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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

CELESTINO V, MA NON SOLO I TORMENTI DIETRO IL “GRAN RIFIUTO”


In quanti modi si possa lasciare «il più bel di tutti i manti», come lo definiva l’Ariosto, è materia che una rapida esplorazione della bimillenaria storia della Chiesa basta a chiarire: così pochi sono i casi. L’esercizio del ripercorrerli si presta tutt’al più a dare un’idea di quanto varia, complicata e controversa sia la storia della Chiesa cristiana d’Occidente, spesso immaginata nel segno di un’ininterrotta e immutabile e perfetta continuità. Fratture e diversità profonde di contesti e di personalità caratterizzano i pochi casi di pontefici dimissionari o dimissionati. Leggendo i loro profili nell’eccellente «Enciclopedia dei Papi » edita dalla Treccani per il giubileo del 2000, si ha la netta impressione che un nome solo resterà a galla quando la novità dell’atto di Papa Ratzinger spingerà a guardare piuttosto nei problemi odierni della Chiesa e nelle nebbie del domani che non tra le polveri del passato: è il nome di Celestino V, il papa che «fece per viltade il gran rifiuto». Ma sbrighiamoci intanto degli altri.
Col vescovo di Roma Clemente I, esiliato nel 97 d. C. e morto poco dopo, abbiamo il primo caso di un vescovo di Roma dimessosi perché impossibilitato a svolgere le sue funzioni. Sappiamo qualcosa di più di papa Ponziano, diventato vescovo di Roma intorno al 230. Nel 235, con la ripresa della politica anticristiana da parte dell’imperatore Massimino fu deportato in Sardegna, l’«insula nociva», per il clima insalubre e soprattutto per
i lavori alle miniere. Fu qui che, impossibilitato a svolgere il suo ministero, si dimise («discinctus est») il 28 settembre di quello stesso anno, poco prima di morire sotto la frusta dei sorveglianti delle miniere sarde. Due casi, due istantanee di un tempo in cui il ministero di vescovo a Roma si pagava con l’esilio e con la vita. Saltiamo qualche secolo e sbarchiamo nel tempo del cristianesimo vittorioso, religione unica ed esclusiva dell’Impero. Ma nell’Italia lacerata dalla guerra greco-gotica, quando la penisola fu campo di battaglia nel conflitto tra l’imperatore d’Oriente e i Goti e la cristianità si divise anche sulle dottrine e sulle obbedienze, la posizione del papa romano poteva rivelarsi scomoda: la vicenda di Silverio, vescovo di Roma dal 536 al 537, fu segnata dall’atto con cui fu dimissionato dal nuovo pontefice Vigilio gradito all’imperatrice
Teodora. Né martirio per la fede né conflitti politico-religiosi ebbero a che fare con la vicenda di Benedetto IX, diventato papa nel 1033 in giovane età, terzo membro della potente famiglia dei conti di Tuscolo a sedersi sul trono di Pietro. Resta celebre nella storia del papato per la sua vita dissoluta, per le lotte delle fazioni che si contendevano la sua cattedra e per aver fatto mercimonio dell’ufficio santo. Pontefice per tre volte, la seconda abdicò, sembra perché aveva deciso di sposarsi. Ma tornò
sulla cattedra di San Pietro ancora una volta. Siamo qui al fondo più nero del degrado romano del papato: ma anche alla vigilia di una svolta profonda, quella riforma gregoriana che doveva cambiare profondamente il profilo del papato e della Chiesa di Roma.
Decadenza, deformazione, bisogno di riforma sono il contesto anche della vicenda di Gregorio XII, il patrizio veneziano Angelo Correr diventato papa nel 1406. Si era nel pieno dello scisma che lacerava la Chiesa d’Occidente divisa
tra due papi, quello di Roma e quello d’Avignone, a cui se ne aggiunse un terzo. Lacerazione profonda: ogni convento, ogni vescovo, ogni cristiano doveva decidere a chi obbedire. Papa Gregorio se la cavò più accortamente dei suoi antagonisti: quando l’imperatore Sigismondo convocò il concilio a Costanza, si dimise e si spogliò del manto in pieno concistoro, ottenendo un onorevole pensionamento.
Ma è l’avventura del povero cristiano Pietro del Morrone, il figlio
di contadini fattosi eremita nelle caverne delle montagne abruzzesi che grazie a Dante ha fissato nelle menti l’idea dell’abbandono della tiara come atto di viltà. L’elezione gli cadde addosso all’improvviso nel luglio 1294: fu, si disse, una ispirazione divina a suggerire la scelta a un conclave bloccato da braccio di ferro tra le casate romane degli Orsini e dei Colonna. Ma lui pensò subito alle dimissioni: gliene suggerì i modi il cardinal Benedetto Caetani, dotto canonista. I motivi erano già allora quelli della vecchiaia e della cattiva salute. Nell’atto formale, compilato nel dicembre, volle aggiungervi quelli della sua impreparazione e del desiderio di tornare alla pace nel romitorio. Sappiamo come finì: fuggiasco sulla montagna, inseguito e catturato dagli uomini del Caetani che, diventato papa Bonifacio VIII, lo volle sotto il suo controllo, morì prigioniero a Castel Fumone il 19 maggio 1295.
Viltà, la sua? Piuttosto scelta inevitabile, fallimento obbligato del progetto di un papato spirituale. La possente macchina del governo papale era già allora e assai più di oggi troppo implicata nelle questioni politiche e finanziarie del mondo, lanciata com’era da tempo verso il progetto ambizioso di dare vita a un potere totale sul mondo e sulle coscienze, per essere affidata alle mani di un uomo che dalle parole di Cristo aveva accolto e fatto suo l’invito alla povertà e al distacco dal mondo. E forse anche la meditazione sulla vita di Cristo che ha occupato i libri di papa Ratzinger ha un qualche nesso con queste improvvise, insolite, rivoluzionarie dimissioni che sconvolgono ancora una volta le carte del futuro della Chiesa.