Notizie tratte da: Graziano Graziani # Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni # Edizioni dell’Asino 2012 # pp. 275, 15 euro., 11 febbraio 2013
Notizie tratte da: Graziano Graziani, Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni, Edizioni dell’Asino 2012, pp
Notizie tratte da: Graziano Graziani, Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni, Edizioni dell’Asino 2012, pp. 275, 15 euro.
(vedi anche biblioteca in scheda
e libro in gocce in scheda 2229694)
Micronazioni «Piccoli Stati indipendenti, non riconosciuti dagli Stati affiliati all’Onu. Esiste una definizione per questo tipo di realtà: micronazione. Questo termine viene coniato negli anni Settanta del Novecento per definire le realtà, spesso effimere, che in quegli anni si dichiaravano indipendenti. Il più delle volte, come indica la parola stessa, l’estensione territoriale è microscopica».
Regno di Talossa La nascita del fenomeno degli Stati-individuo viene fissata convenzionalmente in un anno preciso, il 1979, con la fondazione del Regno di Talossa. Siamo a Milwaukee, negli Stati Uniti, e mancano ancora dodici anni alla nascita del web. Il regno, fondato dall’allora quattordicenne Robert Ben Madison, si estendeva soltanto alla sua cameretta, al secondo piano di una casa in stile Tudor di inizio secolo. La versione ufficiale recita così: «Il giorno dell’indipendenza cadde il 26 dicembre 1979. Jimmy Carter era il Presidente degli Stati Uniti, e sotto la sua leadership gli Usa stavano attraversando l’ennesima crisi nelle relazioni internazionali. Distratto dalla crisi degli ostaggi in Iran, il dipartimento di stato di Carter non si accorse della secessione di una piccola ma vitale parte dello Stato del Wisconsin».
In casa Il nome Talossa fu scelto perché, in finlandese, la parola significa letteralmente “in casa”. In seguito il regno si espanse coinvolgendo alcuni amici di Madison, che nel frattempo aveva assunto il titolo di Re Robert I, e nei primi anni Novanta Talossa fu una delle prime micronazioni a spostarsi sul web. Nel 1981 il regno si era già dotato di una bandiera, composta da due bande orizzontali equivalenti, una verde e una rossa, e di una sua propria cultura: sviluppò una lingua autonoma, il talossiano, e una letteratura. La sua storia, ricca di dettagli e dispute politiche – per ben due volte, nel 1997 e nel 2004, gruppi di cittadini talossiani operarono una secessione dal regno per fondare nuove nazioni immaginarie – ne ha fatto l’archetipo della micronazione digitale, tanto che c’è chi fa risalire il conio stesso del termine “micronazione” all’epopea talossiana.
Moresnet Tra gli antenati storici delle micronazioni il Moresnet, un piccolo Stato neutrale creato artificialmente nel 1816 perché i suoi grandi vicini, Prussia e Paesi Bassi, non trovarono un accordo su chi dovesse amministrarlo.
La miniera del Moresnet L’unica attività economica del Moresnet, che nel periodo di massima espansione demografica non superava i cinquemila abitanti, era la miniera di zinco, gestita dalla compagnia di estrazione Vieille Montagne. Di cittadini originari di quel distretto ve ne erano pochi: alla nascita del Moresnet, nel 1816, si contavano appena 256 abitanti. Tuttavia, la prospettiva del lavoro in miniera attirò molta gente. Un altro vantaggio di cui godevano i residenti del Moresnet era la possibilità di evitare il servizio militare nello Stato d’origine, libertà a cui il Belgio mise un freno nel 1854 e la Prussia nel 1874. Dopo quella data i soli a poter godere dell’esenzione dalla leva e (oppure scegliere di prestarla
volontariamente in Belgio o in Prussia) erano i cittadini effettivamente nati lì, o i discendenti degli abitanti originari, che erano considerati degli apolidi. Con l’esaurimento della miniera nel 1885 l’esistenza del Moresnet fu messa in forse. Restavano in piedi alcune attività, negozi, una banca, un ospedale, ma non sufficienti a garantire possibilità di lavoro.
Il casinò del Moresnet Nel 1903 venne aperto un casinò: l’idea era di attirare gente dal Belgio, dove il gioco d’azzardo era proibito; fu l’opposizione della Prussia, stavolta, a segnare la fine di questa iniziativa.
