se conoscessi». Perché conosco, ha risposto Camus. L’arabo lo ha contemplato a lungo, combattuto fra lo scetticismo e la simpatia. Poi gli ha accordato un sorriso di benvenuto e di benedizione. Camus raccontava tutto questo felicissimo. «Quell’arabo e io sapevamo tutto quello che serve sapere sul mondo»,
mormorò per concludere. In seguito ho capito che cosa volevano dire, lui e quell’arabo. Un tuffo nell’Oceano primordiale, estraneo e allo stesso tempo materno, un inserimento nel grande vuoto che è anche il grande tutto e l’impressione inebriante di far parte del cosmo.
Non so se sarei riuscito a fumare del kif in un posto diverso da Tangeri. E non so nemmeno se avrebbe avuto lo stesso effetto. Credo che quella città sia un po’ folle. Mi ha dato le vertigini. In quel momento è la sola città del Nordafrica che sia veramente libera, nella sua allegria e nella sua giovinezza. Si sveglia intorno alle sei della sera e a quel punto comincia ad abbandonarsi a una serie ininterrotta di rappresentazioni. I tangerini sono dei sonnambuli, nel duplice senso della parola. Sono
instabili, come il sole sullo Stretto, incerti come i venti che esitano fra due mari, brulicanti come le onde che si susseguono sulle spiagge immense, deserte, infinite. Nella folla brunastra e sensuale passano a volte correnti bionde di vichinghi e valchirie. La capigliatura che ricade sulle spalle, la criniera alta, la schiena carica di un enorme zaino da campeggio, tenuto fermo con delle cinghie sulle cosce nude. Queste correnti circolano nell’indifferenza generale, tanto non suona strano da queste parti lo straniero, tanto si sente a casa propria in questa appendice cosmopolita dell’Africa, questo istmo britannizzato dell’Andalusia. Ho anche l’impressione che l’effetto del kif non sia lo stesso nei giorni in cui l’Atlantico si infervora e nei giorni in cui regna il Mediterraneo.
In ogni caso, è Tangeri che
mi ordina di ritornare a Blida.
Da noi gli anziani dicevano e il padre ripeteva cose ben diverse. Per esempio, e Dio sa quant’erano solenni allora, che non si poteva giudicare riuscita la propria vita se non si invecchiava nella propria città e non si moriva in casa propria. Bisognava andare a consultare il patriarca a casa sua, bisognava che i bambini diventati adulti fossero presenti per chiudergli gli occhi una volta arrivata la sua ora. La città natale e la casa di famiglia sono i rifugi del sacro. Credevo di aver relegato l’attaccamento alla città e alla casa avita nella polvere dei continenti scomparsi quando d’improvviso, grazie a una pipa di kif, ho preso a pensarvi, ripensarvi e poi a sognarli. Ho cominciato ad assomigliare sempre più all’hidalgo della Mancha, che confonde i ricordi e i progetti, il fantastico e il reale e che non può avere altra cornice di vita che l’immaginario. I miei personali romanzi cavallereschi si sono trasformati in quelli di un piccolo borgo diventato capitale, di una piccola casa diventata castello e di tutti i personaggi romanzeschi che per me hanno contato quanto degli amici veri.
Allora, poiché non sogno di essere bocciato alla maturità perché non riesco ad afferrare il concetto di valenza nella chimica, poiché non sogno di essere contemporaneamente campione di tennis, direttore d’orchestra e grande attore, eccomi improvvisamente proiettato a casa mia, e sento il rumore delle cascate e delle sorgenti nelle montagne affacciate sul mare, nella città degli avi e nella casa di famiglia. La sospensione della pena è terminata.
L’intervallo è finito. L’esilio dimenticato. Vengo a prolungare la stirpe. Prolungo la continuità. La vita non si interrompe, si perpetua grazie alla vitalità delle radici. Ci saranno tanti rami che cadranno insieme alle foglie, ma l’albero rimarrà, unico ed eterno. Ma a ogni modo la casa è la trasmissione, la durata, non è la morte. Tutto continua. Eccomi. Arrivo. Riapro la bottega chiusa il giorno prima da mio padre. Riprendo l’eredità. Ho indossato il grembiule grigio che gli serviva per proteggersi dalle nuvole di farina. Sento mia madre che grida «Jules» dal balcone, e la vedo che mi sorride quando si accorge che sono a fianco di mio padre. Vestito come lui. Al mio posto. A svolgere la mia funzione. Là dove serve. Là dove si deve. Tu non volevi che io restassi. Per lo meno è quello che dicevi. Per favorire le mie partenze dicevi: «Va, figlio mio». Ma mi facevi scrivere: «Quando tornerai, non avremo più il diritto di essere infelici ». Tu pensavi alla guerra e al fatto che io potessi scamparvi, non al mio ritorno fra voi. Ma eccomi: sono
qui. Ti faccio rivivere attraverso il mio ritorno, e non hai più il diritto di essere infelice. Perché non sono tornato a mani vuote. Non sono un viaggiatore senza bagaglio. Metto ai tuoi piedi tutte le ricchezze della mia vita vissuta e della mia vita sognata. Ho radunato tutto. Non lascio dietro niente. Niente e nessuno. Qui a Blida, Ourida piccola rosa, ritrovo tutto a sessant’anni di distanza, la piazza d’armi attorno a cui passeggiano gruppi diversi e chiedono notizie gli uni degli altri ogni volta che si incrociano, a distanza di qualche minuto. Ho ritrovato Badigel, il principe guercio e ruffiano, i piccoli lustrascarpe più informati di tutti, la strada degli ottonai, del ciabattini, dei mozabiti, e poi il mercato arabo, dove per la prima volta mi sento a casa, mentre quand’ero bambino mi era ostile. Mi indirizzano verso il giardino Bizot, oggi giardino Lumumba.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © Editions Gallimard (Parigi), 2013