Nel frattempo furono aperte ben tre distillerie di gin, grazie al regime fiscale agevolato nel Moresnet, che rendeva la produzione di alcolici un affare particolarmente redditizio. L’iniziativa più eccentrica per il futuro del Moresnet venne dal dottor Molly, che propose nel 1908 di farne il primo Stato esperantista del mondo. L’iniziativa trovò un sostegno
grazie al vicino comune di Kelmis, in Belgio, dove si trovava una grande comunità di esperantisti. Quello stesso anno il convegno mondiale di esperanto, riunitosi a Dresda, proclamò il Moresnet Neutrale capitale mondiale della comunità esperantista. Il fatto che né Belgio né Prussia rinunciassero alle loro rivendicazioni, tuttavia, affrettò la fine del Moresnet. Il trattato di Versailles del 1919 lo assegnò al Belgio, e nel 1920 lo Stato cessò formalmente di esistere (oggi il Moresnet è parte del territorio del comune di Kelmis).
Errori toponomastici Cospaia, una piccola frazione del comune di
San Giustino, in provincia di Perugia, è stata per quasi quattro
secoli – tra il 1441 e il 1826 – una repubblica indipendente,
nata per errore. Papa Eugenio IV cedette Borgo Sansepolcro alla
Repubblica di Firenze nel 1441, come pegno per la somma di
25mila fiorini prestati da Cosimo de’ Medici al pontefice, impegnato
a contrastare il concilio di Basilea dove era stato eletto un antipapa. Quando si trattò di stabilire i nuovi confini con lo Stato della Chiesa, fissati lungo un corso d’acqua chiamato Rio, nessuno tenne conto che a cinquecento metri di distanza esisteva un altro torrente chiamato nello stesso modo. I rappresentanti del papa considerarono confine il Rio a sud, quelli di Firenze il Rio a nord, e gli abitanti nel mezzo si affrettarono a dichiarare l’indipendenza. L’errore nasceva dal fatto che i rappresentati dei due Stati avevano lavorato autonomamente alla ridefinizione dei confini, ma né i Medici né il Papato decisero di porvi rimedio, perché uno
Stato cuscinetto faceva comodo a entrambi.
La Repubblica di Cospaia La libera Repubblica di Cospaia fu riconosciuta ufficialmente nel 1484: contava un’estensione di appena 330 ettari. I suoi abitanti non erano soggetti alle tasse dei due stati confinanti, né le merci ai dazi doganali. Questo garantì una certa prosperità a Cospaia,
soprattutto verso la fine del Cinquecento, quando fu introdotta la coltivazione del tabacco. Il consumo di “erba tornabuona” – così veniva chiamata all’epoca, dal nome dell’abate Nicolò Tornabuoni che per primo l’aveva introdotta nella zona, di ritorno da un viaggio in Spagna – era osteggiato dai governi e fortemente tassato. Alcuni papi erano giunti a scomunicare chi ne faceva uso. In un simile regime di proibizionismo, Cospaia divenne la “capitale del tabacco”, e ancora oggi alcune varietà vengono chiamate col nome della minuscola repubblica. Nel suo ultimo secolo di vita la Repubblica di Cospaia visse alterne vicende, ma il suo declino era cominciato: agli inizi dell’Ottocento era più che altro un ricettacolo di contrabbandieri, che sfruttavano l’assenza di controlli doganali e di tasse. Così, nel 1826, su richiesta di quattordici rappresentanti del territorio che firmarono un atto di sottomissione, Cospaia fu annessa allo Stato della Chiesa e perse la sua indipendenza.
L’Isola Ferdinandea L’Isola Ferdinandea è un lembo di roccia che si trova nel tratto di mare tra l’isola di Pantelleria e il comune di Sciacca, nella provincia di Agrigento. Oggi si trova sei metri sotto il livello del mare, ma nel 1831 l’isola emerse dalle acque a causa dell’intensa attività vulcanica della zona. Quando fu avvistata, misurava quattro chilometri
quadrati di superficie e si estendeva in altezza fino a sessantacinque
metri sopra il livello del mare. Il profilo dell’isola era conico, essendo formato sostanzialmente dalla bocca del vulcano e dai materiali scaturiti dall’eruzione. L’apparizione della nuova terra destò l’immediato interesse
delle potenze europee, che vedevano in quel piccolo avamposto
una posizione strategica nel Mediterraneo. La prima a rivendicarne
il possesso fu l’Inghilterra: l’ammiraglio Sir Percival Otham, di stanza in quel tratto di mare, spedì il capitano Jenhouse a piantare l’Union Jack sulla nuova isola, ribattezzata Isola di Graham – nome che ancora oggi contraddistingue il banco sottomarino. Era il 24 agosto del 1831.
La presa di posizione inglese mandò su tutte le furie il Regno delle Due Sicilie, poiché l’isola era comparsa nelle sue acque. Fu la popolazione stessa a chiedere al sovrano, Ferdinado II, di prendere provvedimenti per rivendicarne la proprietà. Nel frattempo gli abitanti della costa ribattezzarono l’isola Corrao, dal nome del capitano a cui fecero pervenire la richiesta. [...] Anche i francesi decisero di rivendicarne il possesso: la ribattezzarono Isola Iulia, dal nome del mese della sua comparsa, e innalzarono il tricolore francese sulla sommità dell’isola. A quel punto, Ferdinando II decise di prendere posizione, ricordando che l’isola era comparsa nelle acque del suo regno. Il capitano Corrao, alla guida della corvetta Etna, fu inviato a piantare la bandiera borbonica sull’isola, ribattezzata Ferdinandea in onore del sovrano. L’isola cominciò a inabissarsi l’8 dicembre.
Targhe Successivamente l’isola Ferdinandea ricomparve e scomparve varie volte, nel 1846 e nel 1863, dando di nuovo il la a possibili dispute territoriali: Francia e Inghilterra, difatti, non avevano mai risposto alle sollecitazioni di Ferdinando II. Oltre un secolo dopo, la questione non si era ancora esaurita. Nel 1968, dopo il terremoto nella Valle del Belice, le acque attorno al banco di Graham cominciarono a ribollire; si parlò di una possibile ricomparsa dell’isola, notizia che ebbe come effetto alcuni
movimenti strategici di navi britanniche che si trovavano nei dintorni,
in acque internazionali. L’isola non riemerse, ma per prevenire eventuali rivendicazioni, la popolazione della Sicilia pose una targa sulla superficie del banco di Graham con la scritta “L’Isola Ferdinandea era e resta dei siciliani”.
Bandiera tricolore Nel 2002, quando a seguito di una scossa sismica si parlò di una possibile riemersione, alcuni sommozzatori italiani piantarono il tricolore sulla cima del vulcano sottomarino, per prevenire nuove dispute. La sommità dell’isola Ferdinandea – che nel 1986 venne persino scambiata per un sottomarino libico dall’aviazione statunitense e colpita con un missile – rimase a circa sei metri sotto il livello del mare, dove si trova tutt’ora.
La Repubblica di Minerva La Repubblica di Minerva durò appena nove mesi. L’idea di fondare una repubblica venne al miliardario Michael Oliver agli inizi degli anni Settanta. Individuato un atollo in mezzo al Pacifico, a sud delle Isole Fiji, la cui appartenenza non è stata rivendicata da nessuno, Michael Oliver decide di utilizzarlo come base per costruire un’isola artificiale. A questo scopo, il miliardario fa arrivare dall’Australia delle chiatte cariche di sabbia, con la quale riesce a innalzare la superficie del banco di scogli oltre il livello delle acque, quel tanto che basta per costruirci sopra una piccola torre. Il 19 gennaio del 1972 Oliver proclama solennemente la nascita della Repubblica di Minerva, la più piccola repubblica del mondo, issando sulla torre la bandiera nazionale: un drappo
blu, con al centro una torcia contenuta in un cerchio, entrambi gialli. Quindi chiede il riconoscimento formale agli Stati vicini. Australia, Nuova Zelanda, Fiji, Nauru, Tonga, Samoa e Isole Cook si riuniscono il 24 febbraio in una conferenza internazionale per discutere dell’accaduto. Il timore degli Stati del Sud Pacifico è che, dopo Minerva, qualunque miliardario eccentrico con il pallino dell’indipendenza possa seguire l’esempio di Oliver, scombinando gli equilibri dell’area. Così i partecipanti decidono di avallare la richiesta di Tonga, che reclama
il possesso dell’atollo. Nel frattempo a Minerva fervono i lavori per rendere la repubblica uno Stato a tutti gli effetti. Oliver vara una valuta, il dollaro di Minerva, coniato in monete dal taglio inusuale: ognuna vale 35
dollari. E nel mese di febbraio viene eletto un presidente provvisorio,
Morris C. Davis. Ma nel giugno del 1972 Tonga rivendica ufficialmente Minerva. Sua maestà, Taufa‘ahau Tupou IV, dirama il seguente proclama: “In considerazione del fatto che le barriere di scogli conosciute con i nomi di Banco di Minerva Nord e Banco di Minerva Sud sono state utilizzate per lungo tempo come luogo di pesca dal popolo di Tonga, e che le isole create su questi banchi note con il nome di Teleki Tokelau e Teleki Tonga sono da tempo considerate appartenenti al Regno di Tonga; e in considerazione del fatto che è ora opportuno che si confermi i diritti del Regno di Tonga su queste isole; di conseguenza affermiamo e proclamiamo che le isole, le rocce, i banchi di scogli e le acque comprese
entro un raggio di dodici miglia delle stesse fanno parte del nostro Regno di Tonga”. Qualche tempo più tardi una spedizione militare mette fine al sogno di Minerva, ammainando per sempre la bandiera della repubblica. Nel settembre del 1972 il Forum del Sud Pacifico riconosce la rivendicazione di Tonga e chiude definitivamente la partita sul piccolo atollo.
L’Isola delle Rose 1 L’Isola delle Rose è stato il più ambizioso tentativo italiano di creare una nazione di fondazione. Si tratta di un’isola artificiale
costruita al largo delle coste riminesi, che dichiarò l’indipendenza
dall’Italia nel 1968 ma la cui epopea durò solo cinquantacinque giorni. L’idea di costruire un’isola in acque internazionali fu dell’ingegner
Giorgio Rosa. Siamo nel 1956. Rosa lavora nel settore edile,
dove si scontra quotidianamente con iter burocratici kafkiani.
L’irritazione per la burocrazia si somma alle idee dell’ingegnere,
che considera l’Italia un paese asservito agli interessi americani.
«Non potevi fare nulla che i politici non volessero», scrive in un
memoriale intitolato Il fulmine e il temporale di Isola delle Rose.
«I preti, con le loro assurde teorie e le loro sette ti inchiodavano
e volevano che tu non facessi nulla che a loro non garbasse; i
comunisti cercavano di combattere i signori e di portar via loro,
con la terra, anche la loro ragione di esistere; solo i politici, asserviti
ai russi o agli americani, avevano un futuro». Le alternative
individuate da Rosa sono due: trasferirsi in un paese davvero libero,
oppure farne nascere uno. Due anni più tardi, l’ingegner Rosa comincia lo studio per la realizzazione di una struttura composta da un telaio di tubi d’acciaio. Il progetto diventerà il brevetto industriale n° 1799/A/68.
Oggetto del brevetto è un “sistema di costruzione di isole in
acciaio e cemento armato per scopi industriali e civili”.
L’Isola delle Rose 2 Nell’agosto del 1967, l’isola apre al pubblico. L’anno
dopo dichiara formalmente l’indipendenza: è il 1° maggio del 1968. L’isola adotta una bandiera, un vessillo triangolare arancione su cui campeggia lo stemma della micronazione, tre rose rosse in campo bianco. L’esperanto diventa la lingua ufficiale del nuovo Stato, che assume la denominazione di Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj.
L’Isola delle Rose 3 L’isola, da idea suggestiva, comincia a suggestionare: si favoleggia di night club, di un futuro casinò, qualcuno parla di prostituzione, altri di una radio pirata. In realtà la grossa “antenna” dell’isola è una trivella per l’acqua dolce, mentre l’unica attività godereccia che vi si svolge, stando a quanto racconta il suo creatore, sono delle “grandi mangiate”. Nel frattempo le navi dirette a Trieste e Ancona deviano un poco la loro rotta per far vedere ai loro passeggeri la strana isola sorta in mezzo al mare. L’indipendenza però dura solo cinquantacinque giorni. Il 25 giugno del 1968 una decina di pilotine dei carabinieri e della Guardia di finanza circondano l’isola e la occupano militarmente. L’11 febbraio 1969 i sommozzatori della marina militare segano i raccordi tra i pali e minano con 75 chili di esplosivo per pilone. Ma l’esplosione non sortisce l’effetto sperato: la struttura resiste. Resisterà anche a una seconda esplosione, realizzata con 120 chili per palo, segno che il telaio era costruito per durare nel tempo. Ma la stabilità della
struttura è compromessa in modo irrimediabile: l’Isola delle Rose
si inabissa il 26 febbraio 1969 a causa di una burrasca.
Oileán Thoraigh 1 Tory Island è una piccola isola dell’Ulster irlandese, che appartiene alla contea del Donegal. Il suo “vero” nome gaelico è
Oileán Thoraigh, e la comunità che ci abita non arriva alle duecento
unità. Nonostante le dimensioni – appena cinque chilometri quadrati – l’isola di Tory è considerata una delle zone più importanti per quanto riguarda la conservazione del gaelico, la lingua originaria dell’Irlanda: la sua comunità, infatti, si esprime prevalentemente in quella lingua. Situata circa dodici chilometri al largo della costa settentrionale e non sempre raggiungibile quando il mare è mosso, Oileán Thoraigh è certamente un
mondo a parte. Non solo perché chi ci vive conserva un patrimonio
culturale e uno stile di vita sempre più rari. Ciò che rende Tory unica è una sua particolare tradizione: Oileán Thoraigh è l’unica isola d’Irlanda ad avere un re. L’attuale sovrano di Tory Island si chiama Patsy Dan Rodgers
– o Patsy Dan Mac Ruaíri, in gaelico. È un artista, soprattutto pittore e musicista, è non c’è nulla di strano: la piccola comunità di Tory è interamente formata da artisti fin dagli anni cinquanta, tradizione di cui gli isolani vanno particolarmente orgogliosi. E così, in un’isola talmente piccola e remota che non ha nemmeno un pub – la gente va a bere al Tory Island Social Club, un luogo dove si praticano antiche danze gaeliche come il Ceilidh – esiste invece una Tory School of Art. Patsy Dan Rodgers è stato uno dei primi membri della scuola, fondata e patrocinata dal pittore
inglese Derek Hill, che abitò a lungo nel Donegal. Il Rí Thoraí (re di Tory) non è riconosciuto dal governo irlandese e di fatto non ha alcun potere né ricopre alcuna funzione, se non quella di accogliere bonariamente i rari visitatori dell’isola e raccontare loro qualche vecchia storia davanti a una pinta di birra. Il re, infatti, è espressione del popolo e la carica non è ereditaria, bensì elettiva. Sono gli abitanti dell’isola a scegliere per acclamazione il loro sovrano, che resta in carica per tutta la vita.
Oileán Thoraigh 2 Nel 1974, Tory Island rimase senza collegamenti con la terraferma per ben due mesi, esperienza che segnò molto gli abitanti
dell’isola, tanto che qualcuno decise di trasferirsi altrove.
Il Principato di Seborga 1 Seborga, paesino della Liguria che conta appena 366 anime. Situato nell’entroterra di Bordighera, a due passi dalla
frontiera con la Francia, il Principato di Seborga nel 1963 – disconoscendo l’appartenenza all’Italia – ha eletto un proprio sovrano: Giorgio I, al secolo Giorgio Carbone, che governerà fino alla sua morte, avvenuta nel 2009.
Il Principato di Seborga 2 Secondo i suoi abitanti, l’etimologia del nome “Seborga” risale al 400, quando l’insediamento era noto col nome di Castrum Sepulcri. Ribattezzato dagli Occitani Sepulcri Burgum, poi contratto in Seporca o anche A Seborca, come viene chiamato nel
dialetto ligure, ha assunto infine la forma odierna. Feudo di proprietà
dei conti di Ventimiglia, viene ceduto nel 954 ai monaci benedettini di Lerino. Consacrato principato del Sacro Romano Impero nel 1079, nel 1118 divenne l’unico Stato sovrano Cistercense dopo che San Bernardo di Chiaravalle istituì nel principato i primi nove Cavalieri del Tempio, meglio noti come templari. Da allora il piccolo principato è rimasto un regno
autonomo almeno fino al 1729, quando Vittorio Amedeo II di Savoia ne trattò l’acquisto. Ma il rogito della cessione non fu registrato, e a tutt’oggi non esistono atti ufficiali che provino che il piccolo principato sia ufficialmente passato in mani sabaude. I seborghini fanno leva proprio su questa dimenticanza. “Con il trattato di Aquisgrana del 1748 – si legge sul sito del principato – Seborga non entrò a far parte della Repubblica di Genova così come non passò, dopo il Congresso di Vienna del 1814, al
Regno di Sardegna. Nel 1861 non fu acclusa al Regno d’Italia, né c’è menzione nel 1946 che il territorio del Principato sia stato assegnato alla Costituente che ha formato la Repubblica Italiana”. A conferma di questa tesi, i seborghini citano un documento del 1934, firmato da Benito Mussolini, in cui si dichiara che il “principato di Seborga non appartiene all’Italia”.
Il Principato di Seborga 3 Il principato emette francobolli, passaporti
e persino targhe automobilistiche da applicare accanto a quelle italiane. Batte anche moneta, facendosi forza di un’antica concessione.
Nel 1666 l’abate Cesare Barcillon concesse a Seborga di coniare
monete in oro e argento con l’effigie di San Benedetto e l’iscrizione
Decus et ornamentum ecclesiae. La zecca restò in funzione
fino al 1688, quando chiuse per le proteste del re di Francia. Ma
visto che il diritto non fu abrogato, Giorgio I la fece riaprire nel
1995. Il “luigino”, del valore di sei dollari Usa, può essere cambiato
al Palazzo (l’antica zecca) e all’ufficio turistico, e viene
accettato da tutti gli esercizi della zona (ovviamente, il corso
legale è limitato a Seborga). I collezionisti possono evitare la trasferta
facendosi spedire l’intero kit di monete: basta un pagamento via
internet e “li riceverete in tutta sicurezza a casa vostra”.
L’Isola di Sark 1 La piccola isola, che conta appena seicento abitanti, è vicina a Guernsey, un possedimento della corona britannica che non fa parte del Regno Unito, e gode di una speciale autonomia in vari campi, tra cui quello fiscale. Sark ha un suo proprietario, o Seigneur, che versa le dovute competenze alla corona inglese, rimaste invariate: una sterlina e settantanove pence l’anno. Per il resto nulla è dovuto al fisco britannico, i residenti pagano soltanto una tassa locale. Un bel vantaggio, che non è sfuggito ai due fratelli multimiliardari David e Frederick Barclay, proprietari del quotidiano “Daily Telegraph”. I due magnati inglesi hanno
acquistato negli anni Novanta Brecqhou, una piccola isola accanto
a Sark, di cui fa parte amministrativamente, e vi hanno stabilito la loro residenza, acquisendo il diritto di sedere nello Chief Pleas, l’assemblea dei tenutari.
L’Isola di Sark 2 A Sark l’ingresso alle automobili è proibito, si può circolare soltanto in calesse, a cavallo o in bicicletta; gli unici mezzi a motore consentiti sono quelli per l’agricoltura, anche perché Sark non ha strade asfaltate né illuminazione stradale, e non possiede un porto attrezzato per il turismo di massa.
L’Isola di Sark 3 A Sark il Seigneur è l’unico ad avere il diritto di possedere cagne sterili e piccioni, e vanta il possesso di diritto di tutti i beni riemersi dopo l’alta marea. La legge, inoltre, impone agli abitanti di tenere un moschetto in casa, nell’eventualità che la Francia invada l’Inghilterra. D’inverno si imbarcano sul piccolo traghetto per Sark solo i
residenti. All’arrivo un uomo si offre per una sterlina di portare bagagli e passeggeri su un vagoncino, che traina con il trattore, per il tratto breve ma molto ripido che porta al paese.
L’Isola di Sark 4 Diverse persone svolgono più di un’occupazione, visto che molti lavori – dal trasporto dei passeggeri a quello della posta –
richiedono poco tempo. Persino le cariche pubbliche sono part-time:
il giornalista Ken Hawkes, che a Sark ha dedicato un libro, racconta che negli anni Novanta il siniscalco (il giudice) era un ingegnere elettrico, il cancelliere un fabbro, il tesoriere suo figlio nonché aiuto fabbro, e il prevosto – una figura che coadiuva il siniscalco – un pescatore. Unica nota dolente, la sanità: esiste un presidio medico sull’isola, ma nessun sistema sanitario, così i sarkesi devono ricorrere ad assicurazioni private inglesi.
Il Regno di Tavolara L’isola di Tavolara, un imponente massiccio calcareo che si trova nel golfo di Olbia, rivendica la propria autonomia come regno nella prima metà dell’Ottocento. Oggi è una meta turistica, ma i segni della sua tradizione “regale” sono tuttora visibili: dalla casa
di famiglia, abbandonata, dove svetta una corona simbolo della casa reale, al piccolo cimitero dove riposano le spoglie mortali dei re-pastori. Al centro del cimitero spicca la lapide di Paolo I Bertoleoni, morto nel 1886, da molti ritenuto il capostipite della dinastia.
La Repubblica di Kugelmugel Come Roma col Vaticano, anche Vienna ospita al suo interno uno stato indipendente: la Repubblica di Kugelmugel. Persino molti viennesi ignorano l’esistenza di questa minuscola repubblica, che ha una superficie inferiore ai cento metri quadrati e non è riconosciuta a livello internazionale. Eppure basta farsi una passeggiata per il Prater – il grande parco pubblico viennese – per ritrovarsi alla frontiera di questo piccolo Stato che nel 2009 ha festeggiato venticinque anni di indipendenza dall’Austria. Sull’ingresso (sbarrato) della repubblica svetta il vessillo nazionale, mentre alcuni cartelli ne raccontano la storia. Uno è dedicato al fondatore di Kugelmugel: “Questo luogo è dedicato al grande leader rivoluzionario democratico Edwin Lipburger, che qui iniziò a distruggere la vecchia morale e a combattere e debellare ogni forma di corruzione, qualunque siano le maschere dietro cui si nasconde”.
Stato virtuale del Lizbekistan 1 Il Lizbekistan è uno Stato nato dall’immaginazione dell’artista Liz Stirling, cittadina australiana residente a Parigi. Anche se il centro delle operazioni del Lizbekistan è nella ville lumière, non è possibile stabilire un luogo geografico dove collocarlo, perché la caratteristica di questo Stato è la virtualità – tanto che il suo nome ufficiale è Stato Virtuale del Lizbekistan. La data di fondazione del Lizbekistan è il 29 giugno 1996, quando la Principessa Liz decide di portare avanti un progetto artistico che consiste nella creazione e animazione di uno stato virtuale. Il principato si dota di una moneta, il
“capezzolo”, a causa dell’ossessione della principessa per i capezzoli
dei suoi sudditi. Ne è un esempio il sito Lizvegas.com, che
la sovrana definisce “un posto per i senzatetto lizbeki per carezzare
i loro capezzoli”. Il valore del capezzolo lizbeko viene ancorato
a quello di un pacchetto di sigarette Marlboro. Il motto del Lizbekistan: liberté, égalité, virtualité.
Stato virtuale del Lizbekistan 2 «La Principessa Liz si dota di una decina di ministri, a cui vengono affidati dei dicasteri piuttosto insoliti: c’è il ministro degli incontri sentimentali, quello delle chiacchiere e del tempo perduto e quello delle situazioni imbarazzanti [...] La favola della Principessa Liz, tuttavia, non può durare per sempre e così il Lizbekistan si dissolve di colpo e volutamente in una data simbolica, il 9.9.1999, giorno del compleanno della sua sovrana, che decide di festeggiare la doppia ricorrenza con una festa memorabile. In fondo il Lizbekistan per Sua Altezza Reale non era che una parte di un più ampio progetto di lavoro
sul concetto di cittadinanza, e come tutti i progetti prevedeva un inizio e una fine. I sudditi, però, orfani del loro Stato, decidono di non consegnare all’oblio la favola del Lizbekistan e danno vita al sito Lizbekdiaspora.com in attesa di tempi migliori».
La libera città di Christiania «“You are now entering in the Eu” – state entrando nell’Unione europea. Questo si legge sull’arco di legno all’ingresso di Christiania, ovviamente se lo varcate per uscire. E non è un’esagerazione, perché si tratta davvero di un luogo a sé. La libera città
di Christiania è stata fondata nel 1971, nel cuore di Copenaghen, da un gruppo di hippies che occupò una base abbandonata della marina per ristrutturarla e viverci in comunità. Per quaranta anni Christiania è stata una zona franca in mezzo alla capitale danese, nel distretto di Christianshavn. Un luogo dove le macchine sono bandite e la convivenza si ispira ai principi della “summer of love”. Non senza qualche problema. Perché nell’area di circa 34 ettari su cui si estende, alcune attività, come il libero commercio di droghe leggere, hanno provocato diversi conflitti con le autorità danesi. A Christiania però è stato riconosciuto uno statuto
speciale che l’ha resa, de facto, un territorio indipendente. Anche per questo Fristaden Christiania – questo il suo nome in danese – è stata per molti anni una delle mete irrinunciabili per i libertari di tutto il mondo, attratti dalle sue radici anarchiche. [....] le sostanze pesanti sono bandite e si avvia un’attività di informazione e assistenza ai tossicodipendenti che è ancora oggi una delle attività più importanti. Marijuana e hashish, invece, sono liberamente prodotti, consumati e persino smerciati. Cosa che crea non pochi problemi con le autorità danesi. Sui banchetti degli artigiani, oltre a manufatti e gioielli in metallo, si trovano tavolette di “fumo”. Nasce la cosiddetta Pusher Street, che attrae migliaia di persone anche da fuori Copenaghen. L’amministrazione danese vive con fastidio questo aspetto e col passare degli anni diventa meno permissiva. Nonostante abbia ottenuto lo status di “esperimento sociale”, la fristaden subisce un primo tentativo di “normalizzazione” già nel 1987. [...] Col passare degli anni la vita di Christiania cambia. Se i padri fondatori vivevano nelle roulotte, ora molti abitanti possiedono un’abitazione costruita in proprio, sulla quale non grava alcuna imposta – uno dei vantaggi di vivere in un “esperimento sociale”. Si sono formate molte famiglie e una parte della popolazione
è tutt’ora composta da bambini, tanto che accanto alle botteghe e ai locali dai nomi bizzarri – come il Woodstock pub e il Sunshine Backery – cominciano ad aprire giardini di infanzia. Nel 2000, a uno degli happening musicali di Christiania partecipa un ospite d’eccezione: Bob Dylan. Nella free town l’energia elettrica è ricavata da pannelli solari e l’alimentazione è rigorosamente bio».
Tamisiana Repubblica di Bosgattia 1 «Nell’immediato dopoguerra un gruppo di uomini prese possesso di un isolotto in mezzo al delta del Po che, per dieci anni, ospitò il sogno di una minuscola repubblica lontana dalle imposizioni della società civile. Siamo nel 1946, e anche se questa storia si svolge in provincia di Rovigo, ha poco a che vedere con le ansie
secessioniste che più di quarant’anni dopo avrebbero attraversato le regioni del nord. La Tamisiana Repubblica di Bosgattia è piuttosto
il tentativo di creare un’utopia: prendere armi e bagagli per ritirarsi dalla vita civile, lasciandosi alle spalle obblighi, formalità e persino mogli. Sull’isolotto, che si trovava tra le località di Panarella e Papozze, si radunavano solo uomini che, lasciati a casa gli affetti di mogli e figlie (i figli maschi erano ammessi), si dedicavano a una vita a contatto con la natura, nutrendosi di quello che riuscivano a pescare, o barattando pesci e cacciagione con zucchero e caffè. Un’altra prova del fatto che ai bosgattiani non interessava la secessione politica, ma quella spirituale, sta nel fatto che la repubblica è stata un raro caso di nazione “a tempo”: i cittadini vi si radunavano solo da luglio a settembre. Alla memoria di
Bosgattia oggi è legata una serie di ricette tipiche della zona che
i cuochi della repubblica sapevano realizzare con grande perizia,
raccolte in uno dei quaderni dell’Accademia del Tartufo».
Tamisiana Repubblica di Bosgattia 1 A Bosgattia, nonostante il baratto, esisteva pure una vera e propria valuta nazionale chiamata “çievaloro”. Le banconote, realizzate e controfirmate a mano una per una, avevano tagli di uno, cinque, cinquanta, cento e duecento çievaloro. Il cambio, ovviamente
riferito ai valori dell’epoca, era di un çievaloro per cinque lire italiane. Sulle banconote, che riportano l’epigrafe libertarioanalfabeta della repubblica, compare la stilizzazione di una tenda alla canadese, abitazione caratteristica dei bosgattiani. L’esperienza della Tamisiana Repubblica di Bosgattia si conclude nel 1955.
Il Libero territorio di Mapsulon Mapsulon, piccolo paese
in provincia di Pistoia che si è autoproclamato indipendente alla
metà degli anni Novanta nella totale indifferenza delle istituzioni
italiane.
La Libera Repubblica di Alcatraz 1 Nel cuore dell’Umbria, non lontano da Gubbio, c’è una valle di 500 ettari che ospita il progetto culturale Alcatraz. Niente a che vedere con la prigione americana, anzi si tratta di un posto dove si soggiorna con piacere e in mezzo alla natura. Attivo dal 1981, Alcatraz allestisce “corsi di benessere”, dallo yoga al teatro, passando per i temi dell’ecologia, della sostenibilità, dell’agricoltura biologica. Un luogo dove si cerca di mettere in pratica uno stile di vita diverso da quello delle città. E una comunità che – dopo l’ennesima riconferma elettorale di Berlusconi nel 2008 – ha dichiarato in modo unilaterale e pacifico la secessione dall’Italia, per costituirsi idealmente
come Stato indipendente. Il 25 luglio 2009 viene proclamata la Libera Repubblica di Alcatraz, che si definisce “una nazione fondata sulla poesia”. “Ci siamo resi conto che l’Italia stava per tracollare. E visto che abbiamo l’autonomia energetica, i nostri canali di comunicazione grazie al web, i prodotti agricoli che coltiviamo e abbiamo persino il cimitero, ci siamo chiesti: perché restare italiani? In fondo non abbiamo bisogno di niente”. Questi i motivi della secessione, stando a quanto racconta uno dei suoi fondatori, JacopoFo, figlio del premio Nobel Dario.
La Libera Repubblica di Alcatraz 2 Alcatraz batte moneta: la valuta ufficiale di questa repubblica si chiama “talento”. Un talento vale un euro, e al momento viene usato come mezzo promozionale
della repubblica: ad Alcatraz si possono cambiare altre valute in
talenti e pagare con quelli. Ma in cantiere c’è l’idea di trasformare
il talento in una vera e propria “valuta complementare”, sull’esempio
del Wir in Svizzera. Questo consentirebbe ad esempio alla comunità di Alcatraz di emettere prestiti in talenti.
La Libera Repubblica di Alcatraz 3 «L’autonomia di Alcatraz non è solo questione di “narrazioni alternative”. Esistono progetti concreti, come la realizzazione di un eco-villaggio. Si tratta di qualcosa che va
oltre Alcatraz stessa, perché prevede la realizzazione di una
piazza con il portico, un bar, un bazar, l’albergo, la piscina e
una sala convegni. In parte queste strutture sono già state realizzate.
Mentre le strutture abitative renderanno i consumi molto meno onerosi. “Già adesso abbiamo ridotto i consumi del 60%”, racconta Fo, “grazie ai pannelli fotovoltaici, ai doppi tetti che tengono la casa fresca d’estate, a un’intercapedine d’aria e ai tripli vetri che fanno in modo che d’inverno non si disperda il calore. Mentre il doppio impianto idraulico ci consente
di non sprecare l’acqua potabile (per il water se ne usa una di qualità inferiore)”. L’eco-villaggio, oltre a essere un tentativo di realizzare l’autonomia energetica, è anche una filosofia di vita. Una filosofia ispirata alla cooperazione, che chi vive nella valle già mette in pratica: ad esempio è una sola macchina a portare i bambini a scuola, e c’è un solo impianto di irrigazione per gli orti delle varie abitazioni. Un modo di fare quasi scontato per chi abita in campagna, dove l’aiuto reciproco aiuta a superare le difficoltà del vivere isolati. Ma anche un meccanismo economicamente
vantaggioso